L’intellettuale “a colloquio” con il pubblico nell’età postunitaria.- La lezione del Verga-

gustave courbet - gli spaccapietre 1849L’intellettuale “a colloquio” con il popolo nell’età postunitaria.
La lezione del Verga.
Copia (2)  di quarto~1CAPITOLO PRIMO
1) Temperie storico-culturale- Il positivismo sociale:A Comte-H.Spencer-A.Gramsci e la funzione dell’intellettuale.
2) La questione meridionale- Le lettere Meridionali di P.Villari -La tesi di G.Fortunato- Le inchieste di Franchetti e Sonnino- La Prima Internazionale:Marx e Bakounin- Aspetti della questione sociale nel Meridione e nell’Europa: analogie e differenze attraverso l’analisi dei testi:incipit da “I Vecchi e i giovani” di L. Pirandello ed explicit da “Germinal” di E. Zola.- La questione meridionale nei giudizi di A.Nitti e A.Gramsci.
3) Giovanni Verga: tra storicità e letterarietà: breve excursus dell’opera verghiana. I principali contributi critici

1
Nell’età postunintaria avviene un fenomeno di rivolgimenti sociali, politici e
culturali, che appaiono in netta contraddizione con l’età idealistico-risorgimentale.
Vi è soprattutto un’attenzione al reale storico, di cui l’intellettuale si fa portavoce.
Possiamo affermare che il complesso delle condizioni storico-culturali si riflette nell’ambito dell’ideologia, ed, in specie, nell’attività teoretica dei pensatori ed in quella meramente artistica di letterati ed artisti.
L’intellettuale accentra il suo interesse sul conflitto tra borghesia e proletariato.
In effetti, nel periodo, che ci accingiamo a trattare, ad una borghesia, detentrice di poteri economici e di privilegi industrializzata, si affianca una piccola borghesia prevalentemente agraria, che opprime le classi meno abbienti e popolari, e, che, come osserva il Verga, vengono travolti dalla fiumana del progresso.
Si delinea, inoltre, il divario tra Nord e Sud.
Ne consegue che molti lavoratori meridionali sono sottoposti ad una fatica disumana nei campi, nelle miniere o nella pratica della pesca, ricavando un miserevole guadagno, non sufficiente spesso alla loro stessa sopravvivenza.
Le figure di Rosso Malpelo nel Verga e di Ciaula in Pirandello sono un’esemplificazione di questo status socio-economico.
Non solo in Sicilia, inoltre, il vulnus, prodotto dalla sperequazione sociale tra classe borghese e proletariato, si fa sentire, ma anche nel Nord ed in tutta quanta l’Europa.
L’espansione capitalistica, prodotta dall’incremento dei mezzi di lavoro meccanizzati ed industrializzati, crea una massa ingente di proletariato.
Le macchine, in effetti, essendo da sole in grado di assorbire molte unità lavorative, penalizzano in grandissima misura la virtualità manuale e fattuale del singolo lavoratore.
In virtù e per gli effetti della legge economica, che regola il rapporto domanda-offerta, essendosi moltiplicata a dismisura la richiesta di lavoro, viene ridotto enormemente il salario, mentre si aumentano le ore di lavoro, nel quale vengono impiegati anche donne e bambini “carusi”.
Vige lo sfruttamento per opera della classe capitalistica e di quella borghese ed il proletario è sottoposto al peso insostenibile di un’immane fatica, che gli permette di condurre a stento una grama esistenza.
Tragica è la condizione in cui gli operai vivono in miniera.
Tale situazione è presente in Italia ed anche in Europa, come ci attesta Zola nella sua mirabile opera Germinal.
Pensatori e letterati del tempo riflettono sulla triste condizione del pauperismo, dello sfruttamento minorile.
L’intellettuale sente impellente l’esigenza di accostarsi al reale storico, di coglierne, oltre il vissuto, l’ideologia, per poi riproporlo nelle diversificate forme di pensiero e d’inventività espressiva nel campo artistico-letterario e in quello omnicomprensivo più ampiamente culturale.
Si delinea, in tal modo, una nuova lettura del reale con implicanze in tutte le componenti della conoscenza, da quelle socio-antropologiche a quelle proprie del vissuto esistenziale del popolo, espresso dai letterati del tempo con modalità tecnico-linguistiche ed estetiche del tutto innovative.
In questo modo il colloquio tra l’intellettuale ed il popolo diventa autentico. Denominatore comune ai pensatori, ai letterati e agli artisti del tempo è la concezione dell’umanismo del lavoro.
Teorizzatore del concetto dell’umanismo del lavoro è K.Marx.
Il pensatore, che concepisce la realtà come risultante dalle forze produttive del lavoro, enuclea la legge del plusvalore, che permette la capitalizzazione ingente di somme di denaro nelle mani di pochi, provocando un inarrestabile stato d’immiserimento nel proletariato.
Il capitale accumulato è per Marx, infatti, un rapporto sociale conflittuale ed antagonistico fondato sullo sfruttamento del lavoro.
L’analisi della società capitalistica, formulata da Marx, ingenera una nuova filosofia della storia.
Così scrive Marx (Marx- Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” trad.it. di E. Cantimori-Mezzamonti- Roma –Ed. Riuniti pp. 10-12)
“Il cambiamento della base economica sconvolge tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile distinguere sempre tra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione che può essere costatato con la precisione delle scienze naturali e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono all’uomo di concepire queste forme e di combatterle.”
La tesi, postulata da Marx, riguardante l’interrelazione tra lo studio delle scienze economiche e le scienze naturali, ci avvicina al discorso sulla fisica sociale, propugnato da Comte.
Invero sia per Marx come per Comte la sociologia deve essere intesa come scienza positiva.
Il compito della sociologia o fisica sociale è per Comte quello di rimuovere le teorie teologiche o metafisiche e di organizzare la società su basi scientifiche, fondate sull’esperienza della vita associata.
Partendo da questo presupposto Comte spiega l’evolversi della religione, dei costumi, delle leggi.
La questione sociale, per Comte come per Marx, costituisce la base fondante della storia in rapporto alla società, in generale, e all’uomo-individuo in particolare, che nel contesto sociale, intesse i fili della storia.
I due autori Marx e Comte, nonostante una certa comunanza di percezione del reale, in cui vivono, approdano a conclusioni diverse.
Marx è tutto calato nel concetto dell’umanisno del lavoro con attento sguardo alle forze produttive costituenti la struttura socio-economica del mondo, Comte, invece, del concetto della fisica sociale fa una vera religione, concependo la visione di un Grande Essere, non più riferibile a Dio, ma all’Umanità.
Il filosofo, inoltre, ritiene che si possa approdare ad una morale sociologica in cui l’egoismo è superato dall’altruismo.
Si parla, pertanto, di un positivismo utopistico, caro alla classe borghese, ma non tenuto in conto dagli intellettuali del tempo, che intendevano proporre un dialogo più autentico e reale col popolo. Osserviamo, infatti, come anche il Verga non si concede a qualsiasi forma di utopismo, ma piuttosto sempre più cerca di immedesimarsi e di rappresentare la plebe schiacciata dal piede brutale del progresso. Tuttavia è da considerare che la concezione positivistica di Comte ha influenzato la cultura moderna e ha indotto a porre l’attenzione sull’importanza conoscitiva del mondo attraverso un’indagine, rivolta in forma complementare, alle scienze umane, alla sociologia e alla psicologia.
Più incisiva appare nel panorama culturale la teoria dell’evoluzionismo di Spencer.
Per Spencer “compito della sociologia è quello di determinare le leggi dell’evoluzione super-organica, cioè le leggi che regolano il progresso dell’organismo sociale. In altri termini la sociologia è lo studio dell’ordine progressivo della società come un tutto”. (Principles of P Sociology 1876.1).
La sociologia di Spencer è orientata nettamente verso l’individualismo e, quindi, verso tutte le libertà individuali, in contrasto con la sociologia di Comte e, in generale, con l’indirizzo sociale del positivismo, giusta l’opinione dell’Abbagnano.
Queste premesse ci fanno capire come il pensiero di Spencer, orientato verso l’antropologia e lo psicologismo, abbia influenzato la formazione dell’intellettuale del tempo.
Spencer, infatti, attribuisce grande importanza alla psicologia, che ritiene nella sua natura ultima, irrinunciabile e che deve essere studiata in tutte le sue manifestazioni.
Sarà anche impegno degli intellettuali del tempo e, soprattutto dei romanzieri, quello di studiare e far rivivere nel romanzo il personaggio reale e non quello fictus, prerogativa dell’autore omnisciente.
Il romanziere è, invero, un autore scienziato, che si eclissa nel personaggio, di cui rivela il suo essere autentico attraverso tutte le manifestazioni della sua psiche e della sua esistenza umana, nel contesto sociale, in cui vive, secondo il canone teorizzato da Ippolito Taine e proposto nella triade race-milieu –moment.
Il Verga stesso dice che “l’opera d’arte deve apparire come fatta da sé”, nella quale non si sveli “il fiat del creatore”.
La creazione dei personaggi s’inserisce, a buon diritto nelle teorie contemplate dai pensatori del tempo ed assume forme estetico-contenutistico-culturali del tutto originali.
Nel momento, in cui il Verga si accosta alla Sicilia, l’autore opera la sua operazione culturale-artistica più significativa.
Non si tratta di aderire a forme di provincialismo o di regionalismo, come una miope critica ha tentato di congetturare, ma piuttosto di informarsi a quel concetto di ideologia del reale, che sarà poi sviluppato da Luckàcs, e che imprimerà all’arte verghiana una valenza artistica di portata europea, imparentandosi con Flaubert, Zola, Dickens.
Per accostarsi compiutamente all’ideologia del reale il Verga sente insopprimibile l’esigenza di ritornare alla Sicilia e di allontanarsi da Milano, in cui aveva maturato un’esperienza letteraria di tipo scapigliato.
La Sicilia, infatti, non deve essere considerata come un limite all’inventività artistica, ma come il nucleo germinante di tutta la vera ed autentica vita di letterato e di intellettuale del Verga, impegnato, per dirla alla maniera gramsciama, a riproporre tutto il reale (e quale reale per l’autore se non la Sicilia ed il suo popolo?) nei modi propri dell’arte.
Lo testimonia una lettera indirizzata al Capuana (Milano 13 marzo 1874).
“Quel Milano che tu ti sei immaginato sarà sempre inferiore alla realtà, non perché tu non abbia immaginazione tanto fervida da fantasticare una Babilonia più babilonia della vera. Ma perché ho provato su di me che non arriveremo mai ad accostarci alla realtà di certe piccole cose che ci fanno piccini alla loro volta, e ci danno forza da giganti. Io immagino te, venuto improvvisamente dalla quiete tranquilla della nostra Sicilia, a sentirci penetrare di tutta questa febbre violenta di vita in tutte le sue più ardenti manifestazioni, l’amore, l’arte, la soddisfazione del cuore, la misteriosa ebbrezza del lavoro, provenienti da tutte le parti, dall’attività degli altri, dalla pubblicità qualche volta clamorosa, pettegola, irosa, dagli occhi delle belle donne, di facili amori o delle attrattive pudiche.”
Leggendo questa lettera possiamo affermare che il Verga aveva ben chiaro il suo compito di letterato, impegnato a tradurre in parole tutto quanto il reale e ad esprimerne l’essenza più vera.
Vengono anticipati i termini con cui parlerà più innanzi Gramsci in “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura”
“ Il modo di essere nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel contempo mescolarsi alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanente”.
La letteratura deve condurre alla vita autentica e non a quella ideale, che spesso e, soprattutto nell’età idealistico-romantica, si rapportava agli intendimenti dell’autore più a colloquio con se stesso che non col popolo.
Un altro punto di contatto, tra la concezione dell’intellettuale gramsciano e le risultanze dell’estetica verghiana, adducenti al binomio letteratura-vita possiamo rinvenirlo nelle parole espresse da Gramsci in “Letteratura e vita nazionale”.
