Da Beatrice a Clizia
Studio comparato su Dante e Montale
E. Montale – La primavera hitleriana
Approfondimenti
Intertestualità con Dante
EUGENIO MONTALE
La primavera hitleriana
Né quella ch’a veder lo sol si gira
DANTE (?) a Giovanni Quirini
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
S’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a san Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud….
PARAFRASI
“La lirica fu iniziata o abbozzata nel 1939 e portata a termine nel 1946-47 nell’estrema stagione della trasfigurazione di Clizia nell’apice dell’opera montaliana che sono le Silvae del terzo libro.
Qui sono confrontati quel vero e proprio prologo delle tenebre che la visita di Hitler a Firenze simboleggia e la possibile alba di salvezza rappresentata da Clizia, che per la prima volta viene chiamata col suo nome senhal, senza che i due eventi, che pure precedono e seguono la bufera, siano collocabili in un prima e dopo cronologici, come figure di tempi storici diversi: come il male ha natura ontologica e non sempre scompare con la fine della guerra la morte dei “messi infernali”, che l’hanno scatenato, così il bene non è certo un retaggio della nuova era conservando misure escatologiche.
Non per nulla male e bene, orrore e salvezza convivono in quella metafora del “bianco” che percorre tutta la poesia, ora come nevicata sinistra delle farfalle, ora come luce dell’alba senza raccapriccio, così che le sirene e le campane che annunciano la visita dei “mostri” possono essere anche segno del possibile evento di salvezza.
Nel giorno della visita del dittatore tedesco a Firenze, nel maggio del 1938 scende nella città una nuvola di falene, che stende sulle strade e sulle rive del fiume una coltre di ali bianche, che scricchiolano sinistramente sotto il piede, nella città pavesata di croci uncinate e sparsa dei segni della prossima tragedia bellica sembrano perdere senso gli opposti segni cliziani, ma nel cuore stesso della tragica mascherata s’installa il messaggio della missione redentiva della donna”.
(E. Gianola)
ANALISI DEL TESTO
Avantesto
Né già ch’ a veder lo sol gira
( Dante(?) a Giovanni Quirini)
E’ il verso 9 del sonetto attribuito a Dante e diretto a Giovanni Quirini.
Si riferisce al mito di Clizia trasformata in girasole dopo che il suo amore per Apollo non fu corrisposto.
La vicenda è narrata da Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi al v. 270 “vertitur ad solem mutataque servat amorem” (si volse verso il sole ed anche così mutata conserva l’amore), ripreso al v.10 del citato sonetto e che ci conduce al v.34 di questa poesia montaliana “che il non mutato amor mutata serbi”.
STROFE PRIMA
La lirica si apre con la seguente rappresentazione paeseggistico-lirica “folta nuvola delle falene impazzite/ turbina intorno agli scialbi fanali e alle spallette”che possiamo considerare come momento proemiale. Il linguaggio, alla maniera proprio di Montale, è “scabro ed essenziale”e si rapporta allo stato d’animo del poeta.
La nuvola è bianca e proprio la “metafora del bianco”, può essere considerata un ipersegno in tutto il contesto poetico della lirica.
L’epesegetico “delle falene” (farfalle crepuscolari) “impazzite” ci riconduce a tutto quanto il mondo montaliano, all’ansia del poeta, che, propriamente nella cifra poetica, fa vibrare il sentimento di un disordine cosmico e al contempo la tormentata ricerca dell’Altro che vivifichi l’essenza stessa della vita.
Lo stato d’animo del poeta è semantizzato, inoltre, dal termine“turbina”e dai correlativi “intorno agli scialbi fanali” (lampioni)“e sulle spallette” (muretti del fiume)che simboleggiano la tragicità dell’existere del poeta nel tempo storico in cui vive.
E, se nel termine“turbina”, possiamo notare ancora un’ansietà del vivere, pur nella semioscurità delle incertezze “scialbi fanali”, assai più drammatica ci appare l’immagine dei versi successivi: “stende a terra una coltre, su cui scricchia come su zucchero il piede;……”(vv.3-4).
L’asperità del linguaggio e la rappresentazione realistica sono una trasposizione lirica del sentimento umano del “fallimento cosmico”.
Il fonosimbolismo, inoltre, contenuto con forte pregnanza onomatopeica nelle parole “scricchia” e “zucchero”, traduce anche a livello fonico il senso di trepida ed angosciosa attesa di un sinistro presagio.
Ma proprio, all’interno del v. 4, immediatamente dopo la comparsa della raccapricciante coltre, seguita dal sinistro calpestio dell’uomo, e, che sembra dolorosamente ritmare il processo di dissoluzione e morte nel mondo, balena fulminea l’immagine dell’estate “l’estate imminente sprigiona / ora il gelo notturno che capiva/ nelle cave segrete della stagione morta, / negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai” (l’estate, che sta arrivando (imminente), ora emana (sprigiona) il gelo notturno che era ancora racchiuso (che capiva-verbo intransitivo “capire”) nei nascondigli (nelle cave) della morta stagione (dell’inverno) – (nota esplicativa di R. Luperini); il paesaggio è simbolo di una situazione dell’anima che interpreta una disarmonia cosmica sincronica alla drammaticità del momento storico.
I dati realistici della rappresentazione, anche a livello formale-stilistico, ci ricordano la poetica dantesca; compaiono, inoltre, le variabili antinomiche presenti in tutto il componimento nella resa stilistico-retorica dell’ossimoro di fuoco/gelo, ravvisabili nei campi semantici antecedentemente citati; l’“estate” imminente sprigiona ora il gelo notturno”.
La contrapposizione dialettica dei termini la rinveniano all’interno di tutto quanto il componimento poetico (cfr. vv.28-30) “tutto arso e succhiato da un polline che stride come il fuoco / ed ha punte di sinibbio.”.
Si può, pertanto, dedurre, che la presenza dell’ossimoro non è da considerare soltanto una costante stilistica di tipo retorico nella poiesi montaliana, ma che deve essere riferita al polisenso del mondo umano e poetico dell’autore.
Non solo la coppia gelo/fuoco, ma anche i campi semantici cieco sole/alba bianca/greti arsi del sud sono da intendere come segni dell’anima poetica dell’autore, che interpreta, vivendolo in pieno, il reale storico per riproporlo, poi, nelle regioni superne della sua poesia.
STROFE SECONDA
Il disordine cosmico, prefigurato nella prima strofe, inquadra nella seconda la comparsa di un messo infernale (Hitler) accompagnato dai suoi sgherri (scherani).
Tutti partecipano in qualche modo alla sua festa e sono coinvolti, anche se miti, in una grande colpa storica.
Il fatto storico si connota per il poeta come insopprimibile momento dell’umana esperienza da comunicare a tutti quanti gli uomini.
Per Montale, che accoglie la grande lezione di Dante, l’opera d’arte ha bisogno di incarnarsi nella storia e di ripetersi fra gli uomini con un tempo, che, seppure transeunte e non trascendente, come quello dantesco, trasfigura il contingente.
La storia e gli uomini, il fallimento cosmico e la possibilità di salvezza attraverso la poesia: questi sono i temi che ruotano intorno alla poetica montaliana e che ci sembrano mirabilmente condensati in questa lirica.
Ma, dovendoci occupare in particolare dell’esame della seconda strofe, cercheremo di analizzarne i campi semantici più significativi, con cui viene presentato il messo infernale in un’atmosfera tragica e grottesca, che richiama il Dante soprattutto degli ultimi canti dell’Inferno, e per forme di realismo figurale-espressivo e per le movenze fonosimboliche.
La componente predominante della strofe è, infatti, quella demoniaca.
“Da poco è passato a volo un messo infernale”.
Montale colloca in un tempo di poco precedente a quello della prima strofe la venuta del “messo infernale”, seguito da un coro di“alalà”.
Il termine di antica origine greca era noto al poeta come grido dannunziano, fatto proprio dagli scherani (fascisti), che inneggiano al dittatore.
E’ senz’altro da rilevare come l’onomatopeia contribuisce a dare al componimento contorni sonori che rendono ancora più viva e palpitante la scena, così pure come l’uso raro della parola“scherani”, con valenza del tutto spregiativa, connota la condanna che il poeta fa della storia del tempo.
La strofe procede con una fitta rete di ossimori, contrapposizioni dialettiche di termini, che simboleggiano il disagio esistenziale del poeta ed insieme il suo interesse per una poesia che assolva prevalentemente alla sua funzione di riscatto umano e civile.
La nominazione del golfo mistico (sineddoche per teatro-così, infatti, veniva chiamata nella sistemazione del teatro moderno, ideato da Riccardo Wagner, la parte riservata all’orchestra) è usata dal poeta certo in forma antinomica rispetto al “messo infernale”, che lo occuperà, accompagnato dalle urla degli scherani.
E proprio “il golfo mistico” ha preso ed inghiottito Hitler.
Il dittatore sembra essere sommerso nella folla dalle ignare, ma non per questo incolpevoli acclamazioni.
Ma, se per un momento il personaggio demoniaco sembra annullarsi, il poeta non può fare a meno di cogliere con un’immagine di alta densità lirica il modo con cui viene allestito il“golfo mistico”.
Il luogo, è, infatti, “acceso”, (il vocabolo ha un’accezione icastica nell’atmosfera lugubre dominante nella scena) e “pavesato” (addobbato-altro elemento antifrastico) “di croci ad uncino (simbolo nazista), che sono senz’altro ineluttabili segni di distruzione e di morte.
Nei versi che seguono si enunciano le catastrofiche conseguenze che l’evento produce.
Sono state chiuse le vetrine povere, cioè dotate di scarse merci ed inoffensive, benché anch’esse armate di cannoni e di giocattoli di guerra.
Anche il beccaio (macellaio-beccaio è un termine anche usato da Dante) che infiorava (adornava) il muso dei capretti uccisi, ha sprangato (chiuso) il negozio.
Tutto sembra fermarsi in un attimo; ma è proprio in quest’attimo che Montale ci esprime in forma lirica, unitamente alla sua angoscia esistenziale il dramma dell’uomo contemporaneo, che considera, però, non incolpevole del misfatto storico.
Significativa, allora, ci appare la presentazione delle “vetrine, povere ed inoffensive/ benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra”. (vv.11-13).
La contrapposizione dei termini povere /inoffensive/ giocattoli con armate/ cannoni/ guerra c’induce a riflettere sulla condizione di dubbio, incertezza e di ossimoricità in senso lato dell’uomo coevo al poeta, che, però, nel plaudire al dittatore, si rende responsabile dell’incombente minaccia dello sterminio del mondo.
Gli stessi giocattoli, infatti, preconizzano gli ordigni di morte, mentre “i capretti uccisi” sono un evidente simbolo sacrificale che ricorda il destino delle vittime innocenti del nazifascismo. L’aspetto sacrificale è accentuato dall’ornamento delle “bacche sul muso”. L’antinomia storica del tempo e la conseguente lacerazione dell’esistenza del genere umano sono stigmatizzate dalla contrapposizione dei termini: vita/morte- capretti uccisi / infiorava.
Ne segue il giudizio negativo sulla storia e sull’inerzia totale degli uomini del tempo, che con un ossimoro assai forte vengono definiti “miti carnefici”, anche se, come aggiunge il poeta, “ancora ignorano il sangue.”
Coloro che, invero, festeggiano Hitler, proprio con il loro conformismo, diventano complici del grande sbaglio della storia.
La loro sagra (vera e propria festa popolare) si tramuta in “sozzo trescone d’ali schiantate, / di larve sulle golene”.
Ricompare l’atmosfera macabra sottolineata anche dal ritmo del “sozzo trescone” (orrido ballo) -il termine trescone, usato in senso spregiativo e che ha il suo etimo in “tresca- imbroglio”, conferisce alla movenza scenica aspetti terrificanti simili ad alcuni “loci”dell’Inferno dantesco.
La danza, inoltre, è un motivo ricorrente nella poesia montaliana ed indica movimenti esagitati di dispersione irrazionale.
Nella medesima silloge, infatti, la lirica Bufera, che apre la sezione Finistere, ci presenta un’altra danza: il fandango (danza tipica andalusa) ai vv.16-19 “e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere/ dei tamburelli sulla fossa fuia, / lo scalpicciare del fandango, e sopra/ qualche gesto che annaspa”.
Possiamo certamente notare, attraverso la lettura comparata delle due liriche, un’isotopia: anche in Bufera, invero, lo scatenarsi della guerra è evocato con lo stesso sarcasmo amaro e con immagini talora riduttive che sembrano contrapporsi alla tragedia dell’evento bellico.
Allo “schianto rude”, che, come spiega lo stesso Montale, richiama immagini di guerra si accompagnano “i sistri” (antichi strumenti musicali egizi, fatti di lamine di metallo che vengono percosse) ed il “fremere di tamburelli”.
Come in Primavera hitleriana anche in questa lirica il poeta sottolinea la dissoluzione degli eventi storici e privati, individuali e collettivi , ricorrendo ad una rappresentazione tanto farsesca quanto drammatica.
E’evidente che anche in questa poesia è raffigurata la folla ignara, ma non “incolpevole”, che inneggia con toni trionfalistici alla propaganda di guerra.
L’elemento comico-realistico, e che, più propriamente preferiamo definire grottesco, sia in questa lirica che in quella, oggetto della nostra analisi, fa da contrappunto al cupo evolversi degli eventi. Da questa contrapposizione nasce quel realismo completamente lirico proprio del nostro poeta.
Alla sinistra folla carnevalesca, infatti, si mescolano suoni ed immagini di tipo ben diverso ed antitetico: “schianto rude”….“fossa fuia” (termine dantesco- il Contini parla di un “sagace dantismo”non è ladron, né io anima fuia- Inf. XII, v. 90- dice Virgilio di sé e di Dante al centauro Chirone) fuia = ladra-baratro che inghiotte coloro che sono morti a causa della violenza della guerra) … “qualche gesto che annaspa” gesto di chi cerca di scampare alla catastrofe, alla “fossa fuia”.
Il verbo “annaspa” indica un moto affannoso e convulso dell’uomo nel buio della storia.
Ma, se il “gesto”in questa lirica ci appare alquanto disperato, assai più drammatica è la visione delle “ali schiantate” in Primavera hitleriana.
Ritorna la voce semantica dello“schianto”con tutte le implicazioni di acuto dolore che si ripercuote in tutta quanta l’umanità. All’uomo però non è concesso neanche quel gesto estremo evocato nella precedente lirica.
La sua condizione è quella di“larve sulle golene” (argini del fiume).
E, se nel primo verso alla“folta nuvola delle falene”si attribuiva la condizione di“impazzite”, (si ponga mente al fatto che i derivati dal verbo impazzire ricorrono spesso nel cifrario linguistico-poetico di Montale e semantizzano, nel turbine dell’esistenza, l’ansia dell’uomo, proteso al suo riscatto nella dimensione metafisica dell’esistenza – basti ricordare in Portami il girasole“il girasole impazzito di luce”o in Casa dei doganieri “la banderuola impazzita”-), la visione delle “ali schiantate”, che precede quella delle “larve”, sembra annullare ogni segno di attesa e speranza. Di metafisico adesso non c’è che il nulla.
Non un gesto, non una parola.
La popolazione, che assiste al trionfalismo del dittatore, è paragonata a tanti fantasmi sugli argini del fiume, ad un insieme di ombre, che non hanno il coraggio di agire, e per questo è colpevole.
E la storia allora? “l’acqua seguita a rodere le sponde”. Il poeta esprime ivi il senso più alto e commosso del suo pessimismo storico.
Gli eventi (l’acqua seguita a rodere le sponde), che inesorabilmente continueranno ad adempiere la loro opera distruttrice, preconizzano l’avvicinarsi della tragedia e l’ineluttabilità della catastrofe.
Questa concezione della storia Montale la ripropone in Satura in una lirica che per l’appunto s’intitola La Storia: “La storia non si snoda /come una catena/ di anelli ininterrotta./ In ogni caso / molti anelli non tengono./ La storia non contiene il prima e il dopo, / nulla che in lei borbotti/ a lento fuoco./ La storia non è prodotta/ da chi la pensa e neppure /da chi l’ignora……”.
Il poeta, invero, pur contrapponendosi ad ogni concezione, sia di stampo idealistico che marxista della storia, non può fare a meno di affermare che la storia non può essere fatta da chi l’ignora (chiara allusione al popolo che veniva travolto dalla bufera del tempo, senza, però, comprenderla).
Il pessimismo montaliano mette in evidenza la radicale ed incolmabile estraneità della storia nei confronti dell’individuo, che non può ritrovarvi certezze o consolazione.
Però, nell’ombra cupa del suo pessimismo, come vedremo nel prosieguo dell’analisi della lirica, cerca un “varco”.
“Nessuno è incolpevole”; ognuno è compartecipe della comune sorte di lutti e tragedie; la denuncia manifesta la vocazione sociale e civile della poeta congiuntamente al suo impegno militante di letterato e di uomo tra gli uomini del suo tempo.
STROFE TERZA
Le immagini di morte e di distruzione sembrano trionfanti fin quando un interrogativo, all’inizio della terza strofe, “Tutto per nulla, dunque -?” crea un campo di tensione che culminerà con l’epifania di Clizia.
