Annotazioni sulla tragedia greca

ANNOTAZIONI SULLA TRAGEDIA GRECA

 

Aristotele nel IV Capitolo della Poetica indica nei corifei eksarxontes del ditirambo il punto di partenza della tragedia. La parola greca eksarcantes può indicare sia i cantori, che introducono nel parodo (parà odon –entrata in scena), sia quelli che si avviano (episodio) (epì eis odòn), sia quelli che si contrappongono al coro che risponde. Il ditrambo viene considerato il canto dell’anima. Archiloco si vanta di sapere intonare il bel canto di Dioniso quando il vino trascina il suo spirito.

Il ditirambo, in effetti, è il canto del culto di Dioniso.

 L’autore, che trasformò il ditirambo in forma d’arte, è senz’altro Arione, che ne curò la rappresentazione ad opera dei Satiri. Donde la verosimiglianza dell’interpretazione della parola tragedia riconducibile a tràgon odè= canto dei capri.

Grande valenza nella tragedia e nei cori, che l’accompagnano, invero, ha la componente satiresca.

 Congiuntamente a questa non può essere disconosciuta nella tragedia la pregnanza del mito eroico, connesso al culto di Dioniso, espressione del simbolo della duplice natura umana e divina.

Nel mito eroico la tragedia trovò contenuti, che vivendo di una vita innata nel cuore del popolo, come parte della sua storia, in pari tempo assicuravano ai temi trattati quella distanza, che è presupposto indispensabile per la grandezza dell’opera d’arte, come ci viene attestato da Aristotele ed in tempi più recenti da Hegel e Nietzsche.

I contenuti mitologici trovavano la loro resa artistica nei versi recitativi, che sovente si accompagnavano al coro con la partecipazione dell’attore- hupochritès –interprete- creando una situazione di commozione altamente lirica.

Temistio riferisce, come opinione di Aristotele, che in un primo periodo il coro solo cantava e che Tespi, che per primo presentò una tragedia alle Grandi Dionisiache nella 61^ Olimpiade, inventò il prologo e il parodo dando grande importanza alla rèsis –elemento narrativo- recitativo- con cui il coro annunciava nel prologo gli eventi che sarebbero occorsi nel corpo della tragedia, ovvero sottolineava gli stati d’animo nel momento in cui informava il pubblico degli atti drammatici e ferali. Infatti, nel rispetto della religiosità greca, non era concesso rappresentare nella scena delitti e misfatti.

Era affidato per l’appunto al coro il compito di enunciare gli eventi cruenti suscitando in tal modo negli spettatori un pathos profondo, che nel sublime dell’arte, sempre secondo la concezione aristotelica, conduceva  alla catarsi.

 

DIONISO- ARTE MELICO-DRAMMATICA ED ETHOS- CATARSI

 

Unico tra i celesti che non abbia due dei per genitori. Dioniso ebbe per padre Zeus e per madre la mortale Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe.

 Zeus si presentava a Semele sotto le mentite spoglie del marito, al tempo impegnato in guerra.

 Il che accese la gelosia di Giunone che svelò il segreto a Semele.

 Semele allora chiese a Giove, che le si era si ripresentato nell’ingannevole aspetto del coniuge di mostrarsi, come le era sto suggerito dalla gelosissima Giunone, nel suo attributo divino.

Come è noto l’attributo divino di Zeus è la folgore. 

Nessuna divinità, secondo la concezione della mitologia greca, poteva celare il suo attributo fondamentale e a questa legge era sottoposto lo stesso Zeus, che dovette esaudire la richiesta di Semele.

Rivelatosi  Giove nel suo attributo conseguentemente Semele viene arsa viva.

 Nel grembo di Semele era fecondato il feto di colui che risarebbe chiamato in seguito Dioniso, frutto dell’amore con il dio

 Zeus allora tolse dal grembo della donna il feto non ancora formato, lo cucì ad una coscia, donde lo trasse a concepimento completo.

 Il re degli dei affidò poi il piccino ad Hermes, che lo diede ad allevare ad Ino, sua zia materna.

 Ma, dopo che l’ira della gelosa Giunone ebbe raggiunto e colpito anche Ino, Dioniso fu affidato alle ninfe Nisee, donde il nome: Dioniso- figlio di Zeus (diòs è in greco il genitivo di Zeus e Niso- dalle Ninfe Nisee.= allevato dalle Ninfe Nisee).

Dioniso ebbe tra i primi compagni anche Sileno e, diventando adolescente, imparò l’arte della viticoltura.

Il suo culto enormemente diffuso si estese in tutta la Grecia e l’Asia minore; in suo onore venivano celebrate grandi feste dette per l’appunto dionisiache.

 I Romani lo chiamarono Bacco e lo fusero con il dio Libero in analogia forse all’epiteto greco spesso rivolto alla divinità luaiòs- da lùo- in greco- sciogliere = colui che scioglie dagli affanni attraverso l’ebbrezza del vino. Orazio conseguentemente chiama il dio Lieo.

Ci siamo soffermati a parlare del mito di Dioniso perché anche il racconto tramandato della sua nascita e della sua adolescenza contiene i germi fecondi che saranno poi traslati nell’inventività poetica della tragedia.