“ La premessa della nostra letteratura non può essere che non storica, politica, popolare: deve tendere ad elaborare ciò che esiste; polemicamente o in altro modo non importa, ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare così com’è, con i suoi gusti, le sue tendenze, col suo mondo morale ed intellettuale, sia pure arretrato e convenzionale”. Abbiamo riportato questo brano di Gramsci perché ci sembra chiarificatore dell’argomentazione, che ci sforziamo di esporre “L’intellettuale “a colloquio” con il popolo nell’età postunitaria”.
Inoltre il richiamo di Gramsci ad una letteratura storica, politica, popolare non può che indurci a soffermarci sulla questione Meridionale, nel cui periodo Verga matura la sua esperienza di uomo e di letterato.
E’ lo stesso Gramsci, che ci avvicina al discorso sulla questione meridionale.
Gramsci, infatti, studiò profondamente il problema e rilevò, proprio con riguardo alla Sicilia, il divario tra classe operaia e classe agricola con tutte quelle implicanze di carattere socio- politiche connesse al tempo.
Possiamo considerare anticipatore dell’ideologia gramsciana il Verga, che, al pari delle Inchieste di Franchetti e Sonnino, nella sua opera letteraria ci testimonia la realtà socio-politica della Sicilia del tempo col preciso intento di realizzare, attraverso gli eventi e i personaggi rappresentati, un documento, che, oltre a radicarsi nella storia, contiene in sé tutte le caratteristiche
appartenenti alla sfera umana.

2

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Dopo il 1860 l’unità politica non viene sorretta dall’unità socio-economica del paese e particolarmente nel Mezzogiorno ancora si delineava il divario città-campagna che per tanti secoli ha vessato la nostra storia.
Mentre il Settentrione si ergeva ad una struttura sociale evoluta ed industrializzata, il Mezzogiorno era ancora pietrificato in un arcaico passato.
Il Mezzogiorno, dice il Caizzi, “era figlio della sua straordinaria storia, intessuta quasi tutta di disgraziate vicende, di guerre intestine ed incursioni straniere.”
Il prezzo dell’unificazione, di cui parla il Procacci, fu soprattutto politico.
Il nuovo stato aveva come fulcro la fisionomia del Piemonte.
Infatti, sino al 1864, la capitale rimase Torino e l’assetto amministrativo veniva basato sulle autonomie delle regioni e sul decentramento, elaborate da Farina e Minghetti.
Anche la legge elettorale, estesa a tutto il paese, fu quella in vigore nel paese dopo il 1854, con il risultato che, dato il più basso grado di sviluppo economico della maggior parte delle altre regioni, ed in particolare del Mezzogiorno, il già ristretto sistema censitario ne risultò accentuato e il voto divenne in più di una regione il privilegio di pochi notabili.
Nelle elezioni del 1861, le prime della storia italiana, gli iscritti erano 167.000 nell’Italia settentrionale, 55.000 in quella centrale, 29.000 nell’Italia meridionale.
Lo stato italiano nasceva con una forte impronta burocratica.
Il divorzio tra governanti e governati, tra élite e massa popolare appariva evidente.
Nell’Italia meridionale la parte più derelitta esplode in una disperata forma di brigantaggio, che era altresì appoggiato da agenti borbonici, costituito nella maggior parte da contadini e da renitenti di leva.
Facendosi bandito il contadino non intendeva – e lo riconobbe l’inchiesta promossa dal Parlamento dal deputato Massari- esprimere il suo attaccamento al vecchio ordine di cose, quanto la sua avversione al nuovo, dare sfogo alla propria delusione e disperazione.
Sempre nel Mezzogiorno manifestazioni di collera popolare si ebbero anche nelle città, come la rivolta di Palermo del 1866, che fu repressa con l’invio di un corpo di spedizione.
La protesta della massa diveniva una costante nel panorama sociale e politico della nuova Italia, che lottava contro una politica prevalentemente fiscale e che millantava di ammantarsi di liberismo.
Nel Mezzogiorno, in particolare, l’ambigua commistione tra liberismo e fiscalismo produsse perniciose conseguenze nell’organismo sociale.
La politica della sinistra giovane, promossa da Agostino Depretis, già deputato della sinistra al parlamento subalpino e collaboratore di Garibaldi in Sicilia, non riesce a sanare il conflitto nord-sud.
La politica della sinistra, piuttosto, sembra rapportarsi al partito dei “galantuomini” e di larga parte della borghesia del Mezzogiorno.
La classe dirigente non si curava di riforme, di istruzione elementare obbligatoria; piuttosto traeva dal Mezzogiorno privilegi ed interessi economici.
L’avvento della sinistra al potere, invero, non perseguì quel radicale cambiamento di rotta, che i pochi avevano temuto e che i molti avevano sperato.
Il bilancio delle riforme, introdotte nei primi anni di governo della Sinistra, non può considerarsi del tutto efficiente.
La legge stessa, che prevedeva l’obbligatorietà dell’istruzione elementare da sei ai nove anni, (la precedente legge Casati del 1859 prevedeva soli due anni d’istruzione obbligatoria) venne disattesa.
L’abolizione della tassa del macinato, la riforma parziale dei codici ed infine la riforma elettorale per opera di una politica, che si denominò “trasformismo” favorì non il proletariato, ma i ceti borghesi ed i “galantuomini” del Mezzogiorno.
La riforma elettorale, promossa nel 1882, permise un ampio allargamento di partecipazione al voto.
Gli elettori salirono dal 500.000 a più di 2.000.000 milioni con una misura dal 2 al 7 per cento della popolazione.
Vale la pena dire che la riforma, basata sul censo, favoriva di gran lunga la città alla campagna.
Coloro, che perciò maggiormente beneficiarono del suffragio, furono la media e piccola borghesia.
Conseguentemente la politica meridionale rimaneva dominata dalle clientele e dai “galantuomini”.
Questa situazione crea situazioni penose, che, fino al giorno di oggi, sono la piaga della nostra società.
Le “ Lettere Meridionali”, raccolte in volumetti da Pasquale Villari, con fermo intendimento critico affrontavano temi ben definiti: il brigantaggio, la mafia siciliana, la camorra napoletana, fatti tutti che al Villari apparivano come “la conseguenza logica, naturale di un di un certo stato sociale, senza modificare il quale è impossibile sperare di poter distruggere questi mali”.
Brigantaggio, banditismo, mafia, violenza privata occupavano anche il primo posto nell’inchiesta del Franchetti, che scopriva nel malsano ed abominevole costume, manifestazioni profondamente connaturate ai meridionali con un sistema di vita, nel quale sopravviveva la prevalenza dell’autorità privata su quella sociale, ed il diritto continuava ad avere come unico criterio di giustificazione la forza anziché la legge.
Da qui la diffusione del male sociale della mafia, che si manifestava in atteggiamenti sconcertanti: l’omertà generalmente goduta dai malfattori, l’importanza determinata dalla violenza nei rapporti privati, le strette relazioni esistenti tra i ribaldi di mestiere e le classi agiate ed influenti della popolazione, la vita amministrativa, ridotta a contese di fazioni.
Ne deriva che il patrimonio pubblico era indirizzato a favore di pochi capaci di prevalere di volta in volta con la violenza.
Il volto della delinquenza mafiosa in collusione con gli interessi politici viene messa in chiara luce dal Franchetti, che dice “ognuno delle parti contendenti cerca di rafforzarsi estendendo le sue alleanze nella riserva inesauribile dei prepotenti, dei latitanti, dei malfattori, degli assassini”:
(Franchetti-Sonnino – La Sicilia nel 1876-pp. 10 sgg.)
La lentezza e l’onerosità della giustizia disarmavano le comunità più povere a richiedere la difesa dei propri diritti.
La grande confusione, esercitata dal governo nei poteri legislativi ed in quelli giuridico-istituzionali, facilitava la violazione della legge.
Sindaci e consiglieri, che avrebbero dovuto tutelare l’interessere, erano spesso usurpatori del diritto.
Donde il profondo risentimento dei contadini e le loro reazioni violente, l’occupazione delle terre a mano armata di terreni demaniali, gli incendi dolosi di boschi ed altri fatti di sangue ancor più gravi.
Ma invero questi accadimenti sono da considerare eventi sporadici, che non perseguono le finalità proposte. Anzi tutte le azioni promosse dai contadini venivano soppresse cruentamente. Al proletariato non rimaneva altro che soccombere senza talora poter pronunciare un grido di protesta.
Silenzio e desolata rassegnazione avvolgevano quella plebe, soggiogata dalle forze della politica, del progresso e talora anche dalle impervietà della natura stessa.
Esemplificativo al riguardo è il contenuto della novella Libertà del Verga.
Scrive Giustino Fortunato nel 1876 “A dir tutto le quotizzazioni, come furono prescritte dalle leggi, non hanno agevolato nell’Italia se non il monopolio dei terreni nelle mani dei proprietari; esse insieme con le nuove leggi di imposta accrescono di giorno in giorno le grandi proprietà a danno delle piccole”.
La storia del Mezzogiorno dell’Italia, dall’antichità in avanti, con le sue particolari vicende e le sue molte disgrazie e le tante disuguaglianze con la storia generale dell’Italia, sembrava al Fortunato inintelligibile, se non studiata prescindendo dalla geografia della penisola.
La geografia, insegnava anzitutto che il Mezzogiorno, osserva l’autore, era una regione nel complesso naturalmente infelice per la sua stessa configurazione longitudinale, piena di asperità e terre aride e lunghe prode malariche, per le troppo montagne e le valli abbandonate.
Nel percorrere le nostre province il Fortunato si sentiva pervadere da un senso indicibile di turbamento e di meraviglia, che lo induceva a credere ad un cataclisma, ad un’incursione dei barbari, all’accorata elegie di quelle “terre morte”, di quegli antichi paesi abbandonati dagli uomini, di cui parlano i cantori dell’Ellade e dell’Asia minore e concludeva “Voi pensate allora come a una lotta crudele fierissima tra l’uomo e la natura: una lotta in cui l’una e l’altra portano indelebili le tracce dolorose”. Non ci sentiamo di condividere l’opinione del Fortunato, che indulge, ad una forma di determinismo geografico-antropologico, senza spiegare le vere ragioni del paesaggio siciliano, non derivante precipuamente dal suo assetto geofisico, ma soprattutto devastato dall’incuria del malgoverno. L’accentuazione del Fortunato, riguardante una condizione preordinata dello status generale della Sicilia, ci appare destituita di veridicità storica.
Saranno, invece, gli autori quali Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Quasimodo, che riusciranno nelle loro opere a raffigurare il vero volto della Sicilia. Il paesaggio siciliano è per i nostri autori la cifra poetica, in cui si snodano le vicissitudini del tempo in una descrittività, che è insieme momento drammatico,elegiaco e trasposizione del vissuto umano.
Agli occhi del popolo siciliano, se la terra appare desolata, questa condizione non è certo da attribuire agli elementi primordiali della natura, quanto al disinteresse di una classe politica, che, disconoscendo la fatica del contadino, abbandona le terre alla malaria e non si occupa di valorizzare quei beni inestimabili che il suolo siculo possiede.
Il paesaggio, allora, si fa tutt’uno con la tragicità dell’esistenza, della quale lo stesso diventa metafora,in accordo con le variegate e spesso discordanti situazioni ambientali, storiche, politiche.
Per gli autori del tempo, il paesaggio si fa storia viva e palpitante, in cui si compiono tutte le vicissitudini del genere umano nel tempo e, attraverso il vissuto personale, nella contestualità del gruppo sociale.
Per questo motivo in autori coevi la tonalità del paesaggio si colora di tinte del tutto diverse e talora contrapposte.
Riporto ad esemplificazione di questo assunto due brani letterari, il primo è tratto dall’incipit de I Vecchi e i Giovani di L.Pirandello, l’altro dall’explicit del Germinal di E. Zola.
Entrambi gli autori trattano nelle loro opere la delusione storica, che, alla fine dell’800 e, perdurando lungo tempo, lacera non solo l’Italia, ma tutta quanta l’Europa.