Si nota subito il mutamento dalla prima parte della lirica: al sangue e ai movimenti esagitati delle falene subentrano immagini di luce.
E’ evocata la partenza della donna amata; le parole stesse mutano segno e diventano, per dirla col poeta stesso, “parole di fede e di speranza”.
Ed i segni della fede e della speranza, liricamente espressi nell’evocazione del distacco, che ritorna alla memoria, con l’immagine delle“candele romane” (i fuochi di artificio) “che sbiancavano” (illuminavano) “lente l’orizzonte”, si riferiscono proprio a lei (Irma Brandeis-Clizia).
Si noti la metafora del “bianco” (sbiancavano) che permane in tutta l’ispirazione poetica della lirica.
Le candele hanno altresì un valore simbolico e sono segnali di salvezza, legati a Clizia, come pure i “pegni e i lunghi addii / forti come un battesimo………”.
I pegni, intesi nel valore semantico proprio, testimoniano altresì la fedeltà di Clizia al suo ruolo di donna salvifica dal momento che il poeta li definisce“forti come un battesimo”e quindi carichi di forza redentrice.
E tuttavia“nella lugubre attesa dell’orda”, nel cielo illuminato dai fuochi di artificio si manifesta un evento prodigioso che annuncia la speranza.
Una stella cadente (gemma) riga l’aria stillando (facendo cadere come stille) luci minori che il poeta interpreta come angeli di Tobia e come semi (la semina dell’avvenire) di un avvenire migliore proprio nel paese di Clizia, gli Stati Uniti, raffigurati come un paese di ghiacciai e di fiumi (v.25): “sui ghiacciai e le rivere dei tuoi lidi”. Per alcuni critici il poeta vorrebbe alludere all’attesa dell’arrivo delle truppe americane che avrebbero liberato l’Italia dai Tedeschi.
Anche a livello semantico questa ipotesi potrebbe avere la sua giustificazione, se accogliamo l’interpretazione del Gianola, secondo la quale “i ghiacciai connotano un nord sacrificale e redentivo, il regno delle alte nebulose” e se la rapportiamo per antitesi con le parole che concludono la lirica “ai greti arsi del sud….”.
Un’altra componente fondamentale di questa strofe è il ricorso alle fonti bibliche.
Il poeta, che, nella prima parte della poesia aveva echeggiato Dante, nella rappresentazione macabra del “messo infernale”, adesso, seguendo l’esperienza dell’illustre fiorentino, ripropone temi biblici, adattandoli alla contingenza storica in cui vive.
Non vi è dubbio che la vicinanza con Irma Brandeis, studiosa dei Padri della Chiesa, avrà decisamente influito a far maturare in Montale queste nuove conoscenze vissute, però, sempre con originalità di inventiva poetica, come avviene nell’evocazione degli angeli di Tobia, germinati come stille dalla gemma che rigò l’aria.
E’ un’immagine di assoluta concentrazione lirica che rinvia ad un “sovrasenso” di carattere allegorico-figurale come in Dante.
Gli angeli di Tobia sono “figura”, anticipazione di un mondo migliore (la semina dell’avvenire).
Nel libro biblico dell’Antico Testamento, dedicato a Tobia, sette sono gli angeli tra cui Dio scelse Raffaele per guidare Tobia, come sette sono i mariti di Sara morti uno dopo l’altro prima che ella possa congiungersi con Tobia “dando così inizio a una nuova generazione destinata al riscatto, alla terra dei “padri”: una speranza, dunque, qualcosa di positivo che deve nascere e ciò giustifica l’accostamento tra Tobia e Clizia” (nota esplicativa -L.Poma-C.Ricciardi).
Nel testo biblico (Tobia 12,15) così si legge: “Raffaele, uno dei sette angeli di Tobia che vanno e vengono davanti alla gloria del Signore.”.
Nei versi che concludono la strofe, però, incombe nuovamente l’atmosfera tragica.
Tutti i segni positivi, che avevano accompagnato Clizia, sembrano dissolversi “tutto arso (bruciato) e succhiato (divorato) da un polline che stride ed ha punte di sinibbio” (vento gelido del Nord).
Sinibbio possiamo considerarlo un iponimo rispetto all’iperonimo “gelo”ed ancora una volta attraverso la coppia fuoco-gelo il poeta ci rappresenta l’ossimorocità del vivere.
STROFE QUARTA.
“ Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte”
L’inizio della quarta strofe ci riporta all’incipit della lirica.
La primavera è ferita; il gelo e la caduta delle farfalle l’hanno colpita; eppure il poeta auspica che possa ancora inneggiarsi alla festa, se trasforma nel gelo della morte “questa morte”, simboleggiata dall’imperversare del “messo infernale”, attorno a cui si scatenava il “sozzo trescone”.
A livello stilistico è da rilevare la duplicatio della parola “morte”, che nel secondo posto, è accentuata dall’eidittico “questa”. Lo sconvolgimento cosmico della “nevicata”, visto prima come male, ora è considerato come possibilità di distruzione del male.
E proprio, all’interno dello stesso verso, gremito dei segni della morte, è lo scatto dell’invocazione a Clizia, che viene pregata di assumere il suo ruolo di donna-girasole che guarda in alto. “Guarda ancora / in alto, Clizia, è la tua sorte, ……” .
Siamo al momento della mitopoiesi.
Clizia per amore si muta in girasole e guarda in eterno il sole “il non mutato amore ancora serbi”; per il poeta, come nella grande avventura mistica dantesca, il sole s’identifica con Dio.
Ne consegue la visione salvifica della donna“fino a che il cieco sole che in te porti / si abbacini nell’Altro e si distrugga/ in Lui per tutti”. Clizia porta dentro di sé un amore segreto (cieco).
Il termine cieco si può intendere anche come “privato” “individuale” e si contrappone all’amore divino (Altro), in cui la donna salvifica si abbaglia (abbacini) e si distrugge per salvare l’Umanità. La donna, che arriva a confondere il suo amore con quello divino, non approda ad una beatitudine di tipo mistico, ma assume in pieno il suo ruolo sacrificale.
Ed il suo annullarsi nella volontà divina si connota cristologicamente come riscatto per tutti.
Anche in questi versi il poeta, che ricorre ad un cifrario stilistico ben preciso: la coppia degli opposti- luce/ cecità, consunzione/ salvezza–, tipica del linguaggio mistico di ogni tempo e non certo ignoto a Dante, sviluppa in una resa di tensione lirica la complessità del suo mondo ideologico-culturale e spirituale. Il contrasto dei campi semantici ci annuncia l’ultima parte della lirica vv.37-39. “Forse le sirene, i rintocchi/che salutano i mostri nella sera/della loro tregenda”.
E’ significativo l’avverbio “forse”, che, all’inizio del periodo, esprime l’ideologia ed insieme lo“status anini” del poeta, non incline a soluzioni filosofiche di tipo idealistico-ontologico, ma tutto calato in una filosofia probabilistica ovvero delle “occasioni” del vivere.
Tempo storico e tempo assoluto diventano un tutt’uno nella coerenza della creazione poetica.
Echeggiano i suoni ed i rintocchi delle sirene che salutano i mostri (i nazisti) nella sera e viene evocato il diabolico ballo (tregenda), che, come nelle strofi precedenti, sottolinea l’esagitarsi di atteggiamenti irrazionali ed inconsapevoli.
Suoni e rintocchi (vv. 41-43) “ si confondono già /col suono che slegato dal cielo, scende, vince-/ col respiro di un’alba che domani per tutti/ si riaffacci bianca ma senz’ali/ di raccapriccio, ai greti arsi del sud”.
I rintocchi, che salutano i dittatori, si trasformano in un suono, che scende dal cielo annunciante vittoria in mezzo a tutti i segni di distruzione e di morte, colla metafora di un’alba, che seppure porta sempre i segni del dolore e della tragedia, (l’alba è bianca così come bianca è la “nuvola delle falene impazzite”), si contrappone alla“sera della tregenda” e non reca in sé i segni luttuosamente angosciosi della disperazione e della morte “ma senz’ali di raccapriccio”, rappresentazione, che ci riconduce all’antitesi enunciata dall’avversativo ma, al v. 17 “ le ali schiantate”.
L’’epifania di Clizia si propone come momento di attesa, di riscatto e di salvezza per tutti quanti gli uomini accomunati nella speranza di un futuro migliore.
L’alba, inoltre, che si affaccia ai “greti arsi del sud”, fa insorgere la speranza di un riscatto proprio in un mondo, come quello del sud, che è figura di tutto il dramma storico-esistenziale del periodo. A livello semantico questa condizione interiore dell’uomo è espressa dal termine “arsi” che ci rimanda ai già citati versi vv.27-29 della lirica“tutto arso e succhiato/ da un polline che stride come il fuoco /ed ha punte di sinibbio”.
Questa notazione ci permette ancora una volta di affermare che la poesia si presenta del tutto unitaria sul piano formale della coerenza lirica e ci induce a riflettere sulla concezione del tempo in Montale e sul suo ruolo di letterato e poeta.
Del che ci occuperemo innanzi.
LIVELLO METRICO
Concorre all’efficacia della poesia il movimento ritmico: i versi liberi lunghi hanno un andamento lento. L’accelerazione del ritmo è scandita dagli endecasillabi.
I versi lunghi liberi si rapportano in genere ai momenti più cupi, mentre gli endecasillabi propongono i momenti in cui si dilegua l’angoscia e appaiono i segni della speranza.
APPROFONDIMENTI
Dalla lettura della lirica possiamo desumere che Montale si è avvicinato a Dante non soltanto per l’impianto artistico di alcuni aspetti linguistici e livelli formali, ma soprattutto per alcune tematiche fondamentali, che stanno alla base dell’ideazione allegorico-lirica, di cui si nutre la sua poesia.
Così, com’era avvenuto per Dante, la vicenda personale dell’autore si trasporta su “un piano di astrattezza metafisica e di universalità”.
Questa è la tesi del Luperini, che noi accogliamo pienamente, anche leggendo il primo verso della Commedia: “nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai…”. E’ ormai luogo comune, accettato da tutta la critica dantesca, che il nesso tra l’io esistenziale di “mi ritrovai” contrapposto a “nostra vita”, indica proprio nel proemio il messaggio del poeta, che dalla sua esperienza personale, fa nascere un’opera che deve avere un valore assoluto per tutti quanti gli uomini “nostra vita”. Indubbiamente Montale ha accolto la lezione dantesca, anche se logicamente, gli esiti poetici, riferibili all’esperienza dei due autori, vissuti in contesti storico-culturali distanti nel tempo, sono necessariamente diversi.
Ma un punto che accomuna Dante a Montale è senz’altro la figura della donna- angelo.
Come Beatrice anche Clizia rappresenta una mediazione tra l’uomo e Dio ed analogamente a Beatrice la donna-angelo montaliana si volge al sole, simbolo di Dio, e si libra dall’umano al sovrumano per riscattare l’uomo.
Il personaggio di Beatrice, però, ha un significato ontologico-escatologico, fondato sulla filosofia tomistico-aristotelica, coscientizzata nell’anima e nella mente di Dante.
Montale, invece, utilizza i temi e i concetti della religione cristiana nell’ambito di una cultura del tutto laica.
Il poeta, insomma, potremmo dire tesaurizza l’alta esperienza del fiorentino per poi, però, adattarla al suo vissuto individuale e storico, realizzando nella sua arte“il dramma conoscitivo e poetico di tutto quanto il mondo moderno”.
Apparentemente le figure di Beatrice e Clizia sembrano accostarsi.
Come Beatrice anche Clizia sembra impersonare, ma soltanto in un primo momento, i valori assoluti che si devono incarnare nella storia per poi trasferirsi nell’Eterno.
Come Dante Montale, nel raffigurare la donna ideale, si serve di richiami biblici e della simbologia cristiana.
Ma mentre il primo, proprio in virtù dell’intelletto d’amore e con la mediazione della donna-angelo, potrà congiungersi con l’Amore primo, il secondo rimane pur sempre legato alla sfera del mondo umano e la stessa Clizia si connota come simbolo della concezione poetica dell’autore e della sua religione: quella del rinnovamento umanistico delle lettere nella drammaticità del contingente storico. Clizia, inoltre, nella realtà anche biografica si cala perfettamente nella storia del suo tempo.
Irma Brandeis, ebrea, eppure studiosa dei Padri della Chiesa ed illuminata dantista, è la vittima sacrificale che deve subire le leggi razziali.
Nella sua persona il poeta sembra configurare, soprattutto nella silloge “Bufera ed altro”, un mutamento dall’allegoria di tipo umanistico a quella di carattere cristiano.
La stessa immagine di Clizia, abbacinata dal sole, ci ricorda la figura dantesca, ma con connotazioni differenti.
Beatrice, che già ha conquistato l’Eterno, potrà guardare il sole “come aguglia unquanco non si affisse mai”, Clizia, invece, si distrugge nella vista dell’“Altro” portando in sé un “cieco sole” per riscattare tutti quanti gli uomini.
Il suo atto di amore indica la speranza di salvare l’umanità travagliata e dolente (greti arsi del sud…), ma non assume certamente la figura ideale di rivelazione propria della Beatrice dantesca.
In effetti, come giustamente opina Iacomuzzi, Clizia non assurge mai ad un valore assoluto in quanto la trasfigurazione di Clizia per Montale si attua“non come oggetto di fede, ma di speranza”
La figura di Beatrice è tutta proposta nei termini della trascendenza escatologica, “scende da cielo in terra per miracolo mostrare”e dal cielo soccorre “l’amico suo e non della ventura”e lo conduce all’Empireo.
Clizia, invece, è un personaggio chiaroscurale, in cui reale ed ideale si mutuano a vicenda.
In effetti, nel periodo in cui maturava la composizione della Bufera ed altro, il poeta, che riteneva di poter contare sulla solidarietà degli uomini e di poter dare voce colla sua poesia ad un sentimento di coralità umana e sociale, dovette prefigurare nella religione cristiana lo spiraglio di una speranza e di una possibile redenzione per tutti.
Forse il poeta intravedeva nell’essenza del cristianesimo la possibilità di una risposta, che irradiasse i nuovi valori che dovevano, confortando, sollevare gli uomini dall’angoscia esistenziale e dalla lacerazione storica.
L’atteggiamento di Montale, però, non deve intendersi come credo assoluto, ma come speranza, attesa di redenzione.
Tutta la composizione della Bufera è scandita come atto di attesa non, però, immemore della tragicità del presente.
Le coordinate tempo-spazio nel poeta sono sempre immanenti.
La Firenze di Clizia, come abbiamo visto, è quella storicamente determinata, in cui giunge Hitler, in mezzo all’agitarsi del “sozzo trescone” per cui “nessuno è incolpevole”.
E’ proprio del poeta intrecciare la dimensione storica con quella individuale e di cronaca in un mirabile equilibrio spaziale-temporale, anche attraverso l’inventività figurale-espressiva di immagini poetiche, che sono il correlativo oggettivo della sua condizione umana e spirituale.
INTERTESTUALITA’CON DANTE
Per un esame più attento delle diversi componenti, che sono il fulcro ideativo- poetico delle rappresentazioni delle due donne Beatrice e Clizia, ci pare opportuno analizzare alcuni “loci” danteschi riguardanti la presenza di Beatrice nella Commedia per poi confrontarli con quelli già riscontrati nell’epifania di Clizia della Primavera hitleriana e con altri “topoi” della poesia montaliana che ripropongono il modello del visting angel.
E’ nostro intendimento, infatti, cogliere il “continuum” nella diacronia poetica, come pure le differenze, attraverso un’adeguata esemplificazione.
Iniziamo col trattare alcuni momenti esemplificativi della presenza di Beatrice nella Commedia.
Beatrice è presentata da Dante sin dal II canto dell’Inferno come figura ed incarnazione della rivelazione: “donna di virtù sola per cui / eccedi ogni contento /di quel che ha minori i cerchi suoi”. (vv.76-78).
Infatti, è proprio Beatrice che dovrà guidare Dante alla conquista del vero assoluto.
Lo ricorda Virgilio al poeta (Purg. canto VI vv. 44- 48) “ ….. se quella nol ti dice / che lume fia tra il ’vero e lo ’intelletto:/ non so se ‘ntendi; io dico di Beatrice :/ tu la vedrai di sopra ,in su la vetta/ di questo monte, ridere e felice”.
Comincia a delinearsi una delle tematiche fondamentali della Commedia: la visione provvidenziale della storia, che per gli uomini si realizza attraverso l’illuminazione della grazia e della rivelazione.
Ed è proprio Beatrice, nata dall’esperienza terrena del poeta, che si manifesta, per dirla con le parole dell’Auerbarch, “figura o incarnazione della rivelazione che la grazia divina manda per amore all’uomo, per salvarlo e che diventa per lui la guida -visio Dei”.
Le parole dell’Auebarch sono senz’altro esplicative del significato del canto II dell’Inferno e ci inducono ad una interpretazione omnicomprensiva di tutta quanta la Commedia.
Beatrice vive nel mondo ultraterreno con gli stessi tratti di “donna gentilissima” che l’hanno contraddistinta in terra; ma nella sua significazione allegorica è figura del divino, che comprende, nel trascenderlo, tutto quanto l’umano.
