Il binomio orazione-vita in Cicerone
Per comprendere il mondo ciceroniano e la sua connotazione ora retorica,ora filosofica,ora politica, dobbiamo ambientare l’autore nella temperie, in cui visse e della quale è stato al contempo animatore ed appassionato interprete.
La critica recente (Rostagni,Alfonsi) ha concepito nell’eclettismo ciceroniano un’unità di sentimento e di azione coincidenti con l’uomo Cicerone e con il Cicerone retore.
Invero nel Cicerone oratore possiamo notare tutta quanta la genesi e lo sviluppo della sua personalità in rapporto alla vita del suo tempo.
Cicerone nel De Republica aveva detto: Is enim fueram. Nec hoc nos patria genuit aut educavit.
Ciceronvive la conflittualità del suo tempo e la ripropone nella sua coscienza di letterato e di filosofo.
La facultas dicendi nel nostro autore compendia il suo modus sentiendi nel vivere la storia del suo tempo e, per dirla alla maniera lucreziana, in hoc patrai tempore iniquo.
L’orazione in Cicerone nasce sì dalla realtà storica, ma al contempo si sostanzia delle forme più vitali della cultura dell’eclettismo imperante al tempo. L’eclettismo nelle opere ciceroniane, oltre che in perfetta sincrasi tra cultura greca e cultura romana, rivive altresì attraverso la grande lezione filosofica,additata da Panezio e Posidonio.
La grande tradizione del pensiero filosofico-culturale del mondo greco, congiunto a quello romano, induce il nostro autore a guardare la realtà politica, non limitandosi a descriverne la contingenza,ma trasferendo la res huius temporis in più ampio orizzonte comprendente quei valori etici ed universali, che sono propri dell’eclettismo.
Nell’ evoluzione del pensiero filosofico di Cicerone, invero, coesiste la presenza di concezioni aristoteliche e platoniche, che vengono accolte e rivisitate dall’eclettismo.(Protretticus- De Republica).
L’iter ideologico-culturale, che anima tutta quanta l’esistenza del nostro autore, non poteva non germinare il fulcro della sua ars oratoria.
Infatti gli stessi ideali, proposti nell’anima e nella mente di Cicerone dalla sua cultura filosodico-letteraria, si enucleano nella sua produzione oratoria oltre che nella substantia rei sive argumenti, anche nel modus dicendi, nel numerus, nella concinnitas.
E’,pertanto, alla luce dell’eminente personalità ciceroniana che possiamo comprendere i caratteri della sua ars oratoria.
Come nel Cicerone filosofo abbiamo la presenza di componenti della filosofia classica in una reductio ad unum adducente alla cultura dell’eclettismo ( si pensi alle opere De Republica e De legibus), parimenti anche nelle orazioni queste istanze sono il focus del suo argomentare.
Che prediligesse l’oratoria alle armi lo afferma lo stesso Cicerone appena diciottenne “cedant arma togae”.
Il conseguimento di tale principio si era alimentato nell’oratore anche a seguito dell’esperienza dallo stesso vissuta durante il periodo della guerra sociale. L’ideale oratorio,inoltre, di Cicerone si allontana da quello enniano, che si limitava a quello del bonus orator e si amplia di una significazione più complessa in quanto l’arpinate predilige definire l’oratore:vir boni dicendi peritus.
Il che ci fa comprendere la cifra innovativa dello stile oratorio del nostro, che aveva frequentato le personalità più rappresentative del tempo, quali Licinio Crasso e Q. Mario Scevola ,augure console nel 117 a.c, considerati i massimi iuris periti.
L’amicizia con Lelio, genero di Q.M.Scevola, la frequentazione del Circolo degli Scipioni inducono Cicerone ad approfondire le meditazioni filosofiche.
Ne è exemplum l’opera Sommnium Scipionis. E’da ricordare,inoltre,che il pensiero filosofico di Cicerone,congiunto all’estetica dell’ars oratoria si rifletterà in modo pregnante negli autori epigoni ed in particolare nell’opera del Petrarca (Africa).
Lo stesso Cicerone nel De oratore ci dice che sente nelle orazioni l’esigenza di attingere a quell’intima filosofia, che è base del universale del diritto.