Sia Pirandello che Zola fanno rivivere nelle loro opere eventi susseguenti alla seconda metà dell’800.
Pirandello pubblica la sua opera nel 1913, ma ambienta l’azione del romanzo nel periodo delle prime lotte dei Fasci Siciliani (1893).
Zola pubblica Germinal nel 1885 e tratta un tema, presente peraltro in Verga e Pirandello, delle miniere, ed in particolare dei due scioperi attuati per opera dei minatori, a Ricamarie, nel dipartimento della Loira, il 16 giugno del 1869 ed il 7 ottobre del medesimo anno, ad Aubin, nel dipartimento dell’Aeyron.
Dall’incipit de “I vecchi e i giovani”
“ La pioggia, caduta a diluvio durante la notte aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi………………………………………………
Piovigginava ancora a scosse nell’alba livida tra il vento che spirava gelido a raffiche di ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva scorresse un brivido dalla città………………………Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su la Girgenti nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolta lassù, si levava silenziosa ed attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo”.
Da “Germinal” di Zola explicit
“ Alto nel cielo, ora il sole di germinale raggiava in tutta la sua gloria. Al caldo
dei suoi raggi, la terra sprigionava in mille forme la vita dal suo grembo materno. Le gemme degli alberi si schiudevano in lucide foglie; i campi trasalivano sotto la spinta dell’erba, agognanti alla luce. Per la vegetazione in succhio, si propagava come un fremito: era la linfa che urgeva sotto le cortecce. Ma sotto quel tripudio della natura, sempre più distinto, il giovane (Stefano) continuava a udire l’oscuro travaglio dei minatori. E di questa messe la terra era incinta; una messe che spunterebbe un giorno alla luce, grandeggerebbe nei solchi per gli imminenti raccolti. Là in fondo era un esercito vendicatore, che schiantando la terra, ben presto esploderebbe alla luce”.
Nel brano pirandelliano i campi semantici connotanti il paesaggio sono pioggia-alba livida –elementi naturalistici che fanno da sfondo alla tragica visione di “un’ostinata crudeltà del cielo sopra quelle piagge estreme della Sicilia”. Il paesaggio, inoltre, ”cruccioso, dalle fosche ombre umide” enuclea il pessimismo pirandelliano, che tradito anche dalla lezione verghiana, nella natura rivela l’angoscia esistenziale del popolo siciliano.
Quella “desolazione”, che “si levava silenziosa ed attonita superstite nel vuoto senza vicende, nell’abbandono senza riparo” non è da considerare soltanto un’annotazione paesaggistica, ma un aspetto assiologico del romanzo in tutti i suoi aspetti di carattere estetico-culturale e socio-antropologico.
Il “vuoto” di un tempo senza riparo semantizza la reale condizione del popolo siciliano, che soccombe inerte all’iniquo potere delle forze allora dominanti, chiuso nel “silenzio” e nella muta rassegnazione.
Al tempo vuoto, infatti, Pirandello correla “l’abbandono di una vita senza riparo”.
Del tutto diverso è il paesaggio nell’explicit del Germinal di Zola.
L’autore, che pure nel suo romanzo aveva espresso con rara efficacia stilistico-espressiva la lotta dei minatori, di cui aveva rivelato, talora con crudo realismo tutti gli aspetti caratteriali con precisa connotazione psicologico- naturalistica, attraverso le vicende dagli stessi miseramente e dolorosamente vissute, conclude il suo romanzo con l’apparizione del sole (germinal).
Gli indicatori connotanti il paesaggio sono il sole di “germinale”, che “alto nel cielo raggiava in tutta la sua gloria”.
Il contrasto tra i due paesaggi evidenzia un cronotopo, in cui spazio e tempo coincidono con varietà di toni e di situazioni psicologico-esistenziali, riferibili al contrapposto modo di sentire dei personaggi e alle contraddizioni esistenti, nello stesso periodo, in ambiti regionali, nazionali e sopranazionali.
In quest’ottica possiamo comprendere la differenza profonda dei due paesaggi: in quello pirandelliano l’imperversare della pioggia in un’alba livida, in quello zoliano l’irradiarsi del sole che feconda le messi.
Il paesaggio diventa per entrambi gli autori figura stessa del tempo storico.
L’habitat naturalistico zoliano si schiude, con l’immagine del germinale, alle teorie, che gli ideali del socialismo avevano alimentato nella classe operaia francese e, che, invece non avevano trovato eco nella tragicità esistenziale del popolo siciliano, immerso in “un vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono di una miseria senza riparo”, come abbiamo ricordato poc’anzi.
Invero il popolo siciliano si sente votato alla desolazione e alla sconfitta. Anche quando tenta di ribellarsi viene trucemente sconfitto, come ci documenta il Verga, nella già citata novella Libertà
Zola, invece, conclude il suo romanzo facendo procedere il protagonista Stefano verso la “luce” nel momento stesso in cui “le gemme si schiudevano in lucide foglie” e i “campi trasalivano sotto la spinta dell’erba agognanti alla luce”.
Pregne di valenze semantiche sono le parole innanzi enunciate- trasalivano- vale a dire che la natura partecipa con tutta l’ebbrezza possibile di un vitalismo, che per gli esseri umani si traduce nel riscatto e nella propensione ad una vita autentica, degna di essere vissuta nei termini che le stesse leggi della natura prescrivono.
Il participio presente, poi, ”agognanti” indica un transito da una condizione, che è quella miserevole, in cui si aggirano i personaggi, ad una forte e vibrante tensione emotiva, che li spinge con atto volontaristico verso la luce.
La luce può essere considerata un iponimo del sole ed è insieme l’ultima parola colla quale si conclude il romanzo, quasi per fissare un episema: luce come metafora di riscatto, libertà.
E questo assunto lo chiarisce lo stesso Zola quando ci presenta Stefano, che, mentre procede incontrando la luce, “ ascolta l’oscuro travaglio dei lavoratori”
Sembrerebbe, allora, che prendesse campo l’ossimoricità della vita: da una parte il sole che sorge nel mondo, dall’altra il buio esistenziale del travagliato vivere quotidiano.
Ma proprio nell’ultimo rigo del romanzo l’autore scrive: “ là in fondo un esercito vendicatore, che schiantando la terra presto esploderebbe alla luce”.
Una siffatta rappresentazione non poteva essere concepita né da Verga, né da Pirandello.
A Ciaula, personaggio pirandeliano non rimane altro dopo una giornata di immane fatica che “scoprire la luna” e l’evento, anche se carico di intensa emotività lirico-introspettiva, si esaurisce sul piano intimistico e non promette nessun riscatto sul piano esistenziale e sociale del caruso.
Ancora più drammatico è l’epilogo della vita di un altro “caruso” di matrice verghiana: Rosso Malpelo, che viene sepolto dalla cava, vittima di un ineluttabile destino.
Il discorso, fin ora esposto, potrebbe sembrare una digressione se non fosse sostanziato dalla veridicità degli eventi storici e dai movimenti, a questi correlati.
Nella convinzione che un discorso letterario, anche nel suo aspetto meramente estetico, debba confrontarsi parallelamente sul piano diacronico e su quello sincronico colla storicità, comprensiva di ogni moto di pensiero e sentimento, inglobanti la linfa e la radice stessa del vivere dell’uomo, ci accingiamo a trattare brevemente gli aspetti salienti del movimento della Prima Internazionale, che permeò di sé non solo l’Italia, ma tutta quanta l’Europa e che creò atteggiamenti di pensiero afferenti in modo decisivo nel campo della cultura e del progresso sociale con risvolti producenti nel mondo delle lettere e delle arti.
La Prima Internazionale è preceduta dall’insurrezione proclamata nel 1863 dalla Polonia contro il dominio russo.
Un anno dopo, il 28 settembre 1864 nacque la Prima Internazionale, cui aderirono l’Inghilterra e la Francia e numerosi esuli politici come italiani (vicini alle idee mazziniane e soprattutto provenienti dal nord) insieme a polacchi, svizzeri, tedeschi. La Sicilia, invece, rimaneva chiusa in un’opaca renitenza e piegata al suo destino in uno stato di assoluta arretratezza e, per dirla secondo il discernimento del Verga, “senza aura di scampo”.
Animatore del movimento è stato K. Marx, che già nel Manifesto del 1848 aveva invitato la classe operaia a “spezzare le proprie catene”.
La Prima Internazionale si diffuse in tutta l’Europa ed anche in Italia, sopratutto ad opera di Bakounin, in un primo tempo seguace del pensiero di Marx, ma poi distaccatosi, in quanto proponeva un’azione rivoluzionaria, mentre l’autore del Capitale auspicava l’emancipazione della plebe in un processo dialettico che portasse a compimento la coscienza di classe del mondo operaio.
Il messaggio bakouniano chiamava le plebi in genere e la classe lavoratrice, in specie, all’unione e alla lotta non solo per la conquista di immediate realizzazioni di carattere economico e professionali, ma soprattutto per l’instaurazione, sulle rovine del mondo capitalistico, di un innovativo ordine sociale ed economico definitivo.
Nel Mezzogiorno Baukounin insistette particolarmente su un punto assai sensibile: “ la terra fecondata dal lavoro e dal sudore della plebe doveva appartenere ad essa per diritto naturale”.
Ma, anche se il nostro abile e travolgente agitatore mostrò grande interesse per la Sicilia, le cui condizioni generali gli sembravano assimilabili a quella degli umiliati e offesi della Russia, il popolo siciliano, a differenza della Francia e delle altre nazioni, non si mostrò pronto alla riscossa.
Il popolo siciliano, in effetti, non si liberò dall’atavico assoggettamento e dall’imposizione del potere precostituito, sottoponendosi agli interessi dei “galantuomini” e, non riuscendo ad elevare la propria voce, si rinchiuse in un silenzio dolorante e privo di speranze e di attese.
Le enunciazioni, appena espresse, sono tendenti a chiarire le ragioni per le quali autori, quali Verga e Pirandello sono distanti da Zola.
Comprendiamo, inoltre, come sia in Verga che in Pirandello lo sguardo, rivolto alla Sicilia, si compenetra con viva e sentita partecipazione emotiva, oltre che ideale, nel dramma vissuto dalla propria gente, che viveva in istato di separatezza e di abbandono, anche all’interno della propria nazione, in cui sempre maggiormente si conclamava la dicotomia tra Nord e Sud.
Al fine di una maggiore puntualizzazione del divorzio tra Nord e Sud, divorzio, che peraltro, come abbiamo visto, produceva in Sicilia uno stato di arretratezza rispetto anche agli stati europei, desideriamo soffermarci brevemente sulle posizioni critiche di alcuni pensatori, che si sono interessati al fenomeno.
Sul finire del secolo XVIII Nitti pubblicò un’opera: Nord e Sud.
Il Nitti argomenta che, all’atto dell’unità di Italia, il Mezzogiorno possedeva la maggior parte del capitale monetario circolare esistente in Italia, esattamente il 65,7% e che avrebbe potuto realizzare queste ricchezze in modo da sviluppare armonicamente i settori della sua economia, se da parte dello Stato non si fosse attuato uno spietato “drenaggio” di tale denaro a favore del Nord.
Le nuove gravissime imposte, la compera dei beni demaniali ed ecclesiastici, l’unificazione del debito pubblico provocarono un vero dissanguamento dell’economia meridionale, resa ancora più grave dopo il 1887, quando il Mezzogiorno divenne il naturale mercato di consumo su cui si scaricavano i prodotti industriali dell’Italia settentrionale.
Il Nitti perviene a questa conclusione: “fra l’Italia del Nord e quella del Sud la differenza di condizioni economiche e sociali si era accentuata rispetto al 1860.”