Il modo con cui Dante ci presenta Beatrice (Inf. II: v.55) “lucean gli occhi suoi più della stella”, pur con stilemi d’impianto stilnovistico, è preconizzamento della luce purissima del Paradiso.
Ed in tutto il canto mondo umano e mondo divino si conciliano. Anche quando la donna dice, sempre nel medesimo canto, al v..72 “Amor mi mosse che mi fa parlare”, come osserva giustamente il Sapegno: “La parola è sentita in tutta quella complessità, o ambiguità se così si vuol dire, di significato, che lo stile comportava. E’ l’amore di Beatrice per il suo fedele, ma anche l’amore inteso sul suo valore assoluto, cioè Dio, da cui deriva ogni impulso caritatevole”.
Ma le parole di Beatrice nei vv.. 94-102 assumono un preciso significato allegorico-teologico: “Donna è gentil che nel ciel si compiange/di quest’impedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudizio là su frange. / Questa chiese Lucia in suo dimando/ e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele/ di te, e io a te lo raccomando-./ Lucia, nimica di ciascun crudele, / si mosse, e venne al loco dov’i’era, / che mi sedea con l’antica Rachele”.
Per alcuni critici “la donna gentil”, figura della Madonna rappresenterebbe la grazia preveniente, mentre Lucia, anche con riferimento al nome “lux lucens” la grazia illuminante e Beatrice la teologia.
La critica, che s’ispira al realismo figurale di Auebarch, ha preferito connotare nelle “tre donne benedette” rispettivamente la carità, la fede, la speranza, specularmente al canto XXXI del Purgatorio e nella proiezione di tutta la Commedia, anche perché, come sappiamo, l’esame sulla fede, speranza, carità costituisce realmente la più significativa avventura mistica di Dante prima di ascendere all’Empireo.
Ma sia che si privilegi l’una o l’altra interpretazione non si elude il nucleo fondamentale dell’opera dantesca: il viaggio dell’Uomo sospeso tra tempo ed eternità, tra “buio” del peccato ed attesa della “luce”- rivelazione”.
In questa ottica cerchiamo di cogliere l’assunto critico di Charles S. Singleton, che nell’opera, che per l’appunto s’intitola:“Viaggio a Beatrice”- (Il Mulino-Bologna-1958-a pag.16) così si esprime: :“Potranno esserci lettori, che per leggere il poema nel modo in cui esso esige di essere letto, saranno disposti a compiere lo sforzo di stabilire a fondo della loro mente ciò che la mentalità medievale accoglieva senza esitazioni: l’ampio ed indubitabile disegno di una possibilità offerta all’uomo ora, nel grande dramma di salvazione che è la vita quaggiù. Questa possibilità consiste in un itinerarium mentis ad deum, in quanto evento reale che ha luogo nella vita di qualcuno: una conversione dal dolore e dalla miseria del peccato, come avvenimento reale dell’anima-e, per questo poeta medievale, qualcosa che può prendere vita nello specchio dell’allegoria”.
La lezione del grande critico è funzionale al nostro argomento in quanto ci ammonisce a considerare il messaggio dantesco nell’ambito della filosofia medievale.
E’chiaro, pertanto, che due poeti quali Dante e Montale, tanto distanti nell’assiologia temporale e nella loro formazione etico-spirituale-culturale, anche se ricorrono a figure paradigmaticamente analoghe, come quelle di Beatrice e Clizia, non possono che viverle in modi diversi di pensiero e di poiesi creativa.
Un elemento, però, anche alla luce della lettura delle parole di Singleton, accomuna i due poeti e si riflette nella loro allegoria poetica: “la possibilità offerta all’uomo ora, nel dramma di salvazione che è la vita quaggiù”.
Ritornando al concetto di “dramma di salvazione” possiamo affermare che questo motivo è presente nel secondo canto dell’Inferno ed in tutto l’itinerario di Dante, personaggio della Commedia.
Nel canto II, infatti, proprio in relazione al “dramma della salvazione”, è evidenziato il sentimento di pietà, che muove la Vergine a chiamare Lucia, e quest’ultima Beatrice, che “sedea con l’antica Rachele”, simbolo della vita contemplativa.
Nei detti e nei gesti di Beatrice palpita, invero, un profondo sentimento umano.
Lo notiamo, allorquando ansiosamente trepida perché ritiene di non riuscire in tempo a salvare il pellegrino, travolto dal vortice inesorabile del peccato vv.107-108 (……la morte ch’l comabatte/ su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto.-), scende dal “beato scanno” chiedendo aiuto a Virgilio e al suo“parlare onesto”.
Acutamente osserva il Fallani (Fallani- Lectura Dantis – Le Monnier 1960 –pag.40) “Dante ha scoperto, come avvertì il Toffanin, la quarta dimensione della poesia: l’allegoria. Dopo le pagine del Convivio e le indagini sull’umano sapere, dopo avere ondeggiato tra le dispute del tempo con le deduzioni e le induzioni sul potere e i limiti della ragione e della sapienza, sulle possibilità conoscitive dell’uomo, in merito alla rivelazione e al sopranaturale, ecco infine che egli trova la risoluzione e lo scioglimento del dramma della ragione e della fede, definendolo in due personaggi: Virgilio e Beatrice.
Un sol volere risolve questo ideale classico e cristiano del viaggio. Il Limbo e l’Empireo, Virgilio e Beatrice chiariscono a Dante e riscoprono nella sua cultura non meno che alla sua anima l’infinita e verace azione di Dio, nella sfera del giudizio d’oltretomba e nella vicenda umana della storia”.
Non migliore spiegazione, infatti, potrebbe essere addotta ai versi dell’ultima terzina del canto con cui Dante apostrofa Virgilio vv.139-40:“Or va, ch’un sol voler è d’ambedue:/ tu duca, tu signore, tu maestro”.
Un altro elemento, che ci fa comprendere l’intensità del sentimento umano di Beatrice, mentre tende a volgersi nelle sfere eterne, è facilmente intuibile dalla splendida descrizione, che Virgilio ne fa nei vv.115-117 “Poscia che m’ebbe ragionato questo /gli occhi lagrimando volse; / per che mi fece del venir più presto”.
L’ascesa di Dante, ad opera della grazia, non ignora tutto il dramma umano che viene compreso da Beatrice col suo pietoso soccorso, di cui avrà memoria anche nel xxx canto del Purgatorio (vv. 139-141) “Per questo visitai l’uscio d’i morti/ e a colui che l’ha qua su condotto/ li prieghi miei, piangendo furon porti”.
Pietas e palpitante commozione, invero, non possono essere assenti in Beatrice, che, in quanto figura ideale di tutta quanta la Commedia, non disgiunge mai l’umano dal divino.
La complementarità tra mondo umano e mondo divino è concepita anche dal poeta, quando ci descrive Beatrice, che, impersonando la teologia, nel XXXI canto del Purgatorio, contempla nell’immagine del Grifone la rivelazione della duplice natura dell’umanità e della divinità di Cristo.
In merito il Fallani opina (Lectura Dantis op.cit. febbraio 1960 pag.35): “Gli occhi di Beatrice continuano l’irresistibile fascino; nel mondo avevano una potenza di elevazione, nell’eternità assurgono a simbolo della sacra dottrina, per cui il Grifone nel Paradiso terrestre si rispecchierà in quegli occhi, mentre Dante pieno di meraviglia sarà appagato per l’alta contemplazione”.
Nei vv.76-84 del XXXI canto del Purgatorio leggiamo: “E come la mia faccia si distese, / posarsi quelle prime creature/ da lor aspersion l’occhio comprese; /e le mie luci, ancor poco sicure, /vider Beatrice volta in su la fiera/ ch’è sola una persona in due nature. /Sotto’l suo velo e oltre la rivera/ vincer parìemi più se stessa antica, / vincer che l’altre qui, quand’ella c’era”.
Possiamo anche in questo caso notare un’analogia tra l’inventività fantastico-ideativa di Dante e quella montaliana.
Infatti, la rappresentazione degli animali dalla duplice natura è presente in Dante come in Montale, ma mentre il primo ci propone la duplice natura nei termini escatologici della mistica medievale, il secondo, pur non privo di ansia metafisica, nella raffigurazione iconologico-zoomorfa espressa in alcune sue liriche, si connota come un “nestoriano” inviluppato nella terrestrità e tutto proteso al dramma dell’uomo e alla tragicità della sua dissoluzione.
Beatrice, infatti, consapevole del travaglio umano del peregrino, anche nella figurazione del Grifone, che comprende la duplice natura, quella umana e quella divina, giusta l’interpretazione del Singleton, assume il significato allegorico della salvezza, intesa come itinerarium in mentem Dei, proprio in relazione a Dante“personaggio agens della Commedia e alla sua anima volta colla mediazione della grazia all’Assoluto e all’Eterno”.
Beatrice diviene simbolo della conciliazione della vita reale ed ideale, del sinolo vita umana –vita divina- tempo ed eternità.
Significativo è il fatto, invero, che la figurazione del Grifone prelude all’ascesa mistica di Dante nel Paradiso.
Del tutto diversa la figura di Clizia, immersa nella mutevolezza e nella drammaticità della storia, nei confronti del“nestoriano”Montale.
Il Grifone con Beatrice è prefigurazione di un’ascesa mistica, che si basa un’escatologia ontologica cristiana ben definita, Clizia, invece, che può essere considerata“sorella”dell’anguilla, altro animale dalla duplice natura, simbolo dell’angoscia esistenziale del poeta e della sua concezione di vita, è volta alla contemplazione di “una teologia negativa”.
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Le argomentazioni dantesche, che abbiamo sin qua esposto, non intendono essere un discorso a sé stante, ma un elemento esemplificativo per comprendere le analogie e le differenze con il mondo poetico montaliano e conseguentemente la funzione allegorica del modello del visting-angel nei due poeti.
Riteniamo che sia opportuno, dopo esserci soffermati su alcuni motivi della mistica di Dante, enunciare gli aspetti fondamentali della religiosità e dell’ipotesi metafisica di Montale.
Ci sembra di cogliere una prima sostanziale differenza nella concezione religiosa dei due autori.
Dante è il poeta che ha improntato tutta la sua opera al principio tomistico-aristotelico traducendo la filosofia dell’assoluto nell’assoluto della poesia.
Nasce in tal modo la figura di Beatrice“visio Dei”, che trascende l’umano per congiungersi con l’Eterno, secondo i dettami dello scolasticismo medievale.
Clizia, invece, che si configura parimenti come momento di attesa e di fede, rimane radicata nel terreno, nell’illusorietà della vita e della storia e non assurge ad un valore assoluto come quello esemplato dalla Beatrice dantesca.
Assai distante è, peraltro, la concezione religiosa dantesca da quella montaliana.
Montale non perviene mai, come Dante, ad una“summa teologica”; il suo Dio, per dirla con Angelo Marchese (Angelo Marchese- Montale e la ricerca dell’Altro- Edizioni Messaggerie- Padova 2000 –pag .24) è un deus absconditus.
Il dio, pertanto, che contempla Clizia è presenza-assenza (divina indifferenza) che non solleva l’uomo dal suo problematicismo esistenziale e non lo libera dal dilemma tra ragione e sentimento- immanenza e trascendenza.
Dante, invece, come abbiamo già avuto modo di costatare, confortati altresì dal summenzionato giudizio del Fallani, trova la soluzione della contrapposizione drammatica della ragione e della fede nella definizione dei personaggi di Virgilio e Beatrice.
Per Dante la vicenda umana della storia si solleva all’Eterno ed il“bell’occhio”di Beatrice, che tutto vede, può comprendere nell’umano tutto quanta la possanza del divino e condurre l’amato alla salvezza.
Lo sguardo, invece, di Irma Brandeis sarà freddo, distante (occhi di ghiaccio) e si volgerà in un cosmo, di cui, come il suo cantore, non riesce a coglier che la disarmonia.
Lontano da Montale e pertanto da Clizia è il mondo dell’Empireo dantesco, i cui attributi sono la luce purissima e l’arcano suono dell’armonia cosmico-teleologica.
Il paesaggio, in cui è evocata Clizia, è, invece, come abbiamo potuto avere modo di leggere, un paesaggio chiaroscurale, tratteggiato dalle figure retoriche degli ossimori, (cieco sole/ fuoco/gelo) ed accompagnato da turbamenti di suoni confusi.
Il che c’illumina sulla condizione spirituale dell’autore e sulla sua concezione del mondo.
Ma per chiarire questi aspetti di Clizia, in particolare e della poesia montaliana in generale, ci pare opportuno sottolineare il clima culturale e filosofico, nel quale il poeta è vissuto.
La formazione filosofica di Montale, maturata, come il poeta stesso dice, anche attraverso le sollecitazioni della sorella Marianna, si evolve collo studio dei filosofi dell’esistenzialismo.
Dai padri dell’esistenzialismo coglie la lezione, che pone al centro di ogni ricerca: la condizione umana ed il suo limite
Approfondendo Jasper, e, facendo sua la concezione di una situazione-limite dell’uomo, come “io gettato nel mondo”, a dibattersi con i gravi problemi dell’esistenza (libertà, dolore, morte…), Montale crea nella sua poetica una prospettiva metafisico-esistenziale, nella quale, però, avverte tutti i limiti e le ombre del contingente.
Eppure dal non essere, dal non senso, nel rifiuto delle false identità, affida alla poesia l’unica possibilità d’istanza metafisica ovvero l’attesa di un miracolo che si compia per l’appunto con l’epifania di Clizia.
L’avvento di Clizia, però, lo ripetiamo, non ha alcunché di ontologico, si manifesta colla stessa evanescenza della vita e talora si definisce come un sogno, una parvenza, che ci richiama la famosa immagine del velo di Maya di Schopenhauer.
Ma se Schopenhauer parla dell’uomo come“un semplice anello nella catena necessitante dei fenomeni”, destinato ad una lotta incessante, che si conclude con lo scacco finale, Montale, che pure si rifà anche terminologicamente al filosofo di Danzica, si apre, però, come osserva il Marchese (A. Marchese- La ricerca dell’Altro-op. cit. pag.50) al miracolo, che ora prende le sembianze della donna salvifica e cristologica Clizia, ora si cela nella simbologia degli animali dalla doppia natura (anguilla e gallo cedrone) quasi a voler rappresentare la perpetuazione degli esseri viventi in una catena irrazionale ed eterna.Ci accorgiamo subito della fondamentale divergenza col mondo dantesco, dove reale ed ideale, immanenza e trascendenza tomisticamente convergono secondo il principio filosofico della “reductio ad unum”.
Illuminante al riguardo ci pare la tesi del Mazzoni, che, con riferimento allo XXXI canto del Purgatorio, da noi già preso in esame, così commenta la “figura del grifone”:
“ E’ appunto all’alzarsi del suo volto che Dante nel suo nuovo e conquistato contemplare, vede come gli angeli, i”ministri e i messaggeri di vita eterna”che fin dal canto trentesimo sono comparsi sulla scena, ora hanno smesso di spargere fiori quasi a sottolineare la solennità del momento e a preparare una nuova e più diretta contemplazione analogica del divino mediante Beatrice, la quale è ora” volta in su la fiera/ Che è una sola persona in due nature (vv. 80-81), vale a dire contempla essa stessa, nel Grifone attaccato al carro, nella “biforme fiera l’umanità e la divinità del Cristo”. (Francesco Mazzoni- Canto XXXI-Lectura Dantis Scaligera-Le Monnier- Firenze 1967-pag.1161).
Il viaggio di Beatrice e di Dante è per l’appunto l’inverarsi di un “itinerarium in mentem Dei”.
Per Montale, invece, non esiste una conciliazione fra immanenza e trascendenza e neppure una mediazione idealistica ed anche quando il poeta dal nulla tende ad una tensione metafisica, ovvero ad una “chiamata cosmica”, per dirla con il Contini, fa vibrare sempre nella sua lira l’angoscia della ricerca di un mondo ultraterreno, che, però, non si svela compiutamente al suo sguardo neppure con l’avvento miracolistico di Clizia.
La Beatrice si presenta in molti tratti della Commedia come la donna velata ed ancora palpitante di sentimenti umani, ma nel momento in cui “si svela”, si connota come figura della rivelazione, della luce dell’intelletto, sublimando in senso del tutto medievale la “caritas mundi”in“caritas Dei”ed offrendo all’homo agens della Commedia la via della salvezza.
Non certo può svelarsi la figura di Clizia, che si delinea con i segni della tragicità del dramma umano nel momento stesso in cui assurge a simbolo sacrificale per la salvezza dell’umanità lacerata dalle vicissitudini storiche.
In effetti, in Montale non esiste né il concetto della Rivelazione, né quello della Grazia nei termini tomistici fatti propri dal fiorentino.
Lo stesso tempo, in cui si muove la figura di Clizia, è un tempo storico determinato.
Non è il caso di ripercorrere ancora una volta l’evento storico, che è il chronos della Primavera hitleriana; lo ricordiamo soltanto per cercare di comprendere meglio il significato della figura di Clizia e continuare la nostra indagine ponendo in rapporto analogico e/o di contrapposizione la figura di Beatrice con la creatura montaliana.