L’idea dionisiaca,infatti, penetra nei tragikoi choroi.

 Secondo Untersteiner nella duplice natura del dio, quella umana e quella divina, si delinea il principio della contraddittorietà, che è un aspetto fondamentale dei choroi in particolare e della tragedia in generale.

 Dice Untersteiner “ Dioniso nella sua forma originaria mediterranea era un dio della vegetazione e perciò in sé compendiava l’idea della vita e della morte”

Il che ci induce a pensare che la rappresentazione della tragedia celebrava il magnifico fenomeno, determinato dalla duplice natura del dio, ponendo in risalto tutte le altre situazioni esistenziali e metatemporali che enucleano il principio di contraddittorietà presente nel vivere umano.

 Nel dio, infatti, si rivela la contraddizione implicita che manifesta la compresenza, in un solo essere di vita e di morte, di ebbrezza del vivere e di pathos profondo.

Dell’argomento si è interessato anche Walter F.Otto, che scorge in Dioniso il dio che soffre e che muore e, a un tempo, il dio giocoso e trionfatore.

 Nel simbolo della divinità l’uomo scorge gli ultimi segreti dell’essere e del non essere. Il mito di Dioniso, trasferito nella tragedia, induce lo spettatore a riconoscere il dio che dà l’ebbrezza della vita, ma che al contempo deve soffrire quel pauroso destino che affligge tutti quanti gli esseri umani.

 Chi partecipa ad un culto dionisiaco e/o ad una rappresentazione della tragedia greca, contempla nel suo animo la contraddizione dialettica di gioia e dolore, di ebbrezza e di angoscia, di cui si intesse il filo della vita stessa.

 Invero ogni eroe, rappresentato nella tragedia greca, è travagliato da almeno una contraddizione elementare, quella di essere un morto ed a in tempo un essere divino.  Il mito eroico e la religiosità dionisiaca sostanziano il grande fenomeno letterario della tragedia greca determinandone la fondante essenza poetica.

Il mito dionisiaco, congiunto al mito eroico, consente alla tragedia greca di raggiungere il sublime dell’arte, che si prefigge anche uno scopo pedagogico originato dalla catarsi dell’anima.

 Dice Aristotele nel cap.IV della Poetica “La tragedia è imitazione di azione seria e compiuta, con una determinata ampiezza, in uno stile seducente mediante ciascuna specie delle sue manifestazioni separatamente nelle sue parti e l’azione è dovuta ad attori e non esposta in forma narrativa. Per mezzo della compassione e della paura ottiene come risultato la purificazione (catarsi) ”.

 Si propone in tal modo una stretta connessione tra arte ed ethos e questo principio non riguarda soltanto le parti recitative della tragedia, ma comprende anche quelle musicali.

 Aristotele, infatti, ha connesso la musica del flauto col ditirambo, sia storicamente sia sotto il rispetto dell’ethos musicale.

Nel cap.VII della Politica, contrapponendosi a Platone, che aveva bandito il flauto dagli strumenti musicali il filosofo così si esprime “ Eppure tra le armonie la frigia ha la stessa forza che il flauto fra gli istrumenti; poiché pongono in una sfera di festività e sono appassionati. Lo mostra la poesia; poiché ogni poesia bacchica e ogni movimento ha tra gli organi come il più adatto il flauto, e questa poesia e questa danza trova la più decorosa corrispondenza nei canti frigi. Si ritiene concordemente che il ditirambo sia d’origine frigia. E di ciò offrono molti esempi coloro che questi hanno approfondito, tra gli altri quelli di Filosseno, il quale,essendosi accinto a poetare in tono dorico i miti, non vi riuscì; ma dalla natura stessa del carme fu costretto a tornare all’armonia frigia”.

 Aristotele, inoltre, in Poetica (6,13 a21-24) spiega gli effetti che il flauto produce nell’animo degli spettatori “ Il flauto non esplica una funzione etica, ma piuttosto produce lo stato d’animo dei sacri dròmena (riti effettuati in onore degli dei); in altre parole pone in una sfera di festività, cosicché conviene ricorrere a esso in quelle particolari situazioni, nelle quali la contemplazione (thèoria) ha la potenza di produrre catarsi, piuttosto che l’imparare”

Il succitato brano di Aristotele è particolarmente significativo, in quanto oltre alla precettistica estetica, stigmatizza l’aspetto fondamentale della paidea greca.

Secondo il filosofo, infatti, al di là di una prassi morale concepita in astratto, è necessario che questa si evolva nell’uomo attraverso la thèoria (contemplazione che trascende dalla mera conoscenza màthesis ed induce alla catarsi (dal greco katà +aìro= sollevare su- in altri termini- sollevazione- sublimazione[ dell’anima] .)

In Aristotele di conseguenza i principi etici, estetici, gnoseologici si compongono nella concezione dell’arte in un sinolo indissolubile.

 Il principio estetico si fonde con quello pedagogico ed avvia un discorso presente attraverso i secoli nella storia letteraria di ogni tempo.