Vi sono ora due Italie: una progredisce rapidamente ed entra nel circolo della civiltà industriale, l’altra si dibatte in strettezze crescenti. La tesi del Nitti, ricchissima di dati e assai pregevole, quale interpretazione della realtà economica, sottintendeva una visione politica, fondata sul presupposto che, mantenendo inalterati i rapporti tra le forze sociali del paese, si potesse giungere, estendendo nel Sud gli effetti dell’industrializzazione, ed intervenendo con un’opportuna politica di sgravi fiscali,ad un processo di unificazione.
Il processo di unificazione risultò, però, vano e le differenze tra Nord e Sud furono accentuate nel periodo dominato dal Giolitti, mediante una politica, che assunse una forte impronta burocratica e che sfavorì grandemente l’economia del Meridione.
Gaetano Salvemini usò l’espressione rimasta famosa “ministro della malavita” nei confronti del Giolitti, che non rifuggì in certe circostanze di ricorrere a pressioni di vario genere per fare eleggere nei collegi elettorali deputati favorevoli al governo.
L’Italia aveva raggiunto particolarmente nel Nord traguardi nel campo dello sviluppo economico e sociale, ma era ancora la nazione degli emigranti, dei contadini poveri, degli analfabeti.
Puntuale e convincente ci appare l’analisi condotta da Gramsci sulla questione meridionale.
Nell’interpretazione di Gramsci, che approfondisce questa tematica nei “Quaderni del Carcere, il nostro opina che il mancato Risorgimento era la causa prima del divario tra Nord e Sud anche perché i democratici non furono capaci di mobilitare, accanto a una parte della piccola borghesia e del proletario urbano, le masse contadine del Mezzogiorno.
Questa frattura fra masse popolari del Sud e classe dirigente borghese è per lo studioso, il vero nodo strutturale della questione meridionale.
3
GIOVANNI VERGA: Tra storicità e letterarietà.

Con Nedda il Verga matura la sua istanza verista, Scrive il Russo: “Da questo momento non avremo più romanzi o novelle,in cui il protagonista sia il centro fantastico dei suoi dolori e delle sue riflessioni, ma la sofferenza, che nei romanzi giovanili poteva attribuirsi a squilibrio degli individui, ora il triste equilibrio intrinseco del mondo stesso si avvia ad una rappresentazione della vita. E la lingua non è più la lingua di un uomo colto, ma la lingua dei protagonisti stessi”.
La lingua parlata, anzi, aggiunge il Russo, è “la cellula del linguaggio poetico dello scrittore”.
Lo scrittore, invero, avverte la realtà quotidiana e la descrive nella crudezza di forme artistiche e linguistiche.
Per il Russo l’impersonalità dello scrivere si identifica con l’impersonalità del destino umano.
Uno scrittore cristiano, come il Manzoni, può accompagnarci per tutto il racconto o con una parola di fede o può sollevarci nell’attesa della provvidenza divina, ma per il Verga, invece, l’uomo è condannato da un fatalismo opprimente.
Lo stesso sentimento di amore spesso nel personaggio verghiano deve fare i conti colla miseria e con eventi talora cruenti.
Nella Vita dei Campi, in cui l’amore è sentito come profondo dramma, tuttavia si esalta la religione della casa, della famiglia, dell’onestà, motivi, che saranno ripresi e sviluppati ne “I Malavoglia”.
La logica religiosa della famiglia e del travaglio quotidiano assorbono tutta l’opera del Verga.
Dice ancora il Russo :“Il tempio della religione familiare è la casa: Il focolare domestico è Il luogo sacro donde procedono tutte le lotte e le tristezze e ogni tragedia, nel racconto del Verga, è sempre tragedia familiare”.
Accanto al sentimento dell’amore e del focolare domestico si affianca nel Verga, congiuntamente al fascino di un’innata forza bruta, un altro motivo: quella straordinaria capacità sinfonica di tracciare e sottolineare la musica del paesaggio, del mare, del cielo e di tradurre la natura in sentimento umano.
Si deve, peraltro, osservare che il punto, da cui parte il Verga, consiste nella identificazione di una società reale, nel suo regionalismo, nella vita elementare delle masse, nel suo stesso linguaggio dialettale, che è da considerarsi l’unico linguaggio vivo rispetto ad una lingua letteraria morta, astratta, stantia.
La poetica del Verga si forma e si sviluppa contestualizzandosi alla crisi storica specifica della sua regione.
L’attenzione, volta dal Verga al reale storico, possiamo coglierla nella novella Fantasticheria.
La novella consiste in una specie di lunga lettera, in cui lo scrittore ricorda ad un’amica le due giornate trascorse insieme ad Aci-trezza, rievocando in particolare le impressioni suscitate dalla visione della vita e del carattere di certi personaggi di quello sparuto villaggio di pescatori nella costa orientale della Sicilia.
L’elemento valoriale di questa novella consiste soprattutto nel fatto che essa segna una svolta definitiva nella ricerca attenta ed appassionata, che lo scrittore fa, per delineare il contrasto tra il mondo altezzoso e colpevole del lusso e della città e il mondo sano e doloroso della provincia.
Si delinea, in tal senso, il fulcro dell’ispirazione verghiana preconizzante “I Malavoglia”.
Nella Prefazione a “L’amante di Gramigna”, inoltre, ribadisce il concetto dell’impersonalità dell’arte.
Riportiamo dalla Prefazione alcuni brani che ci chiariscono l’evolversi della maturazione artistica dell’autore.
“ Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà l’efficacia dell’essere stato, delle lacrime vere, delle febbre e delle sensazioni, che sono passate per la carne……………………………………………Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia elle sue forme sarà così perfetta, la sincerità delle sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessari, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea, come in fatto naturale, senza serbar alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia d’origine”.
Nel proporre la scrittura come “documento umano” il Verga si mostrava assai preciso nella formulazioni delle sue intenzioni estetiche, nelle quali era implicita una chiara posizione polemica nei confronti del dramma inventato, della letteratura sentimentale, della psicologia d’eccezione.
Proprio per questa posizione polemica l’arte del Verga si presentava nella cultura italiana con una forte spinta innovatrice e per un lungo periodo la critica si trovò impreparata o in posizione di pregiudiziale rifiuto.
Il Capuana fu il primo a seguire le tappe fondamentali della nuova arte del Verga; cominciò con l’indicare nel bozzetto Nedda del ’74 la rottura decisiva col vecchio mondo romantico per il Verga, e l’instaurazione di un nuovo filone per la narrativa italiana.
il “ritorno” del Verga alla Sicilia non era soltanto un itinerario della memoria, che ritrovava il tempo appena intravisto, ma felicemente nella Storia di una capinera, ma segnava la possibilità per la nuova narrativa italiana di uscire dall’idealismo di convenzione per calare, per dirla con il De Sanctis, l’ideale nel reale.
Recensendo, poi, nell’80 le Novelle “Vita dei Campi” il Capuana riuscì a precisare in senso nuovo e moderno il concetto di “forma” e di “stile” penetrando coraggiosamente nel nucleo centrale del problema e dimostrando di capire ciò che altri critici non avevano intuito.
Così si esprime l’illustre letterato: “quando dico forma, non intendo soltanto la frase, ma qualcosa di più elevato: la concezione, tutto l’organismo dell’opera d’arte, che funziona con la pienezza della vita, libera ed indipendente dalla personalità che la creò”.
Alla semplicità quasi nuda del linguaggio verghiano era, pertanto, da rapportare il nuovo concetto di forma.
Partendo da queste premesse il Capuana, con riguardo in particolare a “I Malavoglia” deduceva interessanti spunti di riflessione concernenti la tradizione letteraria e la contestualità storico-culturale.
Per la prima volta i personaggi manzoniani non sono traditi, ma piuttosto trasferiti in un nuovo reale storico, a differenza di quelle narrative di tanti piccoli manzoniani, che si erano allontanati dalla lezione della “storia” che il Manzoni aveva impresso nella sua opera.
Il Torraca apprezzò pure l’opera dl Verga e salutò i Malavoglia come “prova di vigore intellettuale, che aiutano al pari degli scritti di Franchetti e Sonnino, a farci conoscere le condizioni sociali della Sicilia”.
Il Torraca, citando le inchieste di Franchetti e Sonnino, poneva l’accento sull’adesione alla storicità, che, al centro della nuova arte verghiana, si connotava essenziale e sostanziale degli intendimenti estetici dell’autore.
La compresenza di elementi storico-sociali, confluenti all’opera verghiana, è oggetto di riflessione anche da parte del Sapegno, che definisce la componente veristica presente nell’opera dello scrittore siciliano come “la letteratura che meglio di tutte aderisce alla storia vitale, al “ritmo progressivo” della storia, quella che raccoglie la parte più positiva e feconda dell’eredità romantica per trasmetterla alle generazioni future”.
In effetti, dopo il Risorgimento, sotto la vernice della democrazia e della libertà, esisteva una struttura burocratica, incapace di sanare il conflitto tra Nord e Sud e, di conseguenza, la Sicilia era soffocata dalla miseria e dall’ignoranza.
Illuminanti per comprendere appieno questa condizione storico-culturali ci appaiono ancora le parole del Sapegno “ da noi il verismo doveva assumere quel colore specialissimo che lo contraddistingue nel quadro di un’esperienza europea: colore regionale ed epico, che naturalmente accompagnava la scoperta e l’illustrazione di un mondo pressoché vergine e ignoto, il mondo del meridione e delle isole, delle plebi contadine ed artigiane chiuse nella loro opaca renitenza alle forme e agli statuti della civiltà moderna, affioranti, per così dire dal buio di una civiltà arcaica e stranamente sopravvissuta dietro le barriere di una secolare solitudine”.
Il Sapegno esamina il problema della solitudine e del silenzio anche in forma socio-antropologica e lo rinviene nella constatazione di una diffusa mancata coscienza popolare del popolo siciliano, che non si sente pronto a lottare per la rivendicazione dei diritti umani
Compito dello scrittore è, allora, conclude il critico, quello di “interpretare e tradurre in parole il disperato silenzio di una moltitudine estranea e lontana”.
Le plebi meridionali, invero, sembravano immerse in un pessimismo vittimistico senza possibilità di riscatto e salvezza.
Nei termini di una critica di stampo marxista, indulgendo a precise forme di indagine storica con annotazioni socio-antropologiche, riprende il discorso sul Verga il Trombatore, che afferma: “gli esempi del naturalismo e la questione meridionale guidarono il Verga alla scoperta della sua terra, della Sicilia, non di una Sicilia mitica e leggendaria, ma di quella popolazione di derelitti………. Le problematiche storiche congiuntamente a quelle filosofiche spinsero l’autore non a glorificare il progresso, ma a capire il senso drammatico della lotta”.
L’autore non si volge all’“ idoleggiamento” e alla “celebrazione” dei trionfatori, ma si piega alla miseria dei vinti, travolti dalla “fiumana del progresso”.
La novella Libertà ci presenta in modo netto la lacerante condizione della plebe meridionale.
La novella racconta una sommossa contadina durante la spedizione dei Mille: una di quelle violente e cieche espressioni di rancore a lungo covate per le angherie patite. Il popolo, insorgendo contro i suoi oppressori, non persegue consapevolmente e coerentemente un suo obiettivo politico.
L’orgia di sangue si esaurisce da sé col calare delle tenebre; la furia sanguinaria non ha risparmiato neanche le donne e i bambini.
Il giorno dopo giungono i soldati di Bixio a fucilare sommariamente i più indiziati e a riportare l’“ordine” nel paese sconvolto.
Desolanti sono le parole di un carbonaro che aveva partecipato alla sommossa e che adesso viene condotto in galera. “Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra. Se avevano detto che c’era libertà”.
Queste parole sono da considerare non solo la conclusione della novella, ma l’epilogo di una drammatica condizione esistenziale di derelitti “senza aura di scampo”.
Le delusioni, le miserie, le speranze, le lacrime di un intero villaggio tramano la storia de “I Malavoglia” popolato da una plebe, che si dibatte in una vita misera ed angusta senza possibilità di redenzione.
In tutto il romanzo domina la costante dell’oppressione nei confronti del popolo, che giusta l’osservazione del Trombatore, è da reputare la “tonalità grave” di tutto quanto il romanzo.