Il tempo in Dante si rivela anche attraverso la figura della donna-angelo, contemplata in tutta quanta la Commedia, come miracolo divino che attua nel peregrino il transito dalla sfera storica a quella metastorica, dall’immanente all’Assoluto e all’Eterno.
Montale, invece, sull’ipotesi del miracolo, così si esprime nell’Intervista immaginaria: “Il miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili, e farsi uno stato d’animo della perenne mediazione dei due termini come propone il moderno stoicismo, non risolve il problema o lo risolve con un ottimismo di parata. Occorre vivere la propria condizione senza scappare, ma senza trovarci troppo gusto. Senza farne merce di salotto”.
Le parole di Montale, pertanto, escludono ogni possibilità di conciliazione dialetticamente compiuta tra immanenza e trascendenza di stampo teleologico di tipo dantesco; piuttosto ci proiettano in uno stato di tensione spirituale autenticamente esistenziale, da cui nasce la musa lirica, e di cui Clizia è “figura” anche nella sua ipotesi metafisica.
Osserva acutamente il Marchese (A. Marchese-op.cit- pgg-54-55): “La gnoseologia di Montale è sin dalle origini aliena da ogni forma di idealismo ottimistico, particolarmente nella versione dello storicismo assoluto: si nota anzi in contrasto con le fin troppe facili affermazioni di libertà nella natura….un sentimento di fondo schopenhauriano (e per certi aspetti leopardiano) che nega ogni illusa apparenza di bontà, di rousseauiana positività delle cose per scorgere dietro di esse un inganno, un trucco della nostra rappresentazione…… Dal famoso animo informe e dal ciò che non siamo, di Ossi sino alle ripetute affermazioni da Satura in poi (Non sono mai stato certo di essere al mondo- Xenia II,7;) Montale ha sempre posto al centro della sua poesia un io debole, confuso, privo di saldi punti di riferimento. Alle origini di una siffatta prospettiva vi è di certo in particolare la psicologia dell’uomo sempre assillata da problemi metafisici e religiosi e, per così dire, radicata più nei dubbi che nelle certezze; le letture filosofiche non fecero che convalidare la sofferta esperienza personale”.
L’indagine critica del Marchese è significativa per farci comprendere la distanza che separa l’orizzonte etico-spirituale e culturale di Dante da quello di Montale.
Ma è proprio attraverso questa contrapposizione dialettica che la lezione dantesca assume una valenza del tutto unica ed irrepetibile nell’universo montaliano.
Ce lo spiega lo stesso Montale: “Dante non può essere ripetuto……. Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, ad una società soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli ad un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale. Lo fu perché era possibile alle forze di un uomo ispirato, o per meglio dire lo fu per una felice congiunzione degli astri nel cielo della poesia oppure dobbiamo considerarla come un fatto estraneo alle possibilità umane?…… posso tranquillamente considerare l’affermazione del Singleton che il poema sacro fu dettato da Dio e il poeta non fu che lo scriba…… non avrei nessuna prova per contestare il carattere miracoloso del poema, così come non mi ha atterrito il carattere miracoloso che fu attribuito a quella Beatrice storica di cui pensavamo di potere fare a meno…….. Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi la riceve, questo è il migliore insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore. E se è vero che egli volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e farlo conoscere a chi è più cieco di noi”.
(E. Montale- Da Atti del Congresso internazionale di Studi danteschi-20-27 aprile 1965- Firenze, Sansoni-1966-vol.II-pp.330-33).
Le parole dell’autore, anche se in veste di critico di Dante, sono sempre parole di grande illuminazione poetica e non riteniamo opportuno aggiungere alcunché.
Cerchiamo soltanto di interpretarne il messaggio per meglio comprendere, in quali termini nell’avventura poetica di Montale, sia congeniale l’ispirazione di derivazione dantesca del carattere miracoloso della poesia, correlato alla visione salvifica della donna-angelo.
Abbiamo altresì imparato a conoscere che di Dante Montale non solo riprende la concezione della poesia, intesa come rivelazione, come dono per il riscatto morale e civile di tutta quanta l’umanità, ma accoglie stilemi e forme lirico-inventive riferibili ad archetipi comuni.
Iniziamo a trattare dell’archetipo dell’acqua.
E l’acqua seguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Riprendiamo questi versi, che abbiamo già citato all’inizio della nostra trattazione, per porre l’accento sul correlativo oggettivo dell’acqua che in Montale assume la connotazione del tempo che corrode.
E’condivisibile il parere della critica moderna, che afferma che il concetto di tempo-corrente, che tutto travolge, in Montale ha il suo prodromo in Schopenhauer: “Il tempo somiglia a un’irrefrenabile corrente, e il presente a una roccia, contro cui quella si frange senza pervenire a trascinarla con sé”. (A. Schopenhaueur- Il mondo come volontà e rappresentazione –Laterza -Bari 1977-pag. 309).
Come osserva il Marchese (op.cit. pag. 60-61): “Lo scorrere dell’acqua che si fa vortice e rapina è l’allegoria della necessità irrazionale, propria del mondo fenomenico……. L’arte del poeta trasfonde nella teoria la potenza del pensiero e del sentimento che fa del tempo l’assiale metafora di una dolorosa concezione della vita”.
L’acqua rappresenta anche per il poeta l’impossibilità di dare vita al ricordo di persone o cose care come nel caso di Cigola la carrucola nel pozzo.
Cigola la carrucola nel pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Il poeta spera di recuperare il passato, ma tutto sembra inutile.
La lirica prelude ad immagini luminose, che indicano attesa e speranza, ma poi tutto svanisce.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride,
La memoria non riesce, però, a trattenere il ricordo; l’“io”di Montale è un“io debole”. Si rivela ancora una volta l’ossimoricità del vivere: da una parte l’attesa di un evento miracoloso, dall’altra il fallimento che l’accompagna e che testimonia la tragicità dell’existere nel tempo attraverso la deformazione dell’immagine.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…………
Il tempo per Montale non è assoluto come per Dante e l’estraniarsi dell’immagine alla memoria
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide
manifesta la negatività dell’Essere e l’impossibilità di approdare a quelle certezze metafisiche cui, invece, Dante ontologicamente perviene nella composizione del suo poema.
La concezione della negatività dell’esistenza si fa ancora più lacerante in Lindau
La rondine vi porta
fili d’erba, non vuole che la vita passi.
Ma tra gli argini a notte, l’acqua morta
logora i sassi.
Ancora una volta si contrappone l’immagine positiva della vita (la rondine vi porta fili d’erba) con la visione angosciosa del desolante ed inarrestabile processo di distruzione cosmica (l’acqua morta logora i sassi).
Un altro esempio del rovinoso vortice delle acque ci è dato dalla lirica Flussi.
All’immagine dei fanciulli, che con gli archi spaventavano gli scricchi nei buchi e che sembrerebbe rappresentare il gaudio spensierato della fanciullezza, fa riscontro la cupa meditazione del poeta.
La vita è questo scialo
di triti fatti, vano
più che crudele
………………………………
……………………………….
E tutto scorre nella gran discesa
e fiotta il fosso impetuoso tal che
s’increspano i suoi specchi:
fan naufragio i piccoli sciabecchi
nei gorghi dell’acquiccia insaponata.
Il naufragio dei piccoli sciabecchi (antiche imbarcazioni a vele a tre alberi) evidenzia ancora una volta come l’uomo, alienato dal flusso della vita, non riesce ad approdare ad alcuna verità ontologica, se non concependola nella sua negatività.
Il male del mondo, come nella concezione leopardiana, sembra insito nella stessa natura.
Il correlativo oggettivo, poi, dell’acqua insaponata ci rimanda all’inganno, all’insidia, che travolge l’uomo nel nulla.
Questa concezione permane in tutta la produzione poetica montaliana.
In Arsenio leggiamo:
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la testa ti inghiotte
dell’onda antica che ti volge………………
Anche gli animali dalla duplice natura il gallo cedrone e l’anguilla, fraternamente congiunti a Clizia, e, che emblematizzano il concetto stesso della poesia nella produzione matura di Montale, si aggirano in acque limacciose e putride.
Il singulto del gallo chiede aiuto. La sua non è una voce, ma appunto un singhiozzo, lamento di una vita strozzata, che non riesce ad emergere.
…………………………………..Era più dolce
vivere che affondare in questo magma,
più facile disfarsi al vento che
qui nel limo, incrostati nella fiamma.
Non diversa ci appare la sorte dell’anguilla.
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finchè un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accenda il guizzo in pozze d’acquamorta………………….
In tutta la produzione poetica, ed anche in quella dell’ultimo periodo, Montale riprodurrà la simbologia dell’acqua, intesa come problematicismo esistenziale o teologia negativa, colta, per dirla con Fallacara, in una tensione di interscambio tra fisica e metafisica.
Nella lirica Acque alte, in “Diario del 71 e 72”, il poeta configura l’uomo, alienato dalla società di massa, che viene travolto dal demone delle acque alla stregua di un oggetto-rifiuto.
Le acque si riprendono
ciò che hanno dato: le asseconda il loro
invisibile doppio, il tempo; e un flaccido
gonfio risciacquamento ci deruba
da quando lasciammo le pinne per mettere fuori gli arti,
una malformazione, una beffa che ci ha lasciato gravidi
di cattiva coscienza e responsabilità.
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………………………………………………………..
In altri tempi scoppiavano
castagne sulla brace, brillava qualche lucignolo
sui doni natalizi. Ora non piace più
al demone delle acque darci atto che noi
suoi spettatori e correi siamo pur sempre noi.
Il correlativo oggettivo dell’acqua in Montale, come in Dante, ha una sua connotazione ben precisa.
Nel primo simboleggia il fluire del tempo, che s’infrange irrefrenabilmente nella roccia dell’esistente, in un cammino impervio ed irto di difficoltà e di perplessità, nel secondo le acque, ed in particolare negli ultimi canti del Purgatorio, appaiono sempre più limpide e circolari all’armonia cosmica preordinata da Dio ed anticipano l’incedere verso l’alto regno.
E’ evidente che i due poeti, pur ricorrendo ad archetipi analoghi nella loro produzione poetica, li rappresentano in modo diversificato, correlandoli alla loro concezione del mondo ed al proprio vissuto
E se l’archetipo dell’acqua è la “figura” del tempo, dello stesso dobbiamo cercare di interpretare il sovrasenso e la sua specifica individuazione poetica nel mondo dantesco ed in quello montaliano con precipuo riferimento alle figure di Beatrice e di Clizia.
L’acqua che continua a rodere le sponde, il fango, il magma rappresentano il tempo, divenuto coscienza esistenziale di Montale e di cui la stessa Clizia è permeata, così come il circolare fluire di acque perenni e limpide, che costituiscono il paesaggio ideale del Paradiso terreste, nel quale si aggirano Lia, Matelda e la stessa Beatrice, s’intona perfettamente all’assunto teleologico-escatologico della Commedia.
Arguisce al riguardo il Raimondi (E. Raimodi –Metafora e storia –Studi su Dante e Petrarca –Torino- Einaudi-1970-pag. 65).
“In Dante l’immagine del mare e delle acque non si esaurisce mai in una formula unica e comporta quasi sempre una convergenza di significati istintivi, di ricordi, di simboli vitali. E’ chiaro che l’idea del mare in un contesto ricchissimo d’immagini bibliche, sottintende una compresenza di eventi e di figure che ogni cristiano sente di rivivere nella propria esistenza come simboli della grazia e della liberazione”.
Le argomentazioni del Raimondi c’inducono a meditare sul momento del viaggio del peregrino Dante, che, avendo già attraversato il mare crudele e l’acqua perigliosa, potrà proprio, dalla contemplazione limpida delle acque e dalla sua fede trovare conforto nella speranza dell’altezza.
“L’acqua diss’io “e il suon della foresta
impugnan dentro a me novella fede.
( Purg. Canto XXVIII vv.85-86).
E sarà Matelda, prefigurazione di Beatrice, che all’interno del medesimo canto spiegherà a Dante la natura miracolistica delle acque:
L’acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
dall’altra d’ogni ben fatto la rende.
Quinci Letè; così dall’altro lato
Eunoè si chiama e non adopra
se quinci e pria non è gustato:
a tutti altri sapori esso è di sopra.
(Purg. Canto XXVIII vv. 121-132)
La perfetta natura del luogo, rappresentata dal perenne scorrere delle terse acque non significa, inoltre, ripudio della terra, ma assunzione secondo verosimiglianza di essa, sul piano immutabile dell’ideale, mercé un processo di astrazione che non trasforma la sostanza della natura umana, bensì la purifica dalle scorie, dalla mutevolezza, dalla provvisorietà delle cose.
E se in un primo momento Dante rimane attonito all’insolito paesaggio:
Tutte l’acque che son di qua più monde
parrìeno avere in sé misura alcuna,
verso di quella, che nulla nasconde,
avvenga che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetua, che mai
raggiar non lascia sole ivi nè luna.
(Purg. Canto XXVIII vv.28-33)
le parole di Matelda senz’altro gli fanno comprendere il senso ultimo del suo viaggio.
Nei versi succitati notiamo una tecnica narrativa terra-oltremondo, realtà-sogno che ci trasferisce in un’atmosfera virgiliana.
Si noti la contrapposizione- più monde parrìen aver natura /avvegna che si mova bruna /bruna sotto l’ombra perpetua- per comprendere come inizialmente nella rappresentazione delle acque si intrecciano varietà di simboli contrapposti: tenebre dell’oblio e catarsi dell’animo.
Ricordiamo, inoltre, che l’aspetto chiaroscurale del Paradiso terreste è anche detto da S.Agostino (Genesi Ad lit. VIII.1) fructosis nemoribus opacatum.
Nel nemus opacum prende vita la funzionalità sacrale delle acque, che Matelda puntualmente rivela a Dante.
Il lettore a questo punto potrebbe obiettare forse che ci siamo lasciati troppo condurre dal verbo dantesco e che abbiamo tralasciato Montale.
Ed invece no; è nostro intendimento chiarire con specificità di esemplificazione testuale le ragioni per cui i due poeti, pur ricorrendo allo stesso sema (l’acqua), pervengono a modelli poetico-figurali dissonanti e contrapposti.
Abbiamo parlato del circolare fluire delle acque nel mondo dantesco ed abbiamo lasciato Montale muoversi in acque limacciose ed insidiose.
Questa tipologia delle acque accompagnerà tutta la vita di Montale e naturalmente quella di Clizia, che, nella sua estrema mutazione di anguilla, troverà il suo humus esistenziale-poetico nel fango e nel magma.
Il correlativo oggettivo della poesia in un poeta è sempre da ricondurre al suo impianto filosofico congiunto alla sua esperienza umana.
Per Dante i termini filosofici, non sembra più il caso di ripeterlo, sono quelli dottrinari tomistico-aristotelici, per Montale quelli della filosofia esistenziale-probabilistica del suo tempo ricreati nel suo“io lirico”.
I filosofi, che hanno maggiormente influito sulla formazione di Montale, sono Heidegger e Jasper.
Di entrambi il poeta percepisce la concezione del tempo e il senso dell’existere nel mondo.
Tali concezioni nella poesia montaliana, per l’appunto, si rapportano al correlativo oggettivo dell’acqua, inteso come archetipo figurale di tutta quanta la produzione poetica.
Di Heidegger il poeta riprende la concezione del dasein (dell’essere-qui).
Il filosofo dice: “La questione, che mi preoccupa non è quella dell’esistenza dell’uomo; è quella dell’essere nel suo insieme in quanto tale”. L’uomo, osserva Heidegger al pari di Montale, si volge al mondo del non autentico perché non vuole affrontare la propria condizione di limitazione, di finitezza.
Il concetto della limitazione e della finitezza dell’uomo, Montale, rapportandosi sempre al sema dell’acqua, lo rivive con vibrante liricità in Casa sul mare pubblicata il 28 febbraio del 1925, e che rappresenta l’ultimo momento compositivo degli Ossi di Seppia.
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono uguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio
Già all’inizio del suo itinerario poetico, infatti, Montale non si pone come“rivelatore dell’Essere”, ma proprio, alla maniera heideggeriana, come“pastore dell’Essere”.
“Piuttosto l’uomo è gettato nello stesso Essere nella verità dell’Essere che in tal modo ex-sistendo custodisca la verità dell’Essere, perché nella luce dell’Essere appaia come quello essente che è. Se e come esso appare, se come dio e gli dei e la storia entrano nell’apertura dell’Essere, vengono e si ritraggono, tutto ciò non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’Essente ripara nel destino dell’Essere. All’uomo resta, però, il problema di trovare essenza in conformità di tale destino; perché è in conformità di destino che egli ha da custodire come esistente la verità dell’Essere. L’uomo è il pastore dell’Essere” (M. Heidegger- Lettera sull’umainsmo- in “La dottrina di Platone sulla verità- trad. it. Di A. Bixio e G. Vattimo- Torino- S. .E..I- 1975-pag. 93)
I dettami della filosofia di Heidegger costituiscono i nuclei fondanti della poetica di Montale.
Come Heidegger Montale si sente gettato nell’Essere e, come per il filosofo la realtà gli appare come essente e gli si svela nelle sue parvenze ora con un salir dell’acqua che rimbomba, ora con lo strepitio di un cigolio, ora con un segno numinoso di luce.