Il pensiero filosofico diventa,pertanto, nel nostro autore fondante della poiesi oratoria in un perfetto sincretismo ideologico, in cui confluiscono con le componenti della cultura ellenica, gli ideali della grande Roma e l’esaltazione della res publica.
Così si esprime Cicerone nell’Epistula ad Quintum: Ai Greci dobbiamo tutte le arti liberali.
L’eclettismo ciceroniano,però, non poteva limitarsi ad una contemplazione statica del passato.
Nel nostro urgeva l’esigenza impellente di vivere intensamente il contingente, in una reductio ad unum, colla ricerca appassionata e costante di rinvenire nel reale storico i moniti e gli slanci spirituali del mondo ellenico,da far rivivere in perfetto equilibrio colle istanze, fortemente propugnate dallo stesso e finalizzate alla costituzione della res pubblica tutta intenta pro bono communi. Il connubio tra la cultura greca e quella romana influì decisamente nell’ars oratoria cicerioniana.
Ce lo attesta lo stesso autore nel De Officiis (1,1) : Sempre per conto mio congiunsi al Greco il Latino,né solo nella filosofia,ma anche nell’eloquenza.
Nell’oratoria,invero,Cicerone, come nel suo pensiero filosofico, mira ad unire elementi della cultura greca a quella latina in perfetta concomitanza con gli ideali promossi dal Circolo degli Scipioni.
Grande influenza ebbe,inoltre,per il nostro la lezione di Apollonio Rodio.
La scuola retorica di Apollonio Rodio, la cui corrente si ispirava ai principi dello stoicismo mediano e nuovo di Panezio e Posidonio ,nei termini stilistici seguiva la cifra stilistica della subtilitas dicendi
Non fu per l’oratore neppure ignoto il grande ammaestramento di Platone..
Lo stesso Cicerone confessa nel De oratore (3,12) di essere venuto fuori non dalle fucine dei retori,ma dagli ambulacri dell’Accademia,in cui si impressero le orme di Platone
fateor me oratorem,si modo sim aut etiam quicumque sim,non ex rethorum officinis,sed ex Accademiae spatiis extetisse: illa enim sunt cunicula multicium variorumque sermonum in quibus Platonis primum impressa sunt vestigia. Sed huius et aliorum philosophorum disputationibus et exagitatus maxime orator est et adiutus.Omnis enim ubertas et quasi silva dicendi ducta ab ilis est.
Il giovane Cicerone,durante il suo soggiorno a Rodi nel’78, non solo maturò la sua propensione per l’arte di una parola, atta a semantizzare gli stilemi della cosiddetta eloquentia rodia,ma intese rinvenire nella parola stessa la substantia valoriale degli orizzonti filosofico-culturali, che gli venivano in larga misura propinati da Panezio.
Nella Rethorica ad Herennium ,pubblicata tra l’86 e l’82 a.Chr., si nota, proprio nel campo dell’oratoria,quel felice interscambio tra la cultura letteraria latina e la filosofia greca, principio questo,peraltro,come abbiamo visto, ribadito nel De Officiis.
E’ opportuno ricordare che negli anni, in cui Cicerone principia il suo noviziato oratorio, dominava nella retorica l’indirizzo asiano.
Dice il Paratore: “Normalmente si suole parlare per l’età di Cicerone di tre indirizzi: l’asiano,l’atticista,il rodiese,il quale ultimo avrebbe costituito una via di mezzo fra gli altri due.
Cicerone rivendica l’autorevolezza della scuola rodiese con l’intento di magnificare anche il suo maestro Apollonio,da lui ascoltato prima a Roma e poi a Rodi
Il Paratore tuttavia non concorda sul principio della retorica rodiese, concepita come una via di mezzo tra l’oratoria degli asiani e quella degli atticisti.
Secondo il giudizio dello studioso i retori greci non avevano mai attribuito grande importanza alla scuola rodiese,né d’altra parte Apollonio Rodio e gli altri maestri rodiesi potevano conoscere l’atticismo,che, secondo sempre la congetturazione critica del Paratore,non poteva coesistere coll’asianesimo, che era sorto a Roma ad opera dell’oratore Carisio,che si proponeva come imitatore di Lisia. Il termine asiaticus, che incontriamo nel Brutus e nell’Orator di Cicerone,fu coniato dagli autori atticisti,i quali rimproveravano ai fautori dell’opposto indirizzo di non voler seguire il purismo linguistico arcaicistico.