E, se qualcuno tenta di staccarsi dalla miseria e dall’oppressione, soccombe, come avviene a “Ntoni de “ I Malavoglia”.
E se, qualcuno più astuto e più tenace riesce ad impadronirsi delle leggi economiche e a salire il rango dei dominatori, anche quella è una vittoria effimera, che si risolve in una più tragica sconfitta.
Ci riferiamo in particolare al personaggio mastro-don Gesualdo, che da umile manovale, qual era, giunge a competere con i pezzi più grossi del paese e quasi a dominarli. Tuttavia mastro-don Gesualdo è appena sopportato se non escluso dal mondo dei nobili e dei “galantuomini”.
E quando egli muore solo lontano dal paese, in una stanzetta del palazzo del genero, senza neppure il conforto dell’affetto della figlia, mastro-don Gesualdo,consapevole dell’assoluta vanità e del fallimento di tutta la sua opera, è un vinto ed intorno al suo cadavere si esercita il chiacchierio pettegolo ed impudente della servitù.
Questo romanzo, osserva il Trombatore, “contiene la più alta protesta del Verga, il fremito più vasto della sua sorda e soffocata indignazione”
La rappresentazione di tutta quanta la realtà e il suo svelarsi nelle variegate forme delle classi sociali è senz’altro il principio fondante dell’estetica verghiana.
Ce lo spiega il Verga stesso nella lettera indirizzata all’amico Salvatore Paola il 21 aprile 1878.
“Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande. Una specie di fantasmagoria della lotta della vita, che si estende dal cenciaolo al ministro e all’artista ed assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità di guadagno e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano, lotta provvidenziale che guida l’umanità attraverso tutti gli appetiti alti e bassi, alla conquista della verità.
Insomma cogliere il lato comico o drammatico di tutte le fisionomie sociali, ognuna colla sua caratteristica negli sforzi, che fanno per andare avanti in mezzo a questa onda immensa, che è spinta dai bisogni più volgari o dall’avidità della scienza di andare avanti, incessantemente, pena la caduta e la vita per i deboli e i maldestri.
Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale, resa con mezzi adatti. Il realismo,io,l’intendo così, come la schietta ed evidente manifestazione e l’osservazione coscienziosa, la sincerità dell’arte in una parola : potrà rendere un lato della fisionomia italiana moderna,a partire dalle classi infime,dove la lotta è limitata al pane quotidiano, come nel Padron ‘Ntoni, e a finire nelle varie aspirazioni, nelle ideali avidità di lusso, passando dalle avidità basse alle vanita di mastro-don Gesualdo, rappresentante della vita di provincia all’ambizione di un deputato”.
La precipua attenzione, protesa dal Verga nei confronti del realismo, nei termini e modi suesposti, porta alle estreme conseguenze il pensiero già espresso da Hegel, che concepiva il romanzo come un genere letterario nuovo, che si addice al mondo moderno, potendo accogliere in sé “la prosa della vita reale”.
Inoltre il nostro autore recepisce la lezione di Balzac, che, oltre ad avere ravvicinato la letteratura alla vita reale, studia approfonditamente le ragioni della sua tecnica narrativa finalizzate all’accostamento ai problemi dell’ideologia con quelli dello stile.
Invero sia la commedia umana di Balzac che tutto quanto il mondo verghiano, seguendo l’interpretazione di Lukàcs, possono esseri letti, oltre che come trasposizione dell’ideologia del reale nella pagina scritta, come grande universo linguistico.
La ragione linguistica diventa intrinseca alla logica stessa compositiva e strutturale dei romanzi con efficacia d’innovative tecniche sperimentali.
A proposito delle nuove tecniche, raccordabili soprattutto al romanzo sperimentale, non possiamo non ricordare quanto dice Zola “Il mio scopo non è quello di costatare dei risultati acquisiti, decido solo di esporre con chiarezza un metodo. Se il romanziere cammina ancora a tentoni entro la scienza più oscura e più complessa, ciò non toglie che questa scienza esista.
E’ innegabile che il romanzo, quale noi l’intendiamo, è un vero esperimento che lo scienziato compie nell’uomo con l’aiuto dell’osservazione (E.Zola- Il romanzo sperimentale-tard.it di I.Zaffagnini-Parma-Pratiche- 1980-pag 8)
Soffermiamoci brevemente ad analizzare la frase compresa nel brano zoliano, riguardo al romanzo “vero esperimento che lo scienziato compie nell’uomo e con l’esperienza dell’uomo”.
La fondamentale esigenza, invero, dell’intellettuale del tempo è quella di comprendere tutto l’universo umano e di riproporlo, come già abbiamo ricordato, nei modi propri dell’arte, secondo la formula, che Gramsci propugnerà qualche tempo dopo.
Un’altra parola-chiave è “osservazione”.
Questo principio lo troviamo anche in Verga nella Prefazione a“I Malavoglia”.
“…… ……..Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile per raggiungere la conquista del progresso è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità”.
Le parole del Verga ci esprimono chiaramente la sua posizione nei confronti della fiumana del progresso. L’autore manifesta un certo stupore ed una certa simpatia umana per i protagonisti del “cammino, incessante, febbrile” intenti a raggiungere “la conquista del progresso, ma questo progresso, secondo il giudizio del narratore, può essere considerato “grandioso solo se visto da lontano”.
Con questa affermazione il Verga prende le distanze dalla mitologia del progresso, celebrata in quegli anni e invece tende a sottolinearne gli aspetti negativi: “irrequietudini”, “avidità”, ”vizi”, “contraddizioni”, che connotano la fisionomia socio-antropologica del paese in quel periodo.
Lo sguardo dell’autore è rivolto ai vinti. La sua ideologia lo porta a scrutare il reale con l’osservanza schietta ed appassionata ed al contempo lo spinge a comprendere appieno il suo ruolo di intellettuale.
“Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli, che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori di oggi anch’essi avidi di arrivare, e che saranno sorpassati domani”
Nella parte finale della Prefazione Verga ci testimonia i principi fondamentali della sua arte: la sua osservazione schietta e sincera del reale, la sua poetica dell’impersonalità e la tecnica narrativa della regressione.
Il realismo verghiano, peraltro, espresso nella ricordata lettera al Paola, assume, altresì come nello Zola e negli autori rappresentativi del periodo, una specifica connotazione ideologica.
Da qui la grande valenza del romanzo del periodo, oggetto della nostra trattazione, sino ai nostri giorni, e la sua specifica intenzionalità nel legare uno stretto rapporto tra letteratura-vita ed intellettuale-pubblico.
Le denunce, contenute in tutta la vasta attività narrativa verghiana e degli autori coevi, sono da considerare, giusta l’affermazione del Cesarani, “un’allegoria del mondo disumano nell’ottica degli egoismi padronali e della borghesia capitalistica”.
I personaggi dei romanzi del tempo non sono ideali, ma piuttosto “figure” dell’ideologia del reale, osservata e vissuta dagli autori.
E se ogni personaggio è simbolo, oltre che dell’ideologia, del vissuto dell’autore, ci spieghiamo la profonda differenza tra Stefano, protagonista del Germinal di Zola e Rosso Malpelo del Verga.
Stefano e Rosso vivono entrambi la tragica realtà delle miniere, ma mentre Stefano, come abbiamo visto precedentemente, potrà incamminarsi verso una luce redentrice, emblema di un possibile riscatto, Rosso è vittima sacrificale della lacerante situazione storica, in cui versa la Sicilia.
Rosso Malpelo finisce per acquistare una dimensione protagonistica ed eroica da eroe maledetto.
Come osserva il Baldi “ l’ingresso del punto di vista di Rosso in quel mondo dominato da una legge ferrea, in cui la coscienza non è che riflesso meccanico e accettazione positiva della realtà di fatto, ed in cui il soggetto aderisce senza margine di distacco ad un’oggettività oppressiva e si annulla in esse, apre lo spiraglio della coscienza attiva e del giudizio in opposizione all’ottusità e all’indifferenza, che è tipica dell’ambito, che lo circonda, l’eroe, sotto la spinta dei suoi sentimenti filiali offesi, della sua rabbia di sfruttato e del suo odio di classe per gli sfruttatori giunge a vedere il vero volto di quella società antagonistica fondata sulla violenza e sull’oppressione”. (G.Baldi- Rosso Malpelo in “L’artificio della repressione-tecnica narrativa e ideologica del Verga-Liguori-1980 pp.47-48).
Le due figure, messe in contrapposizione, potrebbero indurci, come è avvenuto per il passato, secondo i paludamenti di stereotipi critici, a considerare il mondo della poetica zoliana estraneo a quello verghiano.
Donde tutti gli accademismi, accentuati da molti “ismi”: regionalismi, provincialismi, naturalismi e quanto altro.
Invero Verga come Zola, e tutti gli altri autori rappresentativi del tempo, seguivano la logica dell’ideologia del reale, sorta dall’osservazione diretta dei fatti e dei personaggi, resi vivi nella loro autenticità attraverso la scrittura, mediante appropriati strumenti stilistico-estetici.
Questa è la più grande lezione del realismo, tuttora presente, e dalla quale la nostra generazione trae insegnamento.

CAPITOLO SECONDO
La “parola” del Verga tra cinema, musica, arte pittorica.
1) Verga e il cinema
2) Dalla novella del Verga “Cavalleria Rusticana”all’omonima opera di P.Mascagni- La “Cavalleria Rusticana” di P. Mascagni e “I Pagliacci” di R. Leoncavallo: un testo unico per la comprensione della musica verista in Italia.
3) Il realismo nell’arte pittorica: G. Courbet- G. Pellizza da Volpeda.
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VERGA E IL CINEMA NEL ‘900.
Nel ‘900 un gruppo di giovani, che partecipavano alla rivista “Cinema”, diretta da Vittorio Mussolini, elaborano un progetto teorico e pratico per un’innovativa concezione del cinema italiano.
Si tratta di intraprendere la strada del realismo che in Italia trova in Verga il suo rappresentante più significativo.
Ha origine nel cinema la cosiddetta corrente del neorealismo, che non soltanto tendeva legare il cinema alla letteratura, ma anche a tutte le altre arti dalla pittura alla musica.
Luchino Visconti, che si era inserito nella Rivista Cinema, elabora un progetto preciso di trascrizione cinematografica de “I Malavoglia” di Verga.
Aderire al realismo nel cinema voleva significare altresì l’abbandono di tutti quei contenuti borghesi, che, nella letteratura come nel cinema, avevano creato una “falsa coscienza”. Nella rappresentazione dei personaggi verghiani, in un habitat nudo e crudo e, al contempo vergine e mitico, il nuovo cinema non intendeva, però, sottoporsi ad una realtà statica.
Attraverso la “lettura del reale” invece i promotori e L.Visconti, in specie, della nuova corrente, traevano linfa per la realizzazione di una tipologia di film-documento, espressione autentica di verità.
Il film-documento assume,inoltre, una valenza altamente sociologica e contribuisce ad inverare un processo culturale, che, come testimonia lo stesso L.Visconti, ci riconduce a Gramsci.
Così si esprime il regista:
“Interessato come sono ai motivi profondi, che rendono inquieta, ansiosa l’esistenza degli Italiani, ho sempre visto nella questione meridionale una delle fonti principali…….La sola letteratura narrativa, nella quale, nel quadro del romanzo italiano, sentivo di potermi accostare, dopo le letture giovanili, al momento in cui col primo film, sia pure con i limiti del fascismo, un tema contemporaneo della vita italiana, era quello di Mastro-don Gesualdo e dei Malavoglia. Poi venne la guerra, con la guerra la Resistenza, e con la Resistenza la scoperta per un intellettuale della mia formazione, di tutti i problemi italiani, come i problemi di struttura sociale oltre che d’orientamento culturale”
Le parole di L.Visconti sono significative per delinearci il dibattito culturale occorso nel decennio anni 40-50 del Novecento.