Seguendo l’ammonimento del filosofo, inoltre, il nostro “ripara nel destino dell’Essere”, e, come pastore nestoriano, tenta di custodire la verità, che non può rifulgere se non con l’avvento epifanico di Clizia, che naturalmente s’identifica con la poesia stessa.
Come Heidegger Montale cerca nell’immanenza e nel limite stesso dell’existentia (il viaggio finisce qui) un varco per la trascendenza.
Nel contesto della poesia si legge:
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti di no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là del tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non vi sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi
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Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse all’eterno.
O. Macrì definisce questo componimento poetico in questi termini: “una lirica in cui convivono scepsi e credenza entrambe tremolanti di angoscia esistenziale”.
Ci troviamo ancora di fronte al primo Montale; nell’orizzonte poetico non è ancora apparsa Clizia, ma già se ne prevede il nucleo ideativo, nutrito dalla tensione metafisica del poeta, incline a trascendere l’immanenza per volgersi all’infinito “forse solo chi vuole s’infinita”. Pregnante è il “forse” all’inizio del verso che puntualizza il problematicismo esistenziale del poeta.
Nell’ultima strofe l’immagine della“marea”che “rode col moto alterno” raffigura il vorticoso incedere dell’uomo in un magma storico-esistenziale tendente al limite, alla finitudine.
E’ da notare, pure, il valore semantico della parola “rode” che sarà ripetuta, come abbiamo avuto di esaminare, in Primavera hitleriana “e l’acqua continua a rodere le sponde”.
Ma un altro forse proprio all’interno dell’ultimo verso ” il tuo cuore salpa già forse per l’eterno” ci rimanda a quell’ipotesi metafisica che non sarà mai sopita nell’anima del poeta e che figuraliter assumerà le sembianze di Iride o di Clizia.
Un altro filosofo, che avrà implicanze nel percorso esistenziale-poetico di Montale, è senz’altro Jasper.
Per Jasper, infatti, come per Montale la nostra esistenza è sempre in rapporto con qualcosa di Altro, che n’è il fondamento, con un mondo, che non si può conoscere se non parzialmente. Così congeturra Jasper:
“L’assoluto è qualcosa di nascosto che si rivela in frammenti fuggitivi, in lampi intermittenti. E noi abbiamo il senso di una notte in cui il nostro pensiero si perde”.
Il filosofo, nel proporci il suo pensiero, ricorre alle metafore “lampi intermittenti”, correlate alla fugacità del Tempo e all’indecifrabilità dell’Assoluto “frammenti fuggitivi”ed anche terminologicamente postula gli elementi costitutivi dell’essenza della poetica montaliana.
Prosegue Jasper: “Ma proprio quando nella situazione-limite l’uomo ha coscienza del suo scacco (termine anche usato da Montale) “si mette in rapporto all’esistenza e al trascendente”.
Ci addentriamo proprio nella tematica ideativo-concettuale che informa tutta quanta la poesia di Montale.
Un’altra concezione, comune a Jasper e a Montale, e, che si rapporta alla metafora dell’acqua, è quella del naufragio.
Il naufragio e la ricerca della salvezza ci rimandano ancora una volta a Dante.
Menzionando il saggio di Singleton, abbiamo detto che un elemento, che accomuna i due poeti tanto distanti nel tempo, è “il dramma della salvazione dell’uomo”.
Il che altro non è che l’estremo tentativo dell’uomo di salvarsi dal naufragio dell’esistenza per vivere l’autenticità del suo Essere alla ricerca di una salvezza, che, naturalmente nei due poeti, si connoterà in alterità di forme ed approdi.
L’idea del naufragio è proprio nell’incipit del poema sacro.
E come quei che con lena affannata
uscito fuor dal pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ ancor fuggiva
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò mai persona viva.
( Dante Inferno, I, vv. 22- 27)
Ma il naufrago Dante già nell’orizzonte aveva potuto scorgere il colle della grazia
Ma poi ch’i fui al piè d’un un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle
( Dante-Inferno-I-vv.13-17).
Il colle illuminato si contrappone alla selva scura ed il sole che lo illumina raffigura la grazia.
Già all’inizio del poema sacro in Dante si rappresenta la contrapposizione dialettica tra buio (assenza del bene) e luce (salvezza ad opera della Grazia con la mediazione di Beatrice), tra tempo ed eternità.
Temp’ era dal principio del mattino,
e’l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle,
sì ch’a ben sperare m’era cagione
………………………………………………….
(Dante Inf. I –vv.36-39)
L’elemento chiaroscurale buio-luce- tempo storico ed eternità, paura della selva scura e “speranza dell’altezza” lievita la profonda e commossa liricità del primo canto dell’Inferno e sollecita l’uomo a meditare sul suo destino in bilico tra l’umano e il divino.
Dante in tutto il suo percorso dimostrerà la sua incrollabile fede nella grazia, ora rilevata dalla luce del colle, ora trasfusa nello sguardo di Beatrice.
Montale percorre un itinerario analogo a quello di Dante, dalla cui poetica trae anche archetipi e stilemi anche formale-stilistici (alba, sole, fuoco), ma è destinato dalla sua stessa esistenzialità ad approdare a lidi diversi.
Ma ritorniamo a Dante e cerchiamo di comprendere il senso del suo naufragio e della sua salvezza attraverso le mirabili parole di G. Ungaretti, che nel suo celebre commento al I canto dell’Inferno, con genialissima intuizione impernia la sua critica su tre parole dantesche “ ’l sol tace”.
Ungaretti riprende il verso dantesco e si pone un interrogativo “Il sol tace?”. La risposta ermeneutica, densa di alto valore concettuale, proponibile nella diacronia temporale di tutta quanta la poesia nel tempo, e riferibile, secondo il nostro avviso, in particolar modo sia alla poetica dantesca che a quella montaliana, la formula il poeta stesso: “Certo il sole parla, ed è buona occasione per soffermarci sul valore che Dante dà all’atto della parola”
L’analogia proposta da Ungaretti: sole- rivelazione-parola è di precipua valenza per farci penetrare nell’essenza della poesia e del mondo dantesco e di quello montaliano, che, per l’appunto, ricorrono alla metafora del sole, sia pure con difformità di impianti ideologici, per esprimerci una poesia, che è insieme momento gnoseologico dell’Essere e sua illuminazione, attraverso la trasfigurazione della natura o mediante l’epifania della donna-angelo.
Lo stesso Ungaretti, all’interno del suo discorso, ci chiarisce l’aspetto categoriale ed assoluto della poesia:
“Il primo modo di conoscere dell’uomo è la poesia: è il suo modo innato di avere nozione di ciò che nella natura sua permane immortale, e vedremo che sarà anche il suo supremo modo, quando l’uomo stesso avrà saputo fare in sé luce completa sino ad immedesimarsi nella poesia ed essere, per conseguente potenza morale e per possesso di chiaro intelletto, un libero uomo. Da principio la parola per l’uomo era la poesia, e, sofferto, dichiarato, isolato ogni male, dall’uomo rivestita l’originaria, musicale purezza per l’uomo la parola sarà più che mai luce, poesia”.
La parola poetica, luce-rivelazione ed al contempo mezzo per salvare gli uomini e renderli liberi con una salda coscienza morale, è il presupposto ideale di tutta quanta la poesia montaliana e di quella dantesca e, forse, come ammonisce lo stesso Ungaretti, definisce il senso primigenio dell’essenza dell’opera poetica “primo modo di conoscere modo innato” per l’uomo ” di avere nozione di ciò che nella natura permane immortale”.
Alla luce dell’acuta affermazione di Ungaretti proseguiamo nel nostro percorso cercando, proprio attraverso le parole stesse dei poeti, di addentrarci nella loro “verità” poetica e soprattutto tentando di chiarire a noi stessi il profondo significato del loro verbo, che“accorda sempre un attimo all’Assoluto”, sia nella proiezione di un mondo trascendente-escatologico come quello di Dante, sia in un mondo, dove la metafisica è soltanto un’ipotesi (Montale), ma non per questo meno sentita e sofferta.
Alla parola-luce si accorda, invero, l’evento miracolistico della donna-angelo nelle figure di Beatrice o di Clizia.
Le mutazioni delle figure femminili, inoltre, (Lia, Matelda, Beatrice in Dante, Iride, Clizia in Montale) sono funzionali al vissuto psicologico-esistenziale dei due poeti e tendono a svelare il mistero dell’umano nel divino con variegate forme di vibrante intuizione poetica.
Nel XXVII canto del Purgatorio vv. 94-108 leggiamo:
Ne l’ora, credo, che de l’oriente,
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor per sempre ardente,
giovane bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi allo specchio qui m’addorno
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio e siede tutto giorno.
Annota il Sapegno: “Lia e Rachele sono prefigurazione delle due donne che il pellegrino incontrerà fra poco nell’Eden: Matelda che rappresenta la felicità raggiungibile nella terra,nell’amore del prossimo e nell’operazione della virtù e Beatrice la scienza rivelata che avvia l’uomo all’amore di Dio e al godimento senza fine della sua presenza”.
Riteniamo, pertanto,che Dante con questi versi abbia voluto suggellare la coincidentia tra beatitudo huius vitae e beatitudo caelestis.
E, se antecedentemente abbiamo parlato del“volere uno”, che accomuna Virgilio e Beatrice, e cioè del rapporto intrinsecamente dialettico tra ragione e fede, adesso possiamo vieppiù supportare questo principio nella visione di una perfetta armonia tra vita attiva e vita contemplativa.
In Montale, invece, vita contemplativa e vita attiva non sono complementari l’una all’altra; il poeta gettato nel mondo ne soffre la scepsi ed echeggia nel suo animo il suono della disarmonia cosmica.
Pur mosso da istanze metafisiche, per un certo senso analoghe a quelle del mondo di Dante, Montale se ne distaccherà per rappresentare autenticamente il suo universo poetico, immagine lirica propria del suo existere nel mondo.
Conseguentemente la figura della sua donna angelo, pur nella numinosa parvenza, avrà sempre i connotati di un’esperienza di vita lacerata e sofferta.
La donna-angelo in Montale si muove nel contingente storico “nella scacchiera del tempo”, nella quale è inviluppata.
Adduciamo ad esemplificazione la lirica Nuove Stanze.
La lirica all’inizio ci rappresenta l’immagine del fumo che si dilegua in forme evanescenti ed illusorie esprimendo, in tal modo, il senso della precarietà della vita, di cui, però, Montale vuol cogliere, al di là del transeunte il significato profondo, proprio attraverso Clizia, che impersona la cultura e quindi la luce, che potrebbe dissipare il buio dalle menti degli uomini.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s’apre la finestra
non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
altro stormo si muove : una tregenda
d’uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Compaiono in questa lirica i temi fondamentali della poetica montaliana: la morgana (illusione dell’Essere ed evanescenza della realtà) -lo stormo (folla indistinta di uomini che si aggira nel tempo come in una tregenda–termine che ricompare, come abbiamo visto, in Primavera hitleriana).
Alla donna-angelo, in quanto intellettuale e conscia del travaglio dell’umanità, è affidato il compito di interpretare l’essenza stessa della vita (tu sola conosci il senso).
L’ultima strofe contiene una risposta positiva alle perplessità del poeta ed afferma la funzione della poesia mediata dal potere redentivo della figura di Clizia.
…………………………………………..Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi d’acciaio.
Come ci appare lontana Clizia da Beatrice ed anche dalla luminosa prefigurazione della “donna spirans” Lia ridente in un mondo edenico mirante all’Eterno!
Ma sia Beatrice che Clizia hanno una stessa fondamentale missione da compiere: comprendere il dramma dell’uomo ed adoperarsi per la sua salvezza.
La salvezza dell’uomo, come ci ha spiegato Ungaretti, può derivare dalla poesia stessa che, rendendoci consapevoli del nostro “io” autentico e primigenio, ci eleva alla dignità di uomini suggellando la nostra libertà morale.
Il discorso di Ungaretti, nella sua astrazione ideale, trova rispondenza alla funzione di rinnovamento, che sia Dante che Montale attribuiscono alla poesia.
Il cronotopo montaliano è, però, del tutto differente da quello dantesco.
In Dante si attua proprio nelle regioni superne della poesia la “reductio ad unum”; in Montale la radice della sua ragione poetica spesso si innerva nei frantumi della memoria e dell’Essere; manca nel poeta quell’ordine teleologico, che è proprio di Dante ed il tempo stesso assume la figura di una scacchiera, di cui non si conosce il senso.
L’antinomia stessa dell’Essere, inoltre, nella lirica montaliana si decifra con i valori semici della metafora fuoco-gelo, che è altresì un costante segno distintivo che accompagna la figura di Clizia.
L’immagine del fuoco è presente anche in Dante nel XXVII canto del Purgatorio.
Il peregrino tenta la sua ascesa alla sommità del monte.
Il sole nel Purgatorio è già vicino al tramonto quando l’angelo del cielo canta “Beati mundo corde”.
E’ la sesta beatitudine (Matt. V, 8 ) che per intero recita così “Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt”.
Il canto s’intona perfettamente alla condizione spirituale dei penitenti e dello stesso Dante prossimi a vedere Dio.
L’angelo invita i tre peregrini (Dante, Virgilio, Stazio) a percorrere un muro di fuoco.
”Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde
( Dante- Purg.- Canti XXVII vv. 10-12).
L’invito dell’angelo è coerente ad una concezione simbolico-rituale della purificazione dell’anima, momento necessario per l’elevazione sino all’Empireo.
In Montale, invece, la figura del fuoco, sempre presente nel suo lungo viaggio poetico, si rapporta all’irto cammino dell’uomo affaticato dalla canicola “dietro un muro scalcinato”, alla sua “arsura”, che è ad un tempo desolazione, assenza di pura linfa vitale, proprio nel momento stesso in cui tenta di proiettarsi nella sfera metafisica.
Il fuoco, in tal senso, rappresenta la tragicità del contingente, di cui il poeta si sente persona dramatis e di cui non è immemore la stessa Clizia, che abbacinata“dal cieco sole si distrugge in Lui per tutti”.
La stessa chiusa di Primavera hitleriana con lo sguardo della donna volto “ai greti arsi del sud” conferma il valore semico della metafora.
Il fuoco, pertanto, in Montale ha un significato poetico riferito alla nostra temporalizzazione dell’Essere nel mondo, mentre per Dante è visto come l’unico ostacolo da superare.
”Or vedi, figlio:
tra Beatrice e te è questo muro”
( Purg. XXVII vv. 35-36)
Questi versi, che condensano la tendenza ascensionale di Dante verso Beatrice, ci sembrano assai significativi anche per farci comprendere la diversa species che Clizia e Beatrice assumono nell’ideazione fantastico-lirica dei due autori.
In Dante il fuoco vuol significare la purificazione di ogni scorie terrestre, tramite cui si perviene, sia pure con drammatico ed angoscioso sforzo umano e con volontà consapevole, alla verità rivelata.
La visione beatifica di Beatrice si conquista col superamento del muro di fuoco, nel cui ardore si dissolve ogni residuo del peccato e della terrestrità.
Dice al riguardo U. Leo: (Lectura Dantis Scaligera –op.cit.) “Il poeta con l’immagine della paura e del suo superamento voleva anche mettere in evidenza la prossima comparsa di Beatrice in tutta la sua più vicina, travolgente efficacia. Ciò che la personalità di Virgilio con tutto il suo peso non può più, può, invece, la semplice menzione del nome di Beatrice”.
Beatrice “donna spirans” proietterà Dante oltre il muro del fuoco nel divino.
Clizia, invece, legata sempre al reale storico, non riuscirà mai, come non lo farà nemmeno il suo poeta, a superare il muro di fuoco che accerchia, consumandola, la vita dell’uomo.
Non solo la metafora del fuoco contrapposto al gelo in Montale è un segno distintivo della donna amata, ma anche il sole, iperonimo del fuoco stesso, produce forme ed effetti del tutto contrapposti alla sua natura, (cieco, freddoloso====ombra nera) emblematizzando in tal modo l’assurdo del vivere stesso. E’ il caso della lirica Ti libero la fronte dai ghiaccioli.
Clizia ritorna al poeta come angelo ferito dopo aver percorso un doloroso viaggio.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
In questo componimento, che risale al 1940, come osserva Dante Isnella “si apre il vasto spazio dell’oltrecielo al primo periglioso volo di Clizia, trasfigurata ormai nell’angelo delle visitazioni; spalanca gli ampi orizzonti delle nebulose attraversate da lei, per recare a chi sa intenderlo il suo messaggio”.(Dante Isnella- Commento a E. Montale-Le occasioni.- Einaudi- Torino 1996, pag.129.
Il paesaggio, in cui si muove Clizia, certamente del tutto differente da quello, in cui si aggira la figura di Beatrice, contornato dalla purissima luce dell’intelletto d’amore, è quello delle vette nebulose, correlativo oggettivo dell’impervio viaggio esistenziale dell’uomo, dei suoi dubbi che non gli consentono di scorgere all’orizzonte se non“sole freddoloso” ed “ombra nera”.