In particolare confutavano il fatto che gli autori avevano contaminato la purezza del dialetto attico l’isxinotes tou logou di matrice lisiana con l’introduzione di termini ionici cioè”asiani”.
Nell’età ciceroniana con Eschilo di Cnido ed Eschine di Mileto l’asianesimo si orientò verso la scelta di vocaboli poetici prevalentemente ampollosi che favorivano anche un periodare più ampio e complesso.
Della corrente dell’asianesimo ,sorta a Roma, il più illustre rappresentante fu Q.Ortalo, che aveva iniziato la carriera forense nel ’95.
Con Ortalo, rappresentante del partito oligarchico,si trovò a competere Cicerone nel periodo della dittatura di Silla e nel decennio post-silliano.
Ortalo è stato avversario di Cicerone nel processo di Quinzio e Roscio Amerino ed in quello ancora più rilevante contro Verre nonché sulla controversia riguardo della lex Manilia(legge promulgata dal tribuno C.Manilio e avversata da Ortalo, colla quale si legiferava che fosse dato a Pompeio un comando straordinario per porre termine alla guerra mitridatica).
In seguito Ortalo si legò di salda amicizia con Cicerone; fu al suo fianco nei processi di Murena,Rabirio,Silla,L.Flacco,Emilio Scauro.
Intensi,pertanto,furono i rapporti tra Ortalo e Cicerone anche per comunanza di intenti nell’ambito socio-.politico; tra i due,però, rimaneva un’incolmabile distanza nella tecnica dell’arte oratoria.
L’eloquenza gonfia ed ampollosa di Ortalo ormai cedeva il passo a quella più robusta ed euritmica di Cicerone.
Ortalo muore nel 50 a.Chr. e Cicerone ne lamentò la morte nel Brutus e gli dedicò il suo Protrettico alla filosofia: l’Ortensius.
L’entrata di Cicerone nell’arringo forense avviene nel 61 con l’orazione Pro Roscio Amerino.
Opina al riguardo il Rostagni:”In questa il giovane oratore difendeva non senza rischio un tale Roscio diI Ameria accusato di parricidio da Crisogono favorito di Silla. Pur usando nello svolgimento della causa, nelle allusioni le dovute cautele,egli non manca di innalzare una sua nobile accorata protesta contro gli autori di quel tempo,che sembravano aver spento negli uomini ogni senso di umanità,e,che, di più avevano fatto avrebbero fatto sparire dal mondo ogni libertà.
Leggiamo nell’orazione
Vestrum nemo est quin intelligat popolum Romanum,qui quondam in hostes lemissimus extimabatur,hoc tempore domestica crudelitate laborare.Hanc tollite ex civitate iudices,hanc pati nolite diutius in hac republica versari:quare non modo id habet in se mali quod tot cives atrocissime sustulit, verum etiam hoc minibus lenissimis ademit misericordiam consuetudine incommodorum. Nam, cum omnibus horis aliquid atrociter fieri videmus aut audimus,etiam qui natura mitissimi sumus, assidui tate molestiarum sensum omnem humanitatis ex animis amittimus
( nessuno c’è di voi che non comprenda come il popolo romano,ritenuto una volta mitissimo verso i nemici, sia si giorni nostri malato d’una crudeltà quasi domestica. Questa, o giudici, espellete dalla società,questa non lasciate che più imperversi nel nostro stato: poiché non solo ha in sé ciò di male, s’aver tolto di messo nel modo più atroce tanti cittadini,ma anche di aver soppresso nel cuori dei più miti la misericordia per via all’abitudine alle violenze.
Infatti,quando a tutte le ore noi vediamo o sentiamo avvenire qualcosa di atroce,anche se di matura siamo mitissimi,per la frequenza dei misfatti, nell’animo nostro perdiamo ogni senso di umanità.- trad. A.Rostagn)
Nell’orazione Pro Roscio Amerimo, pertanto,possiamo individuare tutti i germi della poliedrica species culturale dell’autore,impegnato con vibrante forza etico-spirituale a leggere il reale storico, di cui è appassionato interprete e talora vittima.
Sentendo il bisogno di perfezionare le sue doti oratorie in seguito Cicerone si reca ad Atene e poi a Rodi, dove incontra Apollonio Rodio,forse anche per sfuggire alle’ira di Silla.