Ricordiamo, infatti, che data anno 1941 la prima edizione di Conversazioni in Sicilia di E.Vittorini, mentre il 1948 registra l’anno della comparsa La terra trema di L.Visconti, ispirato per l’appunto a “I Malavoglia” del Verga.
La lezione verghiana si riproponeva in quegli anni dopo l’oscurantismo culturale, prodotto dall’avvento del fascismo.
Si sentiva il bisogno di guardare la realtà e l’universo umano tutto quanto, ivi comprese le connotazioni psicologiche ed individuali del personaggio, e di tradurli nella scrittura filmica, nei termini e nei modi della narrativa verghiana. La lingua del Verga diventa la stessa lingua del cinema.
Il film-documento, inoltre, non si esaurisce in un’azione narrativa, ma, come afferma lo stesso Visconti, invita lo spettatore al ragionamento.
Sembra proprio che, dopo il ventennio fascista, prendano corpo in tutte le produzioni artistiche dalla narrativa, alla pittura, al cinema le parole di G.Verga, espresse nella prefazione della sua ultima opera “Dal tuo al mio” (1903)
“ Al lettore non sfuggono, come non sfuggono al testimonio delle scene della vita, il senso recondito, le sfumature di detti e di frasi, i sottintesi che lumeggiano tante cose con la pagina scritta, come la lagrima amara o il grido disperato, suonano nella fredda parola di questa verità e sincerità artistica quale deve essere perché così è la vita, che non si svolge, ahimè, in belle scene e teatri e eloquenti”.
Le parole del Verga preludono alla rivoluzione del cinema italiano del dopoguerra.
Il monito verghiano: l’autenticità delle scene, ispirate alla realtà, la lagrima vera, il metodo di verità e sincerità artistica, che ingloba tutta la vita, quale essa è, nel cinema neorealistico, sono i nuclei fondanti del discorso, che registi da Visconti a Rossellini a De Sica, intendono intrattenere col pubblico.
Le sequenze del film diventano una lingua ed una scrittura, che seguono gli stessi stilemi verghiani.
A buon diritto così il nuovo cinema s’inserisce nel dibattito culturale intellettuale-popolo, che a quel tempo viene teorizzato da Gramsci. Che la lezione di Gramsci fosse oggetto di peculiare attenzione per L.Visconti, per la costruzione di nuove forme di rese artistico-interpretative nel mondo del cinema, lo testimonia lo stesso regista, che dice:
“La chiave mitica in cui avevo gustato Verga non mi fu sufficiente. Sentii impellente il bisogno di scoprire fossero le basi storiche, economiche e sociali, nelle quali era cresciuto il dramma meridionale e fu la lettura illuminante di Gramsci che mi ha consentito il possesso di una verità che attende ancora di essere affrontata e risolta”.
L. Visconti spiega, nel prosieguo del suo discorso, la ragione per la quale la lettura di Gramsci era stata illuminante.
Il regista afferma che “non era stato soltanto impressionato dall’acutezza dell’indagine storica, condotta dal pensatore, ma soprattutto dalle indicazioni pratiche e realistiche in questa contenute.” Ricordiamo, infatti, ancora che Gramsci, a differenza di altri meridionalisti, aveva auspicato l’alleanza tra i contadini del Sud e la classe operaia del Nord, per il perseguimento della reale unità d’Italia, in tutti quanti gli ambiti, da quello storico a quello socio-ecomico e culturale. La riflessione, promossa da Gramsci nell’ambito storico, con particolare riferimento alla questione meridionale, è coincidente con l’assunto concettuale, dallo stesso enunciato e concernente la funzione dell’intellettuale.
La lezione gramsciana viene accolta con entusiasmo dai letterati e dagli artisti del tempo, tra i quali vi è L. Visconti, che dice:
“M’illuminò, inoltre Gramsci, sulla funzione particolare, insostituibile degli intellettuali meridionali per la causa del progresso, una volta che fosse stati capaci di sottrarsi al servilismo del feudo e al mito della burocrazia italiana”.
La Sicilia si presenta così come una metafora della vita della plebe sempre intenta ad un continuo e talora vano lottare.
Agli occhi di Visconti, come di Vittorini e di Quasimodo la Sicilia diventa emblema della storia dell’uomo, delle sue vicende umane, costituite da conflitti e da antagonismi, che creano un dramma essenzialmente psicologico, che ci rimanda al mondo verghiano.
Giovanni Verga, invero, non aveva soltanto creato un grande mondo poetico degli umili, ma aveva fatto rivivere un tempo e una società, affioranti da un’arte autenticamente realistica e al contempo creatrice di verità.
La Sicilia omerica e leggendaria de “I Malavoglia”, di “Mastro-don Gesualdo”,
de “L’amante di Gramigna” non poteva se non essere, conseguentemente, la matrice di ispirazione di un cinema, che, precedentemente mortificato da un gusto borghese e, talora fatuo e pieno di vacua retorica nell’età fascista, trovava il suo riscatto in una produzione artistica, che aveva l’intento di proporre nello schermo, con schiettezza e sincerità di toni, la rappresentazione di un’umanità che soffre e spera.

2
Dalla novella del Verga “Cavalleria Rusticana” all’omonima opera lirica di Pietro Mascagni. La “Cavalleria Rusticana” e “I Pagliacci” di R.Leoncavallo: un testo unico per la comprensione del filone della musica verista in Italia.
Il mondo della grande opera lirica, dalla fine dell’800 agli inizi del ‘900 sente l’esigenza di adattare la lingua musicale a quella dei narratori veristi.
Possiamo considerare l’origine del verismo musicale con la Traviata di Verdi e assai più tardi con la Carmen di Bizet.
I musicisti del tempo pongono alla ribalta del palcoscenico personaggi reali e non più ideali, cari al pubblico borghese di buona parte dell’‘800.
Una vera e propria rivoluzione nel mondo del melodramma è rappresentata dalla Cavalleria Rusticana, musicata da Pietro Mascagni, – (Livorno, 1863-Roma, 1945) – tratta dall’omonima novella del Verga ed adattata su un libretto scritto da Giovanni Torgioni-Tozzetti e Guido Menasci.
Fu rappresentata la prima volta il 17 maggio del 1890 al teatro Costanza di Roma e fu un successo enorme.
Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso, aperto a tutti i giovani musicisti, che non avevano scritto ancora un’opera.
Secondo le direttive del concorso l’opera doveva essere costituita da un atto unico.
Al concorso parteciparono Nicola Spinelli con l’opera Labilia, Vincenzo Ferroni con l’opera Rudello e Pietro Mascagni con la Cavalleria Rusticana, che vinse il concorso.
Dopo la prima rappresentazione della Cavalleria Rusticana il successo si diffuse in forma strepitosa in tutta Italia ed anche all’estero.
Grande fu l’ovazione che accolse l’opera in America, a Filadelphia al Grand
Opera House il 9 settembre 1891 e poi a Cicago il 30 settembre dello stesso anno.
Trionfale fu pure il debutto dell’opera il 30 dicembre del medesimo anno al Metropolitan Opera. In quell’occasione l’opera, che normalmente veniva eseguita assieme ad un’altra opera del compositore Zanetto, precede un frammento dell’Orfeo ed Euridice di Gluck. Da allora innumerevoli sono state e continuano ad essere le rappresentazioni dell’opera in Italia ed in tutto il mondo e sempre con caloroso successo di pubblico e di critica.
Nel 1892, intanto, un altro musicista, ispirandosi a Mascagni, Ruggero Leoncavallo – (Napoli, 1857-Montecatini 1919) – scrive una nuova opera “ I Pagliacci”, che racconta una storia realmente accaduta.
L’opera fu rappresentata per la prima volta il 21 maggio del 1892 al teatro Dal Verme di Milano, sotto la direzione del maestro Arturo Toscanini.
La sua aria più nota “Vesti la giubba”, cantata da Enrico Caruso, fu il primo disco al mondo a toccare un milione di copie di vendite.Il libretto è stato scritto dallo stesso Leoncavallo ed è desunto da un processo istruito dal padre magistrato. I Pagliacci, pertanto, si presentano non come un’opera, che non attinge al verosimile, ma al vero, in perfetta concordanza con le teorie e le istanze estetiche del verismo al tempo dominanti. Sia la Cavalleria Rusticana di P.Mascagni sia “I Pagliacci” di. R Leoncavallo hanno analogia di contenuti, ambientazione, effetti scenico-musicali. Entrambe le opere hanno come sfondo il Meridione; la prima si svolge in un paese della Sicilia, l’altra in un paese della Calabria. La cadenza temporale è ben determinata in entrambe le opere: nella Cavalleria Rusticana l’azione si svolge il giorno di Pasqua, né “I Pagliacci” durante la festa di Ferragosto..
La coralità delle feste paesane, costituita dal pullulare di personaggi genuini ed istintivi, è nelle due opere non solo un aspetto contornuale, ma una componente essenziale connotante le peculiarità del filone dell’opera musicale verista, di cui P. Mascagni e da R.Leoncavallo sono i più significativi rappresentanti.
Sorprendente è, inoltre, l’analogia di eventi e vicende, narrati nelle due opere, l’una tratta dall’opera verghiana, l’altra, dedotta dalla vita reale. Accomuna le opere il tema dominante della passione amorosa e della gelosia. Nella Cavalleria Rusticana si parla dell’amore indomito di Turiddu nei confronti di Lola, che era andata sposa a compare Alfio, quando il giovane era partito per assolvere gli obblighi di leva. Accanto alle figure di Turiddu, Lola, compare Alfio, vivono palpitanti e traboccanti di sentimento altri personaggi: la madre di Turiddu, mamma Lucia e la sua promessa sposa Santuzza.
L’opera si conclude con un grido corale disperato “Hanno ammazzato compare Turiddu”. Compare Alfio, spinto dall’irrefrenabile sentimento della gelosia, scontrandosi in un duello rusticano con Turiddu, lo uccide.
E’ presente nell’opera la concezione la concezione verghiana dell’amore-passione violenta che si conclude colla tragedia.
Già all’inizio dell’opera l’aria, cantata da Turiddu, denominata “La Siciliana”, a sipario calato, modulata con un ritmo del tutto nuovo, concitato e suggestivo, anticipava la costruzione di un mondo di passioni infuocate, dove vicenda drammatica e musica si fondevano insieme.
E’ da sottolineare che è la prima ed unica volta che un’opera contiene una romanza scritta in lingua siciliana.
Segno questo che Mascagni, sull’orma del Verga, per esprimere l’autenticità dello stato d’animo del suo personaggio, lo fa parlare con la sua lingua natia, realizzando quella sintesi perfetta, già postulata dall’estetica verista tra atto linguistico e forma artistico-poetica. Anche gli stilemi della lingua musicale di Mascagni sembrano, peraltro, conformarsi a questo principio.
Riportiamo il testo della Siciliana

O Lola ch’hai di latti la cammina
sì bianca e russa comu la cirasa
quannu t’affacci fai la vucca a risu
biatu cu ti dà lu primu vasu
‘ntra la porta lu sangu è sparsu
e nun importa si ci moru accisu
e s’iddu moru e vaiu ‘mparadisu
si nun c’attrovu a tia mancu ci trasu

Traduzione
O Lola che hai la camicia sporca di latte
sei bianca e rossa come l’albero di ciliegio
quando ti affacci sorridi
beato chi ti dà il primo bacio
dentro casa tua è stato sparso il sangue
e non m’importa se anch’io muoio ucciso
e se capita che muoia e vada in paradiso
se non ci trovo te non c’entro nemmeno

La romanza, che in primo momento, ad uno sguardo superficiale, potrebbe evocare gli antichi schemi della poesia d’amore siciliana e quelli della corrente stilnovistica, inneggianti ad un amore assoluto, che si eleva sino alle sfere del Paradiso, invero, ha delle connotazioni del tutto nuove ed intrise di umana, infuocata, drammatica sofferenza.
Lo notiamo attraverso la decifrazione dei segni linguistici.