La stessa Beatrice, prima ancora che faccia la sua comparsa nella Commedia, era stata annunciata da Virgilio “in su la vetta”. Ma la vetta di Beatrice è il colle della grazia, nel quale Dante, come abbiamo detto all’inizio del nostro discorso, potrà contemplarla mentre felicemente ride. La felicità di Beatrice è quella della creatura che ha conquistato l’Eterno e che potrà condurre Dante all’approdo della verità assoluta “ella ti dirà qual lume fia tra il vero e l’intelletto”.
Non un lume squarcerà le tenebre dell’animo di Montale ed il suo intelletto sarà assai lungi dalla conquista del vero.
Clizia, pertanto, si muove tra le insopprimibili ed angoscianti sofferenze della vita: ha le“penne lacerate” dai cicloni e si desta “a soprassalti”.
In questo tormentato panorama, tuttavia, Clizia spicca il suo volo, come fa Beatrice, diventando anche lei messaggera di salvezza.
M. Corti commenta: “E’ uno dei sonetti costruiti attorno alla figura della donna. La sua natura trascendente, il suo essere una realtà assoluta al di fuori del mondo naturale, trova corrispondenza in una serie di attributi eccezionali che vanno dalla durezza del ghiaccio al volo piumato di un angelo (altrove la circonda in un’atmosfera di tempesta).
La donna è la mediatrice della salvezza e per tutti porta il suo messaggio. Ma solo a pochi è riservata la conoscenza. Gli uomini sono, infatti, ombre, hanno parvenze di vita che li esclude dalla comprensione della rivelazione.”.
( Maria Corti- Viaggio nel ‘900 –Arnoldo Mondatori editore- Milano, pag.583).
Si delineano chiaramente le contrapposizioni del mondo montaliano con quello dantesco.
In Dante la trascendenza poggia sulle basi di un assoluto escatologico, in Montale la trascendenza viene invocata per viam negationis.
Come Beatrice Clizia è l’angelo messaggero della salvezza, ma il mondo, in cui vive è popolato da “ombre”.
Nella seconda quartina il paesaggio è immerso nell’ora simbolica del mezzogiorno, che viene, però, offuscato dall’ombra del nespolo.
Permane l’impressione di assenza, semantizzata dall’ossimoro “sole freddoloso”.
Desolante è altresì l’apparire di “altre ombre”che scantonano nel vicolo”, che non sanno avvertire la presenza di Clizia e non ne intuiscono il messaggio.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo e non sanno che sei qui.
Ci accorgiamo che il poeta, proprio nel momento in cui si sente proiettato nella sfera della trascendenza, non rinuncia mai alla ragione. La sua stessa metafisica, infatti, ce lo dirà il poeta stesso nasce dal “cozzo colla ragione”.
“Tutta l’arte che non rinuncia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può dirsi metafisico” (Dialogo di Montale sulla poesia-1960- pubblicato in S.M.A. M. S.- Il secondo mestiere- Arte, musica e società- a cura di Zampa- Mondatori ed .pag.10)
Il“cozzo con la ragione”, il senso dell’“innata disarmonia col mondo” non sono da considerare i limiti della concezione della vita e della poesia montaliana, perché anzi è proprio dal disaccordo tra l’“io” e il cosmo, tra la ragione, il reale e la tensione della fede nell’Assoluto che scaturisce in tutta la sua forza la musa del poeta.
Montale, infatti, cerca sempre al di là dalla ragione e dalle cose non parventi il numinoso, che s’invera nell’attesa di un momento di speranza e di fede, che implica l’evento miracolistico della donna-angelo.
La donna avrà le sembianze della Cristofora, fragile e vittima, che continua nel mondo il sacrificio di Cristo.
Ci riferiamo alla lirica Iride
Quando di colpo San Martino smotta
le sue braci e le attizza in fondo al cupo
fornello dell’Ontario,
schiocchi di pigne verdi fra la cenere
o il fumo d’un infuso di papaveri
e il Volto insanguinato sul sudario
che mi divide da te,…………………………….
Nella stagione settembrina, nella cosiddetta estate di S.Martino, che offre l’ultimo sole prima dell’inverno e pare che liberi dalla cenere e ravvivi le ultime braci, che già il freddo ha cominciato a spegnere, anche nel paese lontano, presso l’Ontario, che è uno dei grandi laghi posti al confine fra gli Stati Uniti e il Canadà, luogo, dove la donna è esiliata, si evocano liricamente alcune immagini simbolo (schiocchi di pigne verdi- braci- fumo d’infuso di papaveri).
I correlativi oggettivi (fumo, cenere) alludono allo sterminio della guerra; l’“infuso dei papaveri”rivela la tendenza dell’uomo a dimenticare, mentre l’immagine del“Volto insanguinato sul sudario”ci riporta ad una dimensione metafisica colla figurazione del Christus della Passione, fissato nella Sindone.
Il poeta, nel momento della“tregenda” e della lotta, che lo sospinge in “un ossario”, si sente sperduto, immerso in un paesaggio fantastico biblico, animato da “zaffiri celesti e palmizi e cicogne su una zampa”, che, però, “non chiudono l’atroce vista al povero Nestoriano smarrito)”.
Non ha nessun altro amuleto o luce per la sua esistenza; ritorna il motivo del naufragio che non prelude alla salvezza.
e quanto di te giunge dal naufragio
delle mie genti, delle tue , or che un fuoco
di gelo porta alla memoria il suolo
ch’è tuo e che non vedesti; e altro rosario
fra le dita non ho, non altra vampa
se non questa, di resina e di bacche,
t’ha investito
Il nostro ricorre ancora una volta all’ossimoro fuoco-gelo per esprimere con alta densità lirica il sentimento di angoscia per la lontananza della donna assente sia per ragioni sia di patria che di fede.
La prima strofe, con riferimento al“Volto insanguinato”si conclude con le parole che mi divide da te (chiara allusione alla diversità di religione- Clizia era ebrea).
Nei versi 16-18 leggiamo “ ….un fuoco/di gelo porta alla memoria il suolo/ch’è tuo e che non vedesti;……”.
I critici moderni tendono ad interpretare“fuoco di gelo”in senso deterministico storico come fuoco di morte con riferimento ai forni crematori.
Come pure i versi “il suolo che è tuo e che non vedesti” potrebbe essere un’allusione alla Palestina, la patria ideale allora (e oggi reale) degli Ebrei, che in quel momento poteva venire alla mente, sia per l’inizio in essa delle lotte fra Inglesi, Arabi ed Ebrei, sia per l’assassinio compiuto di milioni di Ebrei.
Sia che vogliamo leggere i versi della lirica nei termini di un determinismo contingentistico sia che vogliamo cogliere in astratto il dramma, che lacera l’umanità del tempo e che trascende anche dalla particolarità degli eventi, possiamo concludere che il senso dell’immanenza in Montale è frammisto colla tensione alla trascendenza. Smarrito nel suo cammino unica vera consolatrice rimane la donna –angelo.
Da rilevare come nel contesto del componimento poetico motivi evangelici si mediano con il dramma puramente umano ed immanentistico del tempo.
Anche i segni, che la poesia rappresenta nella duplice metafora del “bel soriano-Cristo-“che apposta l’uccello”) e l’(“ombra del grande sicomoro- figura ripresa nella lirica “A Zaccheo”), sono simbolo di redenzione e di uguaglianza, in cui si sublima la figura ideale della donna, che diventerà ministra di Dio e che si muove in una dimensione metafisica al di là del tempo e dello spazio.
Ma se ritorni non sei tu, è mutata
la tua storia terrena, non attendi
al traghetto la prua,
non hai sguardi, né ieri né domani
……………………………………………………………..
……………………………………………………………….
perché l’opera Sua (che nella tua
si trasforma) dev’essere continuata.
Lo stesso Montale parlando di Iride dice: “In chiave terribilmente in chiave….Iride la Sfinge delle Nuove Stanze, che aveva lasciato l’oriente per illuminare i ghiacciai e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiana.- Paga per tutti, sconta per tutti”.
E Montale ? non può che riconoscersi sempre più nella sua condizione di “nestoriano smarrito”, proprio nei termini che lo stesso autore precisa: “ Il nestoriano, l’uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido ed astratto monofisita”.
Comprendiamo, allora, perché il poeta quando si rivolge alla donna lontana, sia pure evocandola in un’aura di estatica contemplazione, ne ritrae tutti i turbamenti umani.
Clizia è anch’essa creatura incarnata nella tragedia del tempo, nel momento stesso in cui assume il forte crisma della religiosità, che per gli uomini diventa atto di speranza e di salvezza.
Commenta Barberi Squarotti (Barberi Squarotti- La poesia italiana contemporanea-D’Anna-Firenze1970-pag.270): “Tutta la poesia oscilla tra la desolazione sconsolata dell’uomo nel momento più cupo della sua tragedia storica, e l’aprirsi della vertiginosa prospettiva metafisica; e il poeta smarrito fra i segni più atroci della lotta, della morte riceve dalla persona sacra incarnata nella donna lontana la luce della certezza (non un conforto, non una consolazione, che lo possa salvare, ma una consapevolezza un po’ arida della ragione, che non spera più nulla per sé) e della persistenza di un’altra verità, oltre quella terribile della guerra e della disperata situazione dell’uomo, del durare dell’azione assoluta misteriosa del Dio (il Dio non legato a nessuna religione positiva, proprio simbolo della metafisica montaliana, quasi simbolo soltanto della suprema verità delle cose e dell’esistenza posta al di là delle apparenze dei sensi, della storia, che in Iride assume forti coloriture cristiane”.
Il giudizio critico di Barberi Squarotti è autorevolmente conducente alla tesi, che ci stiamo sforzando di argomentare e riguardante il carattere tutto laico immanentisco della religiosità, di cui si alimenta la poesia montaliana.
Il riverbero della parola poetica, nata da una coscienza sofferta, sempre impegnata a confrontarsi con le ragioni dell’Essere e con la vita, spingerà Montale verso il mondo metafisico dal quale luminescente ed umbratile insieme potrà prendere corpo la figura di Clizia.
Ma è appunto la concezione della parola poetica, intesa come decifrazione dell’Essere e come luce-rivelazione, che fa riflettere nel mondo montaliano quello dantesco, implicando anche il concetto della grazia, costitutivo dell’opera di Dante, ma certo non ignoto a Montale.
Per Dante la grazia non può che essere concepita se non nei precetti della filosofia tomistico-aristotelica, in Montale l’idea della grazia balena soltanto come ipotesi.
Ce lo spiega il poeta stesso nell’Intervista Immaginaria: “L’ipotesi della grazia non è recente: era già in Casa sul mare ed in Crisalide e già qui era solo per altri. In Crisalide volevo stringere un patto col destino per scontare l’altrui gioia con la mia condanna- In Casa sul mare penso che per i più non vi sia salvezza, ma che taluno sovverta ogni disegno e passi il varco. Può essere un motivo cristiano; come può essere un motivo cristiano Iride, l’ebrea che io chiamo Cristofora o portatrice di Cristo. Qualche fermento cristiano è senz’altro in me, ma io non sono un cattolico praticante; io rispetto tutte le religioni come istituzioni.”
Accanto al motivo della grazia, sempre nell’atmosfera di una religiosità del tutto immanentistica, in Montale vibra anche il sentimento della fede.
Prendiamo ad esempio Ho tanta fede in te che alcuni critici ritengono la più bella poesia cliziana.
Ho tanta fede in te
che durerà
(e la sciocchezza che ti dissi un giorno)
finché un lampo d’oltremondo distrugga
quell’immenso cascame in cui viviamo.
Alla trepida attesa e al sentimento di fede si contrappone il nulla, la dissoluzione dell’uomo nelle cose stesse del creato (cascame) senza un punto preciso di riferimento nel tempo e nello spazio. Nei vv. 6-7 della lirica, infatti, il poeta dice:
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha senso dire punto dove non è spazio.
Eppure dalla cenere rinascerà l’uomo, in cui arde la fede.
Questa, infatti, è la conclusione della poesia:
Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senza accorgersi che era rinascita.
Dal Nulla all’Essere, dalla cenere alla rinascita, dal buio alla luce, dal silenzio alla parola: questo il periglioso cammino del nostro, mai dimentico del perenne sacrificio umano, di cui è testimonianza anche la donna-angelo. Si pensi a Il giglio rosso e a Giorno e notte.
Il giglio rosso, se un dì
mise radici nel tuo cuor di vent’anni
……………………………………………………..
……………………………………………………..
Il giglio rosso già sacrificato
…………………………………………..
fiore di fosso che ti s’aprirà
sugli argini solenni ove il brusio
del tempo più non affatica……………………….
L’immagine della fanciulla prematuramente morta, che non ha potuto coltivare nel suo cuore il giglio rosso, e, che, ora è fiore di fosso, in una dimensione atemporale appartenente all’eterno della morte, è una delle note più sconsolate della poesia montaliana, anche se proprio dall’immensità del dolore il poeta si sospinge, al di là del tempo e dello spazio, nell’ultraterreno (ove il brusio del tempo più non affatica).
Nella poesia Giorno e notte il processo di sublimazione della donna avviene attraverso immagini angelicale-numinose, che adombrano, però, l’incombere della morte.
Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
tra i mobili, il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
dei pioppi e già sul trespolo s’arruffa il pappagallo
dell’arrotino. Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d’incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell’antro
incandescente- e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t’arrossa
la gola e schianta l’ ali, o perigliosa
annunciatrice dell’alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerìo di trombe…………….
Di questa lirica ci dà un’analitica spiegazione lo stesso Montale: (Giorno notte- 1961 in S.M.A.M.S. op.cit. pag.1458) “Posto che in tutto il breve ciclo il rombo della guerra (intesa fatto cosmico) è presente, diventano comprensibili come parti del“basso continuo”i pianti e le grida nella veranda non meno il colpo che arrossa la gola alla visitatrice perigliosa- Ma chi è costei ? Certo all’origine donna reale, ma qui e altrove visting angel poco o punto materiale. Non è necessario attribuirle una piuma che vola quasi si fosse distaccata in anticipo dalle sue ali (sebbene non sia impossibile). Piuma, luccichio dello specchio ed altri segni (in altre poesie) non sono che enigmatici annunci dell’evento che sta per compiersi: l’istante privilegiato, spesso la visitazione. E perché la visitazione annunzia l’alba? Quale alba ? Forse l’alba di un possibile riscatto, che può essere tanto la pace quanto una liberazione metafisica. In sé la visitatrice non può tornare in carne ed ossa, ha un tempo cessato di esistere come tale. Forse è morta da tempo, forse morirà altrove in quell’istante..
Il suo compito d’inconsapevole Cristofora non le consente altro trionfo che non sia l’insuccesso quaggiù: lontananza, dolore, vaghe apparizioni quel tanto di presenza che sia per chi la ricerca un memento, un’ammonizione. La sua fisionomia è sempre corrucciata, altera, la sua stanchezza mortale, indomabile il suo coraggio: se angelo mantiene tutti gli attributi terrestri, non è riuscita a disincarnarsi. Tuttavia è già fuori , mentre noi siamo dentro. Era dentro anche lei, ma poi è partita per compiere la sua missione”.
Le parole di Montale adesso ci fanno comprendere quanto sia incolmabile la distanza che separa la figura di Beatrice da quella di Clizia.
Il bell’occhio dell’angelo dantesco rivela la luce assoluta dell’Eterno; la tormentata Clizia, invece, nell’incalzare dei drammatici eventi e nel limite stesso posto dalla vita e dalla morte, e proprio nel momento, in cui “è fuori”, di là dalla vita, può volgere il suo messaggio di salvezza agli uomini “che sono ancora dentro”.
Beatrice nella sfera dell’Eterno si congiunge all’Alto fattore ed, in quanto visio Dei, può condurre“l’amico suo e non della ventura”alla salvezza, Irma-Clizia, invece, tutta calata nella temporalità esistenziale, esprime la possibilità di salvezza attraverso la morte.
Eppure Clizia come Beatrice è segno divino, capace di liberare l’umanità dal “male di vivere”.
Come Beatrice anche Clizia viene preannunciata dalla luce ed il codice della luce nei due poeti ripropone per l’appunto il tema biblico della rivelazione e della salvezza.
Ma la luce, che accompagna Clizia si manifesta solo a tratti e spesso è correlata, come abbiamo visto, da stilemi ossimorici, che evidenziano la precarietà del vivere stesso degli uomini e il loro atteggiamento dubbioso nei confronti della trascendenza.
Beatrice, a sua volta, s’identifica colla luce stessa del sole, grazia e rivelazione al tempo stesso.
Beatrice è votata alla vita eterna, Clizia alla morte.
Osserva il Marchese (A. Marchese- op. cit- pp. 247-48) :“La morte di Clizia ha tutti i caratteri della sublimazione dell’eros in caritas, cioè della dolorosa, ma necessaria rinuncia della donna amata perché“Iri del Canaan”compia la sua missione di salvezza. La semantizzazione della donna è connessa all’idea profonda del sacrificio sicché il correlativo simbolico dell’allodola-usignolo-robin, stroncato dal colpo di fucile, è altra e non diversa immagine cristologia incentrata nel colore del sangue (se rimbomba improvviso il colpo che t’arrossa /la gola e schianta l’ali o perigliosa annunciatrice dell’alba-Giorno e Notte. vv.14-16.”.