Da questo secondo noviziato si vuol far cominciare il processo di trasformazione dell’oratoria ciceroniana.
Nel 77 il nostro ritorna a Roma e sposa la ricca Terenzia.
L’anno successivo inizia per Cicerone l’avvio al cursus honorum e viene eletto questore. Nel 75 partì per la Sicilia per la quale ricoprì la carica di questore dell’isola.
Nel 70 i Siculi, memori della grande opera svolta da Cicerone nella loro terra, gli affidarono il compito di intentare la causa di concussione e di mal governo contro Verre.
Per Cicerone fu un vero trionfo; dopo la prima veemente orazione(actio prima in Verrem) l’antagonista Q. Ortensio Ortalo rinunciò alla difesa.
Il nostro,tuttavia, proseguì con l’actio secunda,che,suddivisa in cinque orazioni,denunciava il malgoverno di Verre;nel periodo,in cui era stato pretore urbano(de pretura urbana),in quello,nel quale fungeva da giudice in Sicilia(de iurisdictione SIicilensi). Le altre orazioni documentano le malefatte di Verre a proposito degli imbrogli sulle leggi frumentarie (de fumento) ed un’altra (de signis) sulla depredazione degli oggetti artistici.
Quest’ultima orazione assume una particolare importanza in quanto ci fornisce preziose notizie relative ai tesori artistici esistenti in quel tempo in Sicilia.
Conclude l’actio secunda l’orazione (de suppliciis) che riferisce della crudeltà delle pene iniquamente inflitte da Verre.
Il trionfo di Cicerone fu immenso;non solo l’oratore antagonista rinunciò alla difesa,ma lo stesso Verre,prima ancora che venisse pronunciata l’indubitabile sentenza, preferì andare in volontario esilio. Le Verrine sono un exemplum non solo di eccellenza oratoria,ma al contempo rappresentano un documentum, in cui l’elocutio ciceroniana non rimane fine a se stessa,ma si allarga a più ampi orizzonti culturali,nella lettura del contingente storico e nella proposizione dei rimedia, atti a promuovere quei fini universali,di cui l’eclettico oratore è strenuo propugnatore,pro bono patriae et pro concordia civium.
La singolarità delle Verrine è tale che a tutt’oggi sono considerate attuali nel contenuto e propositive nel messaggio tramandato id et hic temporis.
Dice il Rostagni, riguardo alle orazioni,che avrebbero dovuto costituire l’actio secunda delle Verine:
“Le altre,che formano o avrebbero dovuto formare l’actio secunda furono pubblicate in seguito-piuttosto libri che orazioni- poiché Verre, sgominato, non attese che Cicerone esaurisse tutte le ragioni e le prove accumulate intorno alla sua attività criminosa, e se n’andò in volontario esilio: De pretura urbana , De iurisdicione Siciliensi,,De frumentis ,De signis, De suppliciis; le quali rispettivamente trattano,delle malefatte di Verre, quando era stato pretore urbano, com’è indicato dai titoli, del modo come aveva amministrato la giustizia in Sicilia, delle ruberie che vi aveva esercitato di oggetti d’arte, delle pene e atti illegali inflitti ai cittadini rimani.
In complesso le Verrine- oltre ad essere assai importanti come fonte della storia della Sicilia dell’amministrazione provinciale,ecc.- costituiscono un capolavoro oratorio per la serrata robustezza della dimostrazione , per lo zelo dei sentimenti e dei principi morali e sociali da cui l’autore appare animato.
Infine esse assurgono alla significazione di una generale requisitoria-molto opportuna in quel momento storico-contro il sistema delle malversazioni nelle provincie”.
Segue un periodo di intensa attività per il nostro e nel campo dell’oratoria ed in quello dell’attività politica. Nel 69,infatti,viene eletto console e nel 63 pretore.
In seguito Cicerone continua ad esercitare l’avvocatura ; fra le orazioni di quel periodo ci sono rimaste pro Fronteio, pro A.Cecina-
Nel 68 inizia la corrispondenza con Tito Pomponio,al quale era stato attribuito l’epiteto di Attico per il suo culto nei confronti della civiltà filosofico-letteraria di Atene.