Se nella scuola poetica siciliana ed in quella stilnovistica il rapporto analogico tra la donna e la natura è la “rosa” o il “giglio” e la sua apparizione si illuminava solo con un sorriso, che induceva alla contemplazione e alla trascendenza, del tutto differenti, più realistici e più carnali, oseremo dire, sono i segni linguistici che sottolineano l’imperversare dei sentimenti del cantore d’amore della Siciliana.
Lola è raffigurata “bianca e russa come una cirasa”. Gli aspetti cromatici aggettivali “bianca e russa” possono essere considerati come simboli del candore del sentimento puro (bianco), riferibile all’animo genuino ed istintivo del siciliano, mentre il rosso è indice di una passione tumultuosa e prelude al sangue che sarà profuso innanzi. Anche la “cirasa” ha una significazione del tutto realistica e terrestre.
La passione, che sconvolge e domina, fa credere a Turiddu che “biatu” è chi dà “ lu primu vasu” all’amata, anche se “lu vasu” preconizza il dramma che sta per compiersi.
Rosso-sangue sono gli ipersegni della vicenda drammatica, annunciata dal canto espresso in lingua siciliana e scandito da un incalzante ritmo musicale.
La tragedia, invero, è preannunziata dall’aria “La Siciliana” e Mascagni abilmente armonizza gli stilemi musicali alla drammaticità della vicenda.
Osserva Mario Morini in “I Cento anni di “Cavalleria rusticana”:
“Con Cavalleria Rusticana Mascagni aveva squarciato le quinte di cartone e i velari di velluto trasferendo in piazza i suoi sentimenti, le sue passioni: un’autentica piazza siciliana, dove la vita del paese si annoda, gioia e dolore di ogni giorno, scatto ed ineluttabile fatalità”.
L’ineluttabile fatalità, incombente nei personaggi verghiani, ed ora trascritti nelle note musicali di Mascagni, ha fatto dire a Henry Hedward Krehbiel:
“ La Cavalleria rusticana sembra pressoché classica, ha la terribile ferocia di una tragedia greca, ma anche la dignità, che la tragedia greca non ha mai violato”.
Che la Cavalleria Rusticana fosse trasposizione in scena della tragicità di eventi della vita reale, che si ripetono nel tempo, certamente lo ha intuito Francis Ford Coppola, autore dell’opera cinematografica “Il Padrino”.
Il regista, infatti, nel terzo capitolo de “ Il Padrino” propone nella colonna molti brani della Cavalleria Rusticana, opera, che recita, peraltro, il figlio di don Corleone, nel suo debutto, come tenore proprio nella parte di Turiddu al Teatro Massimo di Palermo.
Proprio durante lo svolgimento dell’opera avviene la strage nella quale vengono coinvolti diversi criminali e, all’uscita del teatro, persino la figlia di Michael
Quale maggiore efficacia espressivo-rappresentativa poteva essere attribuita ad un melodramma rivisitato simultaneamente all’evolversi di un evento reale e cruento, cui la stessa lingua musicale del Mascagni si accorda con il modulare di una tonalità lirica, che evocata dal dramma dalla vita reale, è tutta vibrante di quel tumultuoso pathos, che comprende e sottolinea le urla strazianti che il catastrofico evento produce?
Opportunamente il Morini aveva osservato che nella Cavalleria Rusticana “una forte sensualità e un temperamento passionale arroventano l’opera, che dall’inizio alla fine avvince ed emoziona; Mascagni aveva ereditato da Verdi il gusto della musica che scuote il sangue”
Ma nella rappresentazione filmica di Coppola il sangue scorre realmente e copiosamente e le note musicali di Mascagni si adattano ad interpretare la drammatica sequenza, rappresentata dal racconto filmico. Gli stilemi musicali, invero, della Cavalleria Rusticana imprimono la voce vera e dolente del reale, scandita fra trasalimenti dell’animo, angosce e consapevolezza della drammaticità esistenziale. L’orchestrazione di questi codici linguistici musicali, esaltando i moti dell’animo, stigmatizza la forza drammatica degli eventi, in un modulare di un declamatorio lirico, che evoca grida, lamenti, singhiozzi, pianti, che si perpetrano nell’avvicendarsi delle vicissitudini umane. Nel voler rappresentare in un’azione scenica simultaneamente, inoltre, il movimento musicale con l’evento reale, è presumibile che il regista abbia voluto realizzare col linguaggio cinematografico l’assunto categoriale del principio teatro-rappresentazione-verità, seguendo l’insegnamento di Pirandello, secondo il quale “l’arte è prioritaria alla vita”.
Se l’arte, poi, è prioritaria e, se soltanto l’arte ci può svelare la verità, si può comprendere facilmente come gli intellettuali del periodo, seguaci del dettato pirandelliano, sentano l’esigenza di approcciarsi ad ogni forma del reale, dal quotidiano, all’esistente e alla complessità di tutte le componenti etico-psicologiche, intrinseche nell’universo umano, spesso antagonistiche e conflittuali.
La formula teatro-verità-vita viene compresa anche da R. Leoncavallo, che, come abbiamo detto, aveva scritto e musicato l’opera “I Pagliacci”.
L’opera di Leoncavallo presenta analogia di contenuto e di ambientazione con la Cavalleria Rusticana di P.Mascagni.
I protagonisti dell’opera compongono una compagnia teatrale, giunta in un paesino meridionale, Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, per iscenare una commedia, che racconta di un “pagliaccio” Taddeo, che nella commedia viene tradito dalla moglie Colombina. La fictio si confonde con la vita realmente vissuta dai personaggi.
I personaggi principali sono Conio, la moglie Nedda (chiaro richiamo verghiano), Tonio, innamorato di Nedda, ma da quest’ultima respinto e Silvio, contadino del luogo con cui Nedda intreccia un legame amoroso e Beppe, che impersona Arlecchino.
Conio, avvertito da Tonio del tradimento, rincorre i due amanti, ma non riesce a vedere nel volto Silvio, che fugge. Nel frattempo arriva uno degli attori a sollecitare l’inizio della commedia perché il pubblico la reclama.
Da questo momento si comprende che è inscindibile il nodo che lega la vicenda narrata dalla commedia alla vita reale dei personaggi, che la rappresentano. Assume, in tal modo significativa valenza il prologo interpretato da Tonio, che è considerato il primo manifesto esplicito del verismo musicale e che ivi riportiamo:
Si può?.
(poi salutando)
Signore! Signori!… Scusatemi
se da sol me presento. Io sono il prologo:
poiché in iscena ancor le antiche maschere
mette l’autore, in parte ei vuol riprendere
le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami.
Ma non per dirvi come pria: «Le lagrime
che noi versiam son false! Degli spasimi
e de’ nostri martir non allarmatevi!»
No. L’autore ha cercato invece pingervi
uno squarcio di vita. Egli ha per massima
sol che l’artista è un uomo e che per gli uomini
scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.
Un nido di memorie in fondo a l’anima
cantava un giorno, ed ei con vere lagrime
scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano!
Dunque, vedrete amar sì come s’amano
gli esseri umani; vedrete de l’odio
i tristi frutti. Del dolor gli spasimi,
urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!
E voi, piuttosto che le nostre povere
gabbane d’istrioni, le nostr’anime
considerate, poiché noi siam uomini
di carne e d’ossa, e che di quest’orfano
mondo al pari di voi spiriamo l’aere!
Il concetto vi dissi… Or ascoltate
com’egli è svolto.
(gridando verso la scena)
Andiam. Incominciate!
Il testo presenta molte affinità con altre tematiche e teorie estetiche, proposte dagli autori della letteratura realistica, da Verga, a Capuana,a Pirandello.
Il nucleo fondante del brano concerne la tematica del vero, che ogni autore dall’artista, al letterato, al musicista deve prefiggersi per dipingere “uno squarcio di vita”.
Comune al Verga e a Pirandello e ai teorici della critica estetica, è l’esigenza, evocata nel testo succitato, per l’autore di “essere un uomo che per gli uomini deve scrivere”. L’invito, inoltre, a considerare gli attori non come “povere gabbane d’istrioni”, ma a comprenderne nell’intimo l’anima, è una chiara concezione di un teatro, che sempre più deve tendere alla verità.Il teatro, per dirla sempre con Pirandello, doveva uscire dalla forma, in cui si era cristallizzato, per tornare al flusso primigenio ed incandescente dell’autentica vita.
La lingua musicale nelle opere di Mascagni e di Leoncavallo, pertanto, tende a ripetere nelle note, come nella scrittura letteraria o nei codici delle arti figurative, la voce possente della natura, nella quale l’uomo riconosce e rivela sua essenza.
Di stampo pirandelliano possiamo considerare anche la romanza cantata da Taddeo “Vesti la giubba”
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
ridi, Pagliaccio… e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor…
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor

E’ facile riscontrare in questo brano la problematica pirandelliana, concettualizzata nella raffigurazione dell’erma bifronte, che da una parte piange e dall’altra ride.
La compresenza, inoltre, di temi verghiani e problematiche pirandelliane, nel filone della musica verista, trova la sua matrice nella comune radice regionalistica dei due autori e nella lettura, che ne fanno, sia pure con differenziazione di stilemi artistici, delle variegate contraddizioni che l’humus siciliano comprende e nel quale si erano appalesate contraddizioni, riflesse altresì, nella realtà non solo socio-economico della regione, ma anche nella condizione esistenziale degli uomini che la abitavano
Il che, come abbiamo avuto modo di osservare, assume agli occhi dei nostri autori, un carattere, che si allontana da un principio particolaristico o regionalistico per trasferirsi, poi, nel paradigma di un’arte, che si rivolge a tutta quanta l’umanità.
Letteratura, in particolare, e mondo musicale percorrono i medesimi itinerari e gli stessi intenti. Esemplificativo del principio esposto può considerarsi lo stessa azione scenica de “I Pagliacci”.
Canio, nel ruolo di pagliaccio impersona un marito tradito dalla sposa Colombina.
La realtà e la finzione finiscono col confondersi e Canio,nascondendosi dietro Il personaggio, riprende il discorso interrotto dalla necessità di dare inizio alla commedia e, sempre recitando, rinfaccia a Nedda la sua ingratitudine e, trattandola duramente, afferma che il suo amore è ormai mutato in odio e gelosia. Di fronte al rifiuto di Nedda di dire il nome del suo amante Canio uccide lei e Silvio,accorso per soccorrerla. Tonio e Beppe, inorriditi non intervengono, ma gli spettatori comprendono troppo tardi che ciò che stanno vedendo non è più finzione, cercano invano di fermare Canio, che, a delitto compiuto, viene arrestato e Tonio esclama beffardo con un acuto declamatorio “ La commedia è finita”
Come nella grande tragedia greca, alla fine, la rappresentazione trova il suo culmine nell’aprodèscaton (imprevisto),mentre alla finzione subentra tumultuosamente la realtà. Concludendo possiamo affermare che le due opere La Cavalleria Rusticana e I Pagliacci sono da ritenere un testo unico, che rappresenta, oltre gli aspetti peculiari della corrente verista musicale,che si intreccia con la corrente letteraria, l’impegno degli intellettuali del tempo a colloquio con il popolo.
Questo ci spiega,inoltre,il fatto che le due opere vengono rappresentate insieme sin dal 1926, anno, nel quale per la prima volta Mascagni al Teatro della Scala,le diresse congiuntamente.

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Il realismo nell’arte pittorica: G.Courbet- G .Pelliza da Volpeda
Il panorama storico-culturale ,di cui abbiamo parlato nella prima parte del nostro discorso, influenza decisamente anche l’arte pittorica.
I pittori rifiutano l’idealismo, si legano al positivismo,alle teorie marxiste.
Conseguentemente mutano la grammatica e l’iconolgia nell’ideazione e nella composizione delle opere d’arte.
I codici della raffigurazione artistica sono realistici e si instaura un rapporto più diretto tra l’autore e il suo pubblico.
L’autore,infatti,tutto calato nel reale, intende colloquiare col fruitore dell’opera d’arte non come artista,ma prevalentemente come uomo.