Noi da parte nostra condividiamo pienamente il giudizio del Marchese, in base al quale riteniamo che Clizia, con gli elitropi che fioriscono dalle sue mani, con il suo non mutato amore, che mutata con conserva in sé, rappresenti non solo la caritas, ma anche la fede, in cui traluce l’attesa dell’uomo nei modi propri della speranza.
Fede, speranza, carità caratterizzano, dunque, la figura di Clizia come quella di Beatrice.
Fede, speranza, carità non solo rappresentano il momento più importante per il peregrino Dante nella sua ascesa all’assoluto, ma nella Commedia assolvono pienamente alla loro funzione teologica congiuntamente a Beatrice.
Nel canto XXXI del Purgatorio Dante assieme Matelda si trova presso il Letè, “beata riva” (beata poiché segna il trapasso tra la conquista della felicità terrena e la contemplazione del divino). L’evento straordinario viene ritmato dal salmo Asperges me. Il coro s’intona perfettamente alla situazione liturgica ed il poeta ne intuisce l’ineffabilità che non può essere affidata né alla memoria, né alla penna vv. 98-99 “sì dolcemente udissi / che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva”. La bella donna (Matelda) cinge delle sue braccia il capo di Dante e lo immerge nel Letè.
Pur in una viva e commossa rappresentazione colma di sensibilità umana il rito del battesimo si connota con tutto il crisma sacrale cristiano.
Anche Montale accenna al battesimo, ma con accenti completamente diversi, anzi diremo che anche il battesimo stesso non è disgiunto dalla stessa forma della tragicità dell’esistenza.
Ricordiamo i versi già citati di Primavera hitleriana.
ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda…………………………………………………
Il battesimo è analogico ai“lunghi addii”, espressione di dolore e sofferenza per lontananza, mentre l’attesa è“lugubre”.
A rendere ancora più carico di sofferenza e di dolore umano il battesimo è senz’altro il valore semantico della parola “pegni” (lat. pignus-oris, che oltre a pegno, assume il significato di garanzia di una scommessa (pignore certare cum aliquo Virg. Ecl. 3, 31), ovvero di pegno d’affetto riferito a persone a persone care (tibi commendo communia pignora natos-Prop.) ovvero di testimonianza ( magnum pignus dare Cic.).
Ci siamo voluti soffermare sulla semantica del vocabolo in latino perché riteniamo che proprio attraverso la corretta accezione del termine possiamo comprendere il significato profondo che la parola poetica intende comunicarci.
Infatti riteniamo, che oltre all’implicanza affettiva, relata ai “lunghi addii”, i pegni di Clizia si devono intendere, come il latino stesso ci suggerisce, una garanzia posta dalla donna-angelo di fronte allo scacco del mondo e la sola possibile risposta al nulla e alla finitudine dell’uomo.
“Tutto per nulla?”, è, infatti, l’’interrogativo angosciante e dubbioso del poeta all’inizio della strofe.
Ancora una volta il richiamo ad un rito cristiano in Montale si media con la terreistreità e con la sempre sofferta angoscia del presente.
Il battesimo, invece, è vissuto da Dante nel suo profondo significato religioso ed escatologico.
Lo stesso poeta c’illumina sul significato profondo della sua purificazione per opera della donna benedetta (Beatrice) e delle sue ancelle.
( Dante Purg. Canto XXXI vv.107-113 )
“Noi sian qui ninfe e nel ciel siam stelle
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi, ma nel giocondo
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo”
Le quattro ninfe,che rappresentano le quattro virtù cardinali,dicono condurranno il peregrino alla presenza di Beatrice “merrenti a li occhi suoi”, nel cui sguardo luminoso potrà mirare“le tre di là”, (le virtù teologali: fede, speranza, carità) che miran più profondo”.
L’allegoria ci rimanda al senso anagogico della Commedia e compendia tutto il credo cristiano di Dante ed inoltre ci fa comprendere l’essenza stessa della figura di Beatrice, “visio Dei”, cui sono ministre le sette ninfe (virtù cardinali e virtù teologali”).
Ordine cosmico e volere divino sono consonanti e ritrovano il loro “necesse esse” e“bene esse” proprio “nel giocondo lume” di Beatrice attraverso il quale Dante potrà mirare le tre virtù teologali necessarie per penetrare nella profondità del mondo divino.
Fede, speranza, carità, abbiamo detto poc’anzi, possono essere considerati attributi della figura di Clizia.
Ma il suo amore è caritas, che si distrugge, la sua fede e la sua speranza si librano in un mondo di attesa, dove si ricerca l’assenza-essenza di Dio, di cui predomina il silenzio interrotto soltanto ora da “qualche indisturbata divinità, ora presente con gli attributi della “divina indifferenza”.
Beatrice può connotarsi come“lo svelamento della grazia di Dio”, Clizia rimane alla soglia di un’attesa metafisica di tipo probabilistico e non riesce a sciogliere “l’anello che non tiene”, a svelare “l’ordegno universale” del meccanicismo cosmico e della “tregenda” in cui si dibattono gli uomini del suo tempo.
Il Dio di Montale non è quello di Dante che comprende e trascende Tempo e Spazio secondo i presupposti teleologici della dottrina cristiana, ma è un deus absconditus, come meditava Pascal, autore peraltro caro a Montale, “un dio presente nel cuore dell’uomo, non nella natura”.
Per questo forse anche la luce, che accompagna l’epifania di Clizia, viene sommersa dal buio dell’angoscia esistenziale.
Lo stesso viaggio della donna-angelo in Montale non prefigura, come in Dante, il termine ultimo della salvezza eterna, ma si perpetua col sacrificio nell’imminenza della distruzione e della morte.
Clizia è senz’altro la più grande espressione della fede nestoriana di Montale, Beatrice, invece, s’identifica essa stessa con la teologia e con la rivelazione divina, come possiamo notare attraverso la lettura dei vv.133-138 del canto XXXI del Purgatorio.
“ Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi”
era la sua canzon “al tuo fedele
che, per vederti, ha mosso passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele”.
Le tre virtù teologali cantano a Beatrice e queste sono le parole del loro canto: “Volgi, Beatrice, i tuoi occhi santificati dalla Grazia divina al tuo fedele che ha compiuto un viaggio così lungo”. Il termine fedele concorda perfettamente, osserva il Giacalone, con le parole dette da Lucia a Beatrice nel II canto dell’Inferno, v.98- “Or ha bisogno il tuo fedel di te”.
Beatrice ora dovrà svelare la “seconda bellezza”, che, secondo l’interpretazione di Mazzone, sarebbe la bellezza di Dio, che si riflette in Beatrice. Questa interpretazione concorda perfettamente con i versi successivi. (Purg.CantoXXXI- vv.139-141)
O isplendor di viva luce eterna,
che palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in una cisterna,……………
Lo splendore della luce eterna, che fulge negli occhi di Beatrice, è tale che rende incapace anche il poeta, che abbia attinto alla fonte del Parnaso, di trascrivere l’ineffabile che il divino suscita nell’animo. Limite della poesia? Necessità di entrare nell’altro giogo del Parnaso, come il poeta dirà nel I canto del Paradiso?
Non c’è dubbio, però, che il ricordo di essere stato poeta crea una sospensione tra l’umano e il divino e ci fa altresì comprendere come Dante in fondo sia un poeta theologus.
Anche Montale possiamo definire poeta theologus, ma di una teologia negativa.
Il concetto del poeta theologus, con specifico riferimento a Dante ci è illustrato da August Buck in- (Atti del Congresso internazionale di Studi Danteschi- op.cit. pag 266)
“Per l’esegesi figurale o tipologica la realtà significa se stessa e nello stesso tempo raffigura una realtà superiore, cosicché figure ed eventi storici vengono bensì riconosciuti nella loro realtà, ma trovano una compiutezza nel loro significato nel regno delle verità eterne…………….. La poesia appare (a Dante)“quasi dvinum quoddam munus”.
L’“invocatio”che Dante adopera nei punti salienti della sua opera, viene motivata dal fatto che i poeti devono rivolgersi“alle sostanze superiori”. Tali sono oltre a Dio e a Cristo anche Apollo e le Muse. A causa della sua origine divina il poeta può superare tutti; il nome del poeta è quello che più dura ed onora”
E se Dante, giusta l’osservazione critica del Buck, ci ha rivelato che nella poesia la raffigurazione di eventi non sono”riconosciuti nella loro realtà”, ma”trovano un significato nel regno delle verità eterne”, la sua grande lezione, persistendo, si protende sino all’orizzonte della cultura contemporanea.
Il giudizio di Buck concorda con quello di Montale nella considerazione della visione della poesia dantesca, intesa come dono, e, pertanto da custodire e tramandare nel tempo.
Il“quoddam divinum munus”, inoltre, attribuito da Buck all’ispirazione dantesca, ci conferma sull’aspetto categoriale del valore assoluto ed ontologico della parola poetica, che, mediante l’esempio dell’autore della Commedia, in ogni tempo si rivela illuminazione dell’Essere, cifra dell’Assoluto ed assume, sia pure attraverso le mutazioni delle variabili temporale-culturali, un significato miracolistico-religioso.
Parimenti Montale si rifà al carattere miracolistico del poema sacro “che fu dettato da Dio e il poeta non fu che lo scriba”, ma al contempo recepisce nel dono di Dante il precetto inalienabile alla poesia stessa: la sua funzione nel mondo di riedificazione morale e civile, nel rispetto della dignità dell’uomo. “Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi la riceve, questo è il migliore insegnamento che Dante ci ha lasciato”.
Il concentrico ammaestramento di Dante (la parola-luce-rivelazione ed il senso profondo di una poesia che attui il processo di rinnovamento etico e civile dell’uomo) è una costante nell’assiologia temporale del cielo della poesia e costituisce un aspetto nodale della produzione lirica montaliana.
Montale, ripiegato come Dante nella solitudine e nella meditazione, scorge nella poesia la possibilità di pervenire “al solco metafisico dell’esistenza” attraverso la sublimazione del visting angel, che identificandosi coll’essenza stessa della poesia, ha il compito di salvare l’umanità.
Così ci riferisce il poeta “S.M.P.R. Il secondo mestiere-prose e racconti con introduzione di Marco Forti- Mondadori- Milano-1966): “La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione”.
“Solitudine” ed “accumulazione”: due termini che definiscono modi valoriali della poetica di Montale, colma di silenzi ed al contempo straripante di tutte le ansie “accumulate” nella sofferta esperienza di vita e che inducono, altresì, il poeta alla riflessione, ad essere “theologus” del suo tempo, nella luce dell’assoluto della parola poetica, simboleggiata da Clizia.
Sia Dante che Montale affidano alla poesia il compito di rinnovamento totale della società in cui vivono
Il Dante theologus si rivolge all’uomo del suo tempo, che ha smarrito “la dritta via” perché la temporalizzazione dei beni terreni aveva avuto il sopravvento sui valori celesti.
Nel“buio” (assenza del ben dell’intelletto) Dante, con la guida della ragione ed illuminato da Beatrice, percorrerà tutto l’itinerarium in mentem Dei e la sua esperienza personale si oggettiverà nella sua poesia e diventerà paradigma per tutta quanta l’Umanità.
Montale si rivolge ad un mondo, che, oltre ad aver perduto ogni fede nella trascendenza, (Dio è morto aveva sentenziato Nietzsche) era dominato dai mezzi di comunicazione e dal consumismo: “Mi fa impressione che una sorta di millanerismo si accompagni a un sempre più diffuso confort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo della civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, e smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato, non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione”.
Prosegue ancora Montale “ Il mondo è ancora in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per contraccolpo, una cultura che sia argine e riflessione. Possiamo collaborare tutti a questo futuro” (.S.M.P.R- Il secondo mestiere- op.cit. pag. 3034)
La lettura di questo brano ci fa comprendere il profondo significato della poesia montaliana, nata dalla solitaria meditazione di un uomo, che sotto le parvenze del benessere scorge “i lividi connotati della disperazione” della coeva società.
Manifesta, altresì, l’autore una preoccupazione mai sopita per il futuro delle arti e della poesia in particolare e si augura che la cultura possa essere “argine e riflessione” e “contraccolpo” al carattere effimero della società di massa. L’ultima frase, che riportiamo dello scritto “Possiamo tutti collaborare a questo futuro” è un invito che il poeta rivolge a tutti gli uomini a non essere “ombre” e ad esprimere nel presente l’autenticità del loro essere. Dalla“cenere”, come nella già citata poesia Ho tanta fede in Te auspica la “rinascita”.
La“rinascita dell’uomo” non è forse anche il grande tema della poetica dantesca? Come pure si può intendere alla maniera dantesca la continua attenzione di Montale, volta non a quell’uomo o a quell’avvenimento ma proprio“alla condizione umana in sé considerata”, non contingente, ma assoluta. Ce lo dice lo stesso Montale quando afferma “l’argomento della mia poesia (e credo di ogni poesia) -riteniamo che sia implicito il riferimento a Dante- è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento.”
Se queste parole ci spingono a considerare la metastoria e la metafisica di Montale, non dobbiamo, però, mai dimenticare che il poeta non desiste mai di confrontarsi col reale e col suo problematicismo esistenziale.
Anche questo principio ci chiarisce lo stesso poeta: “Un poeta porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale ad interpretarla secondo gli schemi che gli sono propri”.
Montale, l’abbiamo notato nel corso del nostro discorso, non rinuncia mai al principio assoluto di identità vita-poesia . E la stessa Clizia ne porta i segni.
Ma come il poeta tenta di penetrare “nella condizione umana” e qual è l’orizzonte che s’affaccia alla sua vista e quale il suo concepimento di uomo e di poeta? Ancora una volta sono le parole del poeta ci danno la risposta. “Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione (e prima aveva detto argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata) non poteva essere che quella della disarmonia”.
La disarmonia è la nota fondamentale dell’anima montaliana come l’armonia è l’essenza stessa della poesia dantesca, dove mondo fisico e metafisico coincidono.
Sull’armonia del cosmo c’illumina lo stesso Dante (Par. canto I vv. 76-84)
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ‘l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai sentito di cotanto acume.
L’incontro tra i moti celesti e l’armonia, che ne risulta, sono il simbolo di quell’incontro tra la creatura e il suo Creatore, che è la ragione ultima e fondamentale del viaggio del poeta.
L’arcana armonia e la luce della rivelazione, che sfavilla nello sguardo di Beatrice, non possono che fare accrescere in Dante il “disio mai sentito di cotanto acume” di ascendere a“sito decreto”.
“La poesia dell’Inferno e del Purgatorio ora si eleva a poesia metafisica e Beatrice si aggira con gli attributi indefinibili ed ineffabili del mondo celeste tra musica e tripudio di luce” (Pasquazzi- All’eterno del tempo-Firenze-1966)
Per Montale, invece, cantore della disarmonia e sofferente peregrino in questa terra, sempre lacerato dal dilemma esistenziale, tra scepsi e credenza, l’immagine della sua donna non può essere celebrata nello sfavillio della luce e non può essere ritmata dall’armonia dei suoni del creato.
La luce, che investe Clizia, è chiaroscurale, simbolo della stessa tragicità dell’esistenza, il suono stesso echeggia la crepitante desolazione del mondo o, se scende dal cielo, è da questo“slegato” “ col respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali /di raccapriccio, ai greti arsi del sud………….”. versi che abbiamo commentato all’inizio del nostro discorso e che adesso ricordiamo per puntualizzare la mirabile unità nella diacronia dell’opera poetica montaliana, non solo sul piano formale, ma su quello della coerenza logica e dell’invenzione propriamente lirica.
L’ossimoricità, che sta alla base dei codici semici degli stessi stilemi formali fuoco-gelo-vita- morte fanno di Clizia una creatura sacrificale, che, per continuare a vivere, dovrà tuffarsi in un mondo arido, corroso. Lo stesso sole è un sole assurdo, un sole che abbacina e distrugge la stessa Clizia che si sublima nel suo sacrificio.
La poesia in Dante, invece, si fa tutt’uno con il principio dell’armonia teleologica, in cui, giusta la tesi del Pasquazzi, “si stigmatizza l’incontro tra la creatura e il suo Creatore.”
Sull’argomento esemplificative sono le parole di Matelda ( Purg. Canto XXVIII- vv.139-144)
Quelli ch’ anticamente poetaro
l’età dell’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice
L “esto loco” è riferito ai fiumi Letè ed Eunoè: il primo il fiume della dimenticanza, il secondo il fiume della memoria del bene; entrambi rendono l’anima “pura e disposta alle stelle”.
La stessa poesia, allora, è intesa come un momento prefigurale che preconizza la verità quale vago presentimento del verbo cristiano. La stessa concezione dell’anima innocente, che è ripresa da Ovidio, (Met. I, 90 aurea prima aetas sine lege fidem rectumque celebrat”) possiamo interpretarla come suprema aspirazione dell’ “itinerarium Dantis in mentem Dei”. Lo stato felice, inoltre, del mondo edenico “qui primavera sempre ed ogni frutto”; “ nettare è questo di che ciascun dice” e che è un’altra trasposizione ovidiana, ( Met. I vv. 107-111 ver aeternum flumen iam lactis, iam nectaris ibant), assume un significato profondamente religioso attraverso il quale s’intravede il senso ultimo della poesia: parola-luce (rivelazione della grazia), che già Matelda introduce e che sarà poi compiutamente svelata da Beatrice.