Il carteggio fra Cicerone e Tito Pomponio fu scoperto dal Petrarca nel 1345 in un codice veronese ora perduto, ma di cui si conserva una copia nel Laurenziano 49,18
Pomponio Attico e Cicerone attingono entrambi alla cultura ellenica, ma la traducono nel loro vissuto in forme esistenziali diversificate.
Pomponio accoglie la lezione epicurea,che ammonisce “vivi appartato” astenendosi dagli affari e dalla vita pubblica.
Per Cicerone,invece,giusto il giudizio critico del Rostagni,”dottrina e conoscenza costituivano soltanto un mezzo allo scopo supremo del benessere sociale, per primeggiare,per integrare la propria personalità oratoria e politica, per rendersi utile allo Stato”.
Adduciamo a chiarimento di questo assunto un brano dell’Epistula ad Atticum(2,7),scritta nell’aprile del 59 a.C.,nel periodo del primo triumvirato costituito da Pompeio,Cesare,Crasso.
Neque ego inter me atque te quicquam interesse unquam duxi praeter voluntatem institutae vitae, quod me ambitio quaedam ad honorum studium,te autem minime reprehendenda ratio ad honestum studium duxit (1,17,5)
( Fra me e te non ho mai pensato che esistesse altra differenza fuor della vita prescelta; poiché una certa ambizione mi ha tratto a cercare gli onori, te altre idee,tutt’altroche riprovevoli ri hanno condotto ad una nobile forza di ozio-trad.A.Rostagni).
L’eclettismo culturale del nostro,invero,non solo configura il suo abito mentale,ma si traduce anche con vigoroso impeto morale in azione politica in tutto l’arco della sua vita.
Lo stesso Cicerone in una sua opera giovanile De invenzione puntualizza il binomio oratoria-politica, che perseguirà in tutto l’arco della sua vita.
Nel De inventione leggiamo:
Ac me quidem diu cogitantem ratio ipsa in hanc potissimam sententiam ducit,ut exitimem sapientiam sine eloquentia parum prodesse civitatibus, eloquentiam vero sine sapientia nimium obesse plerumque,prodesse nunquam.Quare,si quis omissis rectissimis atque honestissimis studiis rationis et officii consumit omnem operam in exercitatione dicendi, is inutilis sibi,pernicosus patriae civis alitur ; aut vero ita se armat eloquentia, ut non oppugnare commoda patriae,sed pro his propugnare possit,is mihi vir et sui esset publicis rationibus utlissimus atque amicissimus civis fore videtur.
(Spesso io ho meco ragionato se più bene o più male la facoltà di dire e il perfetto studio dell’eloquenza abbiano arrecato agli Stati. E dopo lungo ragionare,la logica stessa mi conduce a questa conclusione:che la sapienza senza l’eloquenza poco giova agli Stati; l’eloquenza invece senza la sapienza nuoce per lo più moltissimo, non giova mai. Per cui, se uno,lasciati da parte gli studi veramente retti ed onesti della ragione e del dovere,consuma ogni sua attività nell’esercizio del dire, costui riesce inutile a sé e cittadino pernicioso alla patria ;invece chi dell’eloquenza si arma così da potere non già contrastare,bensì difendere il bene della patria,questi,a mio avviso, sarà uomo e cittadino rispettivamente utilissimo e amantissimo degli interessi suoi e degli interessi pubblici- trad. A.Rostagni)
Nel 63 Cicerone viene eletto console; scopre la congiura di Catilina. Come opina il Rostagni “il consolato a cui Cicerone giungeva mediante l’appoggio degli ottimati in competizione col capo dei popolari Catilina , portò l’oratore nel centro di una drammatica lotta , sino ad imporgli la grave responsabilità di soffocare con provvedimenti eccezionali estremamente discussi, i tentativi di rivoluzione democratica,che erano più o meno organizzati dallo stesso Catilina.”
Qousque tandem abutere Catilina patientia nostra?quandiu etiam furor iste tuus nos eludet?quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?.
Questa è la prima delle quattro orazioni pronunciate da Cicerone adversus Catilinam.
Con la forza della sua parola Cicerone debellò la congiura e pertanto meritatamente gli fu attribuito l’appellativo pater patriae.
Ma la patria si mostrò immemore dei grandi meriti di Cicerone. Infatti, dopo la costituzione del primo triumvirato,nel 58, composto da Pompeo, Cesare e Crasso, il tribuno della plebe Clodio(forse il più acerrimo nemico di Cicerone) fece approvare una legge,in virtù della quale era condannato chiunque avesse condannato a morte cittadini romani senza regolare processo e senza possibilità di appello da parte del popolo.