Del locus dantesco, che abbiamo citato, ha senz’altro memoria G.Pascoli, che ne “Il fanciullino” (1896), afferma che al poeta è presupposto lo studio, che “deve rifarci ingenui come Dante davanti a Matelda”.
Lo studio per la poesia, aggiunge ancora il poeta “deve togliere gli artifizi e renderci la natura”, nella quale si scopre l’autenticità della vita che ripropone gli “uomini innocenti come Dante davanti a Beatrice”.
La notazione del Pascoli, appassionato studioso di Dante, ci sembra di peculiare importanza perché, oltre a penetrare profondamente sull’essenza della poetica dantesca e ad enucleare il rapporto intrinseco natura -poesia –innocenza dell’anima, ci offre un’ulteriore testimonianza del perdurare del dictamen poetico di Dante nel tempo.
Un altro grande poeta del ’900 G.Ungaretti nella lirica Girovago (Allegria di naufragi 1919) ci rivela con rara essenzialità di cifrario linguistico-poetico la tensione al recupero dell’innocenza, ad una vita incontaminata primigenia, dalla quale possa sorgere la linfa della vita da tradursi in poesia.
Godere un solo
minuto di vita
iniziale
Cerco un paese
innocente
Anche Ungaretti come Pascoli sembra mirare all’“esto loco”, che Matelda svela a Dante e che accoglie l’anima innocente “qui fu innocente l’umana radice”
L’archetipo dantesco sarà rivissuto naturalmente dai poeti del ‘900 in rapporto alla Weltanscauung del periodo e alla loro individuale condizione umana e spirituale.
Abbiamo accennato precedentemente al diverso modo di atteggiarsi dello spirito e del pensiero dell’uomo novecentesco, rispetto allo scolasticismo medievale, nei confronti del cosmo e della metafisica.
Il che, ha, altresì, implicanze sul rapporto uomo-natura, concepito nella sua esistenzialità temporale, come pure nella sua proiezione metatemporale, e comporta, inoltre, l’instaurarsi di novità di forme estetiche connesse alle istanze ideologico-spirituali della temperie storica.
Questo principio viene analizzato con perspicuità concettuale dal filosofo N. Abbagnano (N. Abbagnano-Introduzione all’ esistenzialismo-Taylor- ed- Torino 1957) che a pp.186-87 medita:
“L’esistenza umana non è natura se non perché ritorno alla natura. Esistere per l’uomo significa non già l’abbandonarsi alla naturalità, ma riconoscerla e porla in atto come forma originaria e finale”.
Aggiunge il pensatore “L’oggetto estetico è la possibilità effettiva della sensibilità pura.
.Essa è la natura stessa che si umanizza diventando la possibilità intrinseca dell’esistenza propriamente umana…………………….Come arte, la natura entra nel circolo vitale dell’esistenza e salda il suo destino a quello dell’uomo”.
Il giudizio di N.Abbagano, riferito ad una natura, “che si umanizza” e che diventa “possibilità intrinseca dell’esistenza propriamente umana”e che “come arte entra nel ciclo vitale dell’esistenza”, ci spinge a ripercorrere colla mente le componenti probabilistico-esistenziali del pensiero filosofico predominante nel panorama culturale del ‘900, e, che segna sotto l’aspetto ideologico, una netta separazione con il presupposto tomistico-aristotelico dell’Uno-Tutto imperante nell’universo dantesco.
Il ritorno alla natura primigenia come autentica forma d’ispirazione poetica, allora, come postula l’Abbagnano, è da rapportare all’assiologia temporale-esistenziale del poeta stesso e al suo destino nella sfera umana.
Dell’assunto teorico proposto dall’Abbagnano possiamo considerare exemplum tutta l’intensa e vasta produzione poetica di Montale.
Dante, invece, nell’edenico paesaggio, nel quale vive “l’innocente umana radice”, e che“sognaro quelli ch’anticamente poetaro”, raffigura il mondo della perfezione umana nel momento stesso in cui si attua la sua sublimazione verso l’Assoluto.
La poesia rappresenta, quindi, per Dante il momento “dell’ultima felicitade” in questa terra ed è propositiva di quella ultraterrena.
Infatti Dante per giungere all’oltrecielo non disgiunge la vita attiva da quella contemplativa.
E proprio Matelda, prefigurazione di Beatrice, viene interpretata dal Porena “perfezione della vita attiva armonizzabile con quella contemplativa”.
L’anagramma stesso del nome Matelda “ad letam” offre la spiegazione per comprendere la funzione della donna, che è quella di ricondurre Dante a Beatrice (leta), come opina Enzo Quaglio. (Lectura Dantis Scaligera- op.cit.)
La poesia, dantesca, proprio nel momento in cui tende all’escatologia, inneggia all’armonia, che lega l’uomo alla natura.
Il salmo“Delectasti”(Salmo XCI Delectasti me, Domine, in factura tua et in operibus manuun tuarum exultabo”) che nel canto si snoda come inno liturgico di ringraziamento, c’illumina sulla condizione dell’uomo che ricrea la sua armonia nell’universo.
Per questo Beatrice risplenderà nel lume dell’Eterno; Clizia, invece, nella disarmonia del mondo, cercherà di continuare a sopravvivere, ma, tra i frantumi del cosmo, lacerata dalle ferite subite nell’anima, si logora in una vita che sa di sangue e di morte. Per continuare ad esistere sarà sorella all’“anguilla” e al “gallo cedrone”.
Il senso di cupo pessimismo, che configura l’immagine di Clizia, è determinato dallo stato d’animo del poeta, che col passare del tempo, si fa sempre più angoscioso.
Opina al riguardo il Marchese (A. Marchese- op. cit. pp.258-259) “ Nel dopoguerra inoltrato, così deludente per Montale, finisce il mito religioso di Iride e si offusca la fede nestoriano, ma la tormentata ricerca di Dio, non più mediata dalla figura cristica della donna.
Con il gallo cedrone e l’anguilla Montale torna al motivo schopenhauriano del Wille zu Leben: l’identificazione con l’animale ucciso ( una nuova e inconscia vittima sacrificale); è penosa e a stento copre la delusione esistenziale. “Sento nel petto la tua piaga, sotto/ un grumo d’ala; il mio pesante volo /tenta un muro e di noi solo rimane / qualche piuma sull’ilice brinata.- Gallo cedrone vv. 19-22); ma la vita continua nell’uovo ( la gemma / delle piante perenni vv. 14-15). Anche l’anguilla è ricondotta all’istinto produttivo, ai “paradisi artificiali di riproduzione”, negli ardi fossati dell’Appennino, scintilla che indica il risorgere della vita (“tutto comincia”) quando sembra che tutto muoia ( quando tutto pere/ incarbonirsi, bronco seppellito, vv.24-25) E proprio nell’“iride breve, gemella / di quella che incastonano i tuoi cigli/ e fai brillare intatta in mezzo ai figli/ dell’uomo, immersi nel fango, puoi tu/ non crederla sorella? vv. 26-30). Il “fango”, il “magma”, il “limo”, prima metafora di un campo semantico che da Satura assumerà forme sempre più desublimate e sctaologiche- sono l’ineludibile grembo della vita, da cui emerge la luce della donna-angelo (“incastonano i tuoi cigli”) riprende il motivo degli occhi preziosi dell’amata, non più separata dallo sfondo terroso, arido e apparentemente infecondo da cui scocca la scintilla dell’esistenza”.
Il discorso critico di Marchese ci fa meditare sulla parabola della poetica montaliana e ci spinge ancora una volta ad analizzarne alcuni motivi fondamentali da riferire o contrapporre a quelli della musa di Dante. La limpidezza delle acque, l’armonia delle sempiterne rote accompagnano il viaggio di Dante, rischiarato dal lume rivelatore di Beatrice.
Il cammino di Montale si consuma, invece, nella dolorante ed esilarante angoscia esistenziale.
Non certo l’antica innocenza, evocata da Matelda e che rappresenta il primitivo splendore dell’umanità, può vivere nell’animo di Montale e quindi nella sua poesia o nella figura-simbolo della medesima: Clizia.
Ma le sofferenze e la coscienza del dolore, la visione di un Dio, come dice Jacomuzzi, “eternamente assente ed invisibile” sollecitano il poeta a riflettere sul fatto che non può esserci salvezza nel mondo delle tenebre se non nella vita stessa, intesa come perpetua prigione infernale.
Da questa il poeta tenta di evadere cercando proprio nella poesia una ragione all’esistenza e mirando all’Altro.
Ricordiamo, infatti, che, anche nelle forme più oscure del pessimismo, la tormentata ricerca di Dio si fa strada e forse ancora con maggiore impellenza nell’anima e nella mente del poeta.
Ed allora quali possono essere gli estremi correlativi oggettivi ed anche quelli che accompagnano Clizia mutata in anguilla se non “il fango” ed il “magma”?.
Non potremo, in fondo, nel motivo di questa “fiumana” che trascina l’umanità ripensare alle “lacrime” che fuoriescono dal piede d’argilla del Veglio di Creta? (XIV canto dell’Inferno).
Le “lacrime”, invenzione di Dante non connotano forse il travaglio dell’Umanità decaduto dal primo stato di felicità edenica?
E Montale, se non decaduto, non si sente impigliato sempre più nella grande maglia dell’Essere, in cui “ l’anello non tiene”?.
Dal “fango”, dal “magma”, lacrima sofferta della sua poesia, tuttavia scocca quella scintilla che sembra promettere la salvezza.
Iride-Clizia—anguilla –gallo cedrone-, nelle loro mutazioni segnano momenti significativi delle tappe dell’itinerario umano ed esistenziale di Montale.
Il poeta, infatti, non trascende all’Uno-tutto, come Dante.
Anche nel momento, in cui sente l’esigenza dell’escatologia, ricorre alla cosiddetta “teologia della briciola”, che possiamo considerare il correlativo di un processo di lacerazione dell’“io”, nel momento stesso in cui Clizia perde tutti i connotati del numinoso e dell’ultraterreno.
In Storia di tutti i giorni, scritta nel 1973 e compresa nella Silloge “Quaderno di quattro anni”, dice:
L’unica scienza che resti in piedi
l’escatologia
non è una scienza, è un fatto
di tutti i giorni
Si tratta delle briciole che se vanno
senza essere sostituite.
Che importano le briciole va borbottando
l’aurispice,
è la torta che resta, anche se sbrecciata
se qua e là un po’ sgonfiata.
Questa è la visione del mondo montaliano diametralmente opposta a quella dantesca del poema sacro “nel quale si squaderna tutto l’universo”.
Ma sia nel “fango”che nella “briciola” continua a vivere l’idea di Clizia con l’esigenza insopprimibile del divino.
Si legga a riguardo la poesia Rebecca composta nel 1970 e compresa in Satura (II libro).
Gli addendi sono a posto, ineccepibili,
ma la somma?
Non c’era molt’acqua nell’uadi, forse qualche pozzanghera,
e nella mia cucina poca legna da ardere.
Eppure abbiamo tentato per noi, per tutti, nel fumo,
nel fango con qualche vivente bipide, o anche quadrupede.
Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola.
Solo la morte lo vince se chiedi l’intera porzione.
Nella lirica sono presenti le componenti che configurano il“continuum” del travaglio esistenziale di Montale: il suo existere nel tempo, alla maniera di Heidegger e di Jasper, la sua estrema propensione ad occultarsi nell’infinitesimo per cogliere il divino.
Ma il divino è totale nel sorso e nella briciola/ solo la morte lo vince.
Ma anche dopo la morte, ci riferiamo a quella figurale- poetica di Clizia, il divino ripullulerà quando tutto pare incarbonirsi come iride breve.
La ricerca di Dio in Montale, nel “sorso”e nella “briciola”, proprio perché fondata sulla teologia negativa, rappresenta la più alta testimonianza della religiosità e dell’ansia metafisica dell’uomo del ‘900, mentre Dante trasferisce nella sua poesia tutta la“summa”dei valori escatologici del medioevo.
I due poeti esprimono liricamente l’anima del tempo in cui vissero; rimangono due figure distinte ed autentiche nel modo di intendere la vita e la poesia. L’incontro tra Dante e Montale, tuttavia, esiste nel momento stesso in cui entrambi fanno della poesia non solo la ragione del proprio esistere, ma scorgono in essa l’unico modo possibile di svelare attraverso l’ontologia della parola l’Essere e ciò che lo trascende.
Accostiamo, pertanto, Montale a Dante perché entrambi parlano all’uomo del loro tempo per disnebbiare la mente dalla cecità (ci permettiamo si prendere in prestito questo termine proprio da Montale nel brano che abbiamo citato con riferimento a Dante).
Ma in quanto uomini del loro tempo ed, in quanto genuini nelle forme della vita e della poesia, il mondo da loro rappresentato non può essere che profondamente diverso.
In Dante l’assoluto escatologico si trasferisce nell’assoluto della poesia, in Montale l’assoluto della sua poesia si identifica colla sua stessa esistenza di persona dramatis del Novecento.
Sin dall’inizio del suo peregrinare Dante, sorretto dai principi del tomismo-aristotelico, può intravedere nel buio della selva la luce, che si sprigiona sul colle, emanata dai “raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle”.
Il colle è quello della grazia, che Montale sa di non potere ascendere.
La figura del colle, anzi, non è mai presente nella poetica montaliana. Il paesaggio arido e desertico corrisponde alla reale situazione spirituale dell’animo del poeta, “gettato in un mondo” su cui incombe una crepitante desolazione.
Per poter scorgere Dio il poeta tenta di arrampicarsi sul sicomoro.
Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
per vedere il Signore se mai passi,
Ahimè, non sono un rampicante ed anche
stando in punta di piedi non l’ho mai visto
( Come Zaccheo- composta nel 1970 e compresa nella Silloge “Diario del ’71 e del ’72”).
Il poeta, che dice di non aver mai visto Dio, è sempre mosso da un’incessante ricerca del divino. Dal vuoto e dal nulla, alla maniera leopardiana, tende all’infinito, dal limite all’illimitato.
E l’infinito per un poeta non può che essere compreso nella parola poetica, luce-rivelazione, secondo la lezione ungarettiana. E nella luce-rivelazione non solo prenderà corpo la figura di Clizia, ma la “parola” stessa diventerà l’unica possibile ontologia dell’Essere.
Siamo vicini al concetto espresso da Ungaretti, che nella metafora del sole rinviene la grazia, che per gli uomini si concretizza non nelle parole, ma nella parola assoluta, che è quella poetica e che si traduce come l’unico ed autentico atto conoscitivo dell’uomo nel mondo.
Come Dante Montale intende conferire alla parola poetica il suo primario significato: riscoprire la cifra di Dio superando il mondo babelico del linguaggio, causa di confusione e di incomprensione tra gli uomini.
Se dio è linguaggio, l’uno che ne creò tanti altri,
per poi confonderli
come faremo a interpellarlo e come
credere che ha parlato e parlerà
per sempre indecifrabile e questo è
meglio che nulla. Certo
meglio che nulla siamo
noi fermi alle balbuzie. E guai se un giorno
le voci si sciogliessero. Il linguaggio,
sia il nulla o non lo sia,
ha le sue astuzie.
(La lingua di Dio-1971- da Diario del ’71 e del ’72)
Si direbbe che Montale attraverso il concetto del dio-linguaggio voglia tendere ad esprimere l’ineffabile della poesia, rappresentato nella sua produzione poetica precedente dall’evento miracolistico di Clizia, circonfusa da ombre e luci.
La scoperta del linguaggio coincide per Montale come per Dante colla ricerca della verità. Ancora una volta Montale sembra ammonirci che le parole dei poeti, se non lo sono oggi, domani potrebbero essere parole di fede.
Alla falsità del linguaggio preferisce il silenzio, da considerare, certamente come il poeta ci ha detto in un brano, che abbiamo già ricordato come momento di“riflessione”ed “accumulazione” prodromico all’inverarsi della parola autentica della poesia.
Nell’attesa forse il poeta non potrà che balbettare qualche parola, ma dalla “balbuzie” potrà scaturire una parola autentica e non falsa, così come dai barlumi di luce che guizzano intorno alla figura di Clizia in modo informe si potrà avanzare l’ipotesi della grazia e della ricerca del mondo metafisico. Comprendiamo, pertanto, che l’interrogativo posto da Montale, nel discorso pronunciato, in occasione del conferimento del premio Nobel, a Stoccolma nel 1975 “E’ ancora possibile la poesia?” è per noi messaggio di fede. Ma in che ? Certamente nella poesia, che ha come suo fulcro la condizione umana. Beatrice e Clizia, allora, non saranno solo figure-simbolo dei due poeti, ma potranno continuare a parlarci. Ne intuiremo il messaggio nel tempo ed al di là del tempo, anche se in contesti storico-spirituali diversi, perché la loro voce, pur distinguendosi nettamente, vibra all’unisono accordandosi in una nota fondamentale, che è quella propria ed autentica della poesia.