La legge,invero, non poteva riguardare se non Cicerone,il quale aveva fatto condannare a morte Catilina senza seguire tutte quante le procedure giuridiche regolamentari.
Conseguentemente l’oratore si recò volontariamente in esilio.
Nel 57 Pompeo,che nel frattempo si era accostato al partito senatorio,richiama Cicerone dall’esilio.
Seguono i celebri discorsi ciceroniani Post reditum (In senatu et ad Quirites),
L’oratore riesce a farsi ricostruire la casa, che il tribuno Clodio aveva fatto distruggere e ad appropriarsi dei propri beni e dei propri diritti
. Si ricordino al riguardo le orazioni De domo sua ad pontifices e De haurispicum responso.
Nel 56 Cicerone con l’orazione De Provinciis consularibus si accosta a Cesare, del quale perora la legittimità della conferma del governo della Gallia in antitesi agli oppositori del grande condottiero.
Nel 52 il nostro pronuncia la Pro Milone. Appassionata è la difesa che Cicerone fa di Milone, uccisore di Clodio.
Doveva essere il momento della rivincita di Cicerone nei confronti del suo perfido nemico, ma quando Cicerone pronunciò la sua orazione, in senato avvennero tumulti.
I seguaci di Clodio reclamavano a viva voce la condanna di Milone e gli stessi pompeiani, intervenuti per placare la sedizione, causarono morti e feriti.
Questo era il clima politico di quel tempo e lo stesso Cicerone, a causa degli arroventati sconvolgimenti occorsi in aula senatoriale,non riuscì a pronunciare il discorso con la sua solita abilità.
Tuttavia è stato,in virtù dell’oratoria ciceriona che a Milone fu inflitta la pena minore e cioè la via dell’esilio.
Ma se il discorso parlato della Pro Milone poteva presentare qualche imperfezione anche per le interruzioni violente, cui l’oratore è stato sottoposto, il discorso scritto, che noi leggiamo, è da ritenersi un vero capolavoro, considerato da alcuni studiosi la regina orationum.
Ce lo attesta lo stesso Milone,che esule a Marsiglia,dopo aver letto l’orazione, scritta a suo favore, si dice esclamasse:”O Cicerone,se così tu avessi parlato, io ora non mangerei tali triglie a Marsiglia” (cioè sarei rimasto a Roma e non avrei potuto gustare tali prelibatezze sia pure in esilio). Commenta al riguardo Augusto Serafini:”Una battuta di spirito evidentemente,che dà l’idea della bellezza e della forza dell’orazione”.
L’anno successivo nel 51 il nostro fu nominato governatore della Cicilia
In tale circostanza Cicerone mise in luce le sue doti di onesto ed illuminato amministratore e tradusse in fatti uno degli assiomi fondamentali del suo discorso di intellettuale impegnato nella politica : la coniugazione di utile cum honesto.
Dopo un onorevole proconsolato in Cicilia, che gli valse anche il titolo di imperator,in seguito ad un successo militare nei confronti di una popolazione ribelle di Pindenisso,nel 50 ritorna a Roma e tenta di riconciliare Cesare a Pompeo.
La sua era l’intenzione di un intellettuale onesto pro bono civium et patriae, che non ebbe,però,gli effetti sperati.
Indi si reca a Durazzo presso Pompeo,
A seguito della battaglia di Farsalo,che segna la disfatta di Pompeo,.andò a Brindisi,dove nel settembre del 47 incontrò Cesare.
Inizia,allora,il cosiddetto periodo dell’orazione cesariana di Cicerone.
Nell’ arco di tempo tra il 46 e il 45 scrive le orazioni Pro Marcello,Pro Ligario, Pro rege Deoitario.
Queste orazioni avevano un carattere encomiastico riferito alla clementia operata da Cesare nei confronti dei suoi più fieri oppositori.
Ma la cruenta e convulsa storia di quel periodo doveva apportare un altro tragico e memorabile evento: le idi di marzo del 44, che datano l’assassinio di Cesare ad opera di una congiura,cui non era estraneo neanche il di lui figlio adottivo Bruto.
La scomparsa di Cesare propina ad Antonio,che peraltro si appoggiava all’Oriente e a Cleopatra, un potere egemonico assoluto di tipo dittatoriale.
Cicerone di conseguenza non esitò a considerare Antonio come il vero traditore della patria.
Fra l’autunno del 44 e la primavera del 33 Cicerone scaglia contro Antonio le quattordici violentissime Orationes Philippicae,intitolate propriamente In Marcum Antonium oratationes XIV.
Cicerone volle denominare queste orazioni Filippiche in ossequio a quelle pronunciate da Demostene contro Filippo il Macedone per la causa della libertà degli Ateniesi. Il nostro sentì che ora la sua oratoria poteva accostarsi a quella di Demostene, che aveva eletto come modello di quell’ars dictandi, che congiungeva con l’humanitas la virtus nell’actio politica.
Acutamente in proposito opina M.Pohlenz-(M.Pohelnz-La Stoa,Firenze,La Nuova Italia,1967,pag.567)
“Per Cicerone l’humanitas appartiene alla vita privata, del singolo,la virtus il vero romano la manifesta come vir, al servizio dello stato, della res publica”.
Aggiunge ancora il Pohlenz : “Solo fondendosi esse (humaitas e virtus) danno,nella sua pienezza, il modello del nuovo romano”.
Che tutta quanta la vita di Cicerone fosse protesa a far sì che l’humanitas si inverasse nel tessuto politico, nel quale il nostro si sentiva impegnato totalmente, è anche la tesi del filologo Giovanni Viansino ( Giovanni Viansino- Introduzione allo studio critico della Letteratura Latina- Libreria Internazionale editrice-Salerno-1970-pag. 177), che dice:
“Che per Cicerone in effetti l’actio fosse più importante della cognitio,lo dimostra il fatto che quando gli fu possibile, si dedicò completamente alla politica,conservando per la filosofia un interesse solo marginale e psicagogico, e questa invero ritorna con impegno quando dolori personali e difficoltà lo tengono lontano dalla scena del potere”.
Appare indi evidente che nell’actio politica il nostro abbia compendiato non solo tutte le sue risorse di filosofo e letterato, ma che abbia soprattutto fatto emergere la sua connotazione di vir, del tutto dedito pro bono rei publicae atque civiium.
Che l’essenza dell’eclettismo ciceroniano concili teoresi e vita attiva nell’ottica concettuale dell’homo novus, inteso anche come probus vir, e di cui il nostro è exemplum, attraverso i suoi scritti e soprattutto nel suo agire politico,ci appare pertanto un dato inconfutabile.
E’ l’uomo sempre che agisce in Cicerone sia nell’ambito speculativo che in quello politico.
Si può a buon diritto,allora,parlando di Cicerone di un perfetto binomio orazione-vita.
Il che viene autorevolmente suffragato dalla tesi dello studios K.Kumaineicki (K.Kuamainecki- Cicerone e la crisi della repubblica romana,Roma,Centri di studi ciceroniani-pag.19) :
“Nella lotta contro Antonio fu lui “ l’uomo di Arpino” e non un membro della aristocrazia romana del sangue, a muoversi alla testa dello schieramento che difendeva l’aristocrazia dei nobili.
A Cicerone in quei momenti critici,sembrava di aver un grande compito da svolgere e che non gli fosse lecito ritirarsi dalla vita politica .Gli esempi tratti dalla storia,le figure di Catone e degli Scipioni vivevano nella sua viva immaginazione. La sua concezione letteraria,,idealizzatrice della storia e degli ideali dei nobili,nonché la sua propria funzione,si incrociava con la valutazione realistica degli avvenimenti e degli uomini contemporanei”.
Il vir peritus boni dicendi pagherà con la sua stessa vita la sua incisiva e commossa actio nell’agone politico. La sua vita,infatti,analogamente quella del suo maestro ideale Demostene,(proscritto a suo tempo e braccato nell’isola di Calura,dai soldati di Antipatro),si concluderà tragicamente.
Formatosi il secondo triumvirato (M.Antonio,Ottaviano e Lepido) Cicerone è iscritto nelle liste di proscrizione. I sicari di Antonio lo raggiungono presso la sua villa di Formia e lo uccidono il 7 dicembre del 41 a.C. Pochi giorni dopo fu ucciso anche il di lui amatissimo fratello Quinto.