E’ da ricordar tra gli autori più rappresentativi della corrente realista Gustave Courbet. (1818-1877). Invero abbiamo ragione di ritenere che il Courbet esprime compiutamente, anticipandolo, ancora prima di tanti altri autori coevi, il complesso moto di idee e di ispirazioni artistiche, culminato, poi, nel periodo intercorrente tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del ‘900 in tutta Europa.
Il pittore, nel momento, in cui la società in Francia nel 1848 fu scossa violentemente da tumulti, che determinarono l’abdicazione di Luigi Filippo, si schierò con le insurrezioni popolari.
Nell’opposizione al capitalismo e alla borghesia faceva sue le istanze di Marx, che proprio nel 1848 pubblicava il Manifesto dei Comunisti e si avvicinava alla filosofia del positivismo sociale
Accoglieva inoltre i moniti,che la letteratura francese, da Balzac,a Flaubert, a Zola propagava nell’orizzonte culturale del tempo, maturando novità di pensiero e di forma artistica. Significativa è stata anche per il pittore l’amicizia con Baudelaire e Proudhon. Per meglio comprendere, però, il mondo di Courbet, l’originalità della sua ispirazione e, di conseguenza. il suo modo di leggere la realtà e di comunicarla al pubblico, ci limitiamo ad esaminare una sola opera dell’autore “Lo spaccapietre” (1849)
[Per visionare l’opera, dopo aver selezionato il link sottostante,cliccate e seguite le indicazioni seguite le indicazioni e aprie alla voce “vai alla pag.htp www…]
http://www.francescomorante.it/pag_3/303aa.htm
Fra i molti dipinti di Courbet e, che, in questa sede sembra superfluo enumerare, la scelta è motivata dal fatto che proprio “Lo spaccapietre” appare un documento-pittura conducente al nostro discorso sia per la rappresentazione dei personaggi,assimilabili a quelli di Verga, di Pirandello, Zola, sia per la valenza estetica espressa,che ha come fulcro la natura che parla da sola e che si relaziona con l’essenza stessa dell’uomo.
Opportunamente osserva l’Argan che il pittore nello “Spaccapietre” “più che rappresentare la realtà, si immedesima in essa………………..Un realismo ideologicamente orientato non sarebbe più un realismo, perché non rifletterebbe la realtà com’è ma come si vorrebbe o non si vorrebbe che fosse. Il realismo di Courbet, tuttavia,risponde alla necessità di prendere coscienza della realtà nelle sue lacerazioni e contraddizioni,” di immedesimarsi con essa, di viverla; di formarsi cioè quella nozione della situazione oggettiva, senza la quale l’ideologia non è spinta rivoluzionaria,ma pura utopia”.
Le parole dell’Argan ci inducono a riflettere sull’essenza della creazione artistica dell’autore : i segni pittorici diventano gli stessi segni della natura, nella quale Courbet si immedesima a tal punto da suggellare un modo tanto nuovo quanto suggestivo di leggere tutto quanto il reale per poi comunicarlo in forma autentica al suo pubblico.
Inoltre un’arte, come quella di Coubert, aliena da schemi ideologici e non utopica,del tutto immediata e spontanea,tanto da sembrare originarsi dalla natura stessa,ha l’efficacia di esprimere tutta quanta la realtà, le sue lacerazioni e le sue contraddizioni.
Che forse non è questo il principio fondamentale, che farà muovere la penna dei nostri scrittori e pensatori dell’ultimo scorcio dell’800 e nei primi decenni del ‘900,indicando alla nostra generazione quale debba essere la ragione vera dell’arte nella sua corrispondenza con la natura e con l’uomo in particolare?
La natura stessa diventa parola e la parola non può che avere un unico destinatario l’uomo, anzi per dirla con Kant, l’uomo in quanto uomo .Per Courbet l’arte trova il suo inveramento creativo-artistico in ciò che vede (lettura diretta del reale), in ciò che sente (sentimento puro ed immediato estraneo ad ogni forma di utopico ed astratto idealismo), in ciò che vuole (volontà ed impegno dell’artista-intellettuale nella costruzione di un’opera d’arte autentica e di comunicarla ad un pubblico, che non è più soltanto quello borghese, ma che comprende tutto quanto il popolo.
Uno dei suoi detti più significativi è,infatti; “ Fai quello che vedi, che senti, che vuoi” può essere considerato il proclama dell’artista-intellettuale rivolto alle nuove generazioni.
Courbet stesso delineò in principi programmatici del realismo (G. Courbet-Il realismo, Lettere e scritti a cura di M. De Micheli-ed.Treccani,Milano 1954 pp.25-26)
“L’attributo di realista mi è stato imposto come agli uomini del 1830 s’impose quello di romantici. In ogni tempo le etichette non hanno mai dato una giusta idea delle cose; se fosse stato diversamente le opere sarebbero superflue.Senza soffermarci sulla maggiore o minore proprietà di una qualifica,che nessuno, giova sperarlo,è tenuto a comprendere sino a fondo,mi limiterò a qualche parola di chiarimento per tagliar corto ai malintesi. Ho studiato, al di fuori di qualsiasi sistema e senza prevenzioni,l’arte degli antichi e quella dei moderni.Non ho voluto imitare gli uni, né copiare gli altri;né ho avuto l’intenzione di raggiungere l’inutile meta dell’arte per l’arte. No .Ho voluto semplicemente attingere dalla perfetta conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della propria individualità. Sapere per potere,questa fu sempre la mia idea. Essere capace di rappresentare i costumi, le idee,l’aspetto della mia epoca, secondo il mio modo di vedere;essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell’arte viva, questo è il mio scopo”.
Al fine di chiarire ancora qualche aspetto di una pittura del periodo dialogante con le tematiche esposte dalla corrente cosiddetta del verismo, ma che noi preferiamo chiamare del realismo, accenniamo all’opera di Giuseppe Pel- lizza da Volpeda (1868-1908),sincero e convinto pittore di fine secolo ‘800, interprete profondo delle istanze sociali,che si agitavano nel tempo.
II pittore volge il suo sguardo all’umanità colla forza, oltre che del suo pensiero, con l’intensità di un palpitante sentimento di viva condivisione alla lotta, intrapresa dal popolo, per il proprio riscatto socio-economico ed esistenziale.
Sue sono le parole, scritte nel 1980: “Il mio scopo è quello di esprimere le verità che arrivano al mio intelletto……….Amo più essere giusto nel pensiero che nella forma”.
La sua opera più famosa è il Quarto Stato.
In quest’opera l’autore rivela fede nel progresso e nell’emancipazione del popolo, allineandosi, in tal modo ai processi evolutivi e ai fermenti di pensiero, che ebbero inizio nei primi decenni dell’’800, ma che si svilupparono concretamente anche in movimenti a carattere nazionale e sopranazionale verso la fine dell’800, argomento, di cui abbiamo parlato all’inizio del nostro discorso.
Secondo l’Argan, il Quarto Stato è Il primo documento di fermo impegno dell’arte nella lotta politica del proletariato.
[ Per visionare l’immagine seguire le procedure innanzi indicate a proposito di Courbet]

http://www.arte.it/opera/quarto-stato-1606

Quarto Stato (1901), olio su tela, cm 293×545, Milano, Museo del Novecento .
Il Quarto Stato fu dipinto da Pellizza tra il 1898 e il 1901 e venne acquistato per pubblica sottoscrizione dal Comune di Milano nel 1920; da allora fa parte delle Civiche Raccolte d’Arte (oggi Galleria d’Arte Moderna presso palazzo Belgiojoso Bonaparte in via Palestro). Pellizza decise il titolo con cui il quadro è universalmente noto poco prima di inviarlo alla Prima Quadriennale di Torino del 1902, in sostituzione del precedente , con una più consapevole scelta di classe, maturata a margine di letture socialiste e anche di una riflessione sulla Storia della rivoluzione francese di J. Jaurès, che in quegli anni usciva in edizione italiana economica e a dispense. Il soggetto è ispirato ad uno sciopero di lavoratori, un tema che aveva interessato i pittori del realismo europeo alla fine dell’Ottocento (da Lo sciopero dei minatori di Alfred-Philippe Roll del 1884 a Sciopero di Plinio Nomellini del 1889, a Una sera di sciopero di Eugene Laermans del 1893).Rispetto ai contemporanei il quadro di Pellizza rifiuta caratterizzazioni di eccitata protesta o di passiva rassegnazione, ma legando il tema iconografico dello sciopero con quello della sfilata che caratterizzava le celebrazioni della festa dei lavoratori, presenta una schiera di braccianti che avanza frontalmente, guidata in primo piano da tre persone in grandezza naturale: un uomo al centro affiancato, in posizione leggermente arretrata, da un secondo lavoratore più anziano e da una donna con un bimbo in braccio. La scena si svolge su una piazza illuminata dal sole chiusa sul fondo da folte macchie di vegetazione, che schermano anche le architetture esistenti, e da una porzione di cielo bluastro con striature rossastre iscritta in una cornice centinata. L’organizzazione dei personaggi fu lungamente studiata da Pellizza attraverso disegni preparatori a carboncino e gesso di grande suggestione compositiva e chiaroscurale: disegni singoli per i tre protagonisti, a gruppi per i personaggi in secondo piano, e di dettaglio per teste o mani delle ultime figure sul fondo. Come i tre personaggi principali non si collocano su un’unica linea ma hanno un’impostazione leggermente a cuneo, così anche i personaggi in secondo piano sono solo apparentemente disposti a schiera, perché in realtà, come è ben evidenziato anche dalle loro ombre, si distribuiscono secondo una linea ondulata ribadita da un analogo comporsi del movimento delle mani nonché dal ritmo e dalla direzione delle loro teste. Questa soluzione contribuisce a evitare che il tutto appaia statico e greve, e a suggerire invece un movimento ritmico e continuo, che ben rappresenta ed evidenzia l’idea dell’avanzata. Anche le diverse condizioni di luce concorrono ad accentuare questa impressione di moto, perché mentre lo sfondo del cielo rappresenta un tramonto, le figure sono viste in una luce quasi meridiana: si accentua in tal modo l’idea dì un trascorrere del tempo e quindi di un collocarsi dell’episodio in uno spazio e in un tempo apparentemente unitari e contingenti, ma, in realtà, espressione di una dimensione più articolata e capace di alludere a un lampo e a una natura che diventano il simbolo di una storia e di valori più universali. In essi, infatti, si materializza l’avanzare inarrestabile di uomini e donne le cui connotazioni descrittive di età e di classe vengono rielaborate e riassorbite in forme nutrite di una profonda cultura pittorica che attinge ai modelli rinascimentali (Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Botticelli) lungamente studiati nei musei di Firenze, nelle Stanze e nei Palazzi Vaticani, e sulle fotografie Alinari, che di tali capolavori documentavano efficacemente forme, ritmi e articolazioni compositive. La volontà dell’autore di misurarsi al tempo stesso con la contemporaneità e con la storia si traduce non nella semplice riproposizione di un episodio contingente di uno sciopero o di una manifestazione di protesta, da cui pure aveva tratto fin dal 1891 la prima idea del quadro – in una ricerca che aveva prodotto il più oggettivamente naturalistico Ambasciatori della fame del 1892 e l’interpretazione meno oggettiva e fortemente simbolista di Fiumana del 1895-96 -, ma nella ideazione di un quadro capace di esaltare l’oggettività delle forme e di simbolizzare tutto il cammino che la classe lavoratrice aveva fatto e si preparava a compiere, un cammino di affrancamento dall’abbrutimento della fatica verso una più umana consapevolezza del proprio valore e della propria forza, un percorso frutto di azione ma anche di pensiero.
Un simile elogio della contemporaneità non poteva essere realizzato se non con una tecnica capace di essere assolutamente moderna, e cioè scientificamente controllata nei passaggi costruttivi della figura ma anche nello studio degli accordi e dei contrasti delle luci a partire dalle basi offerte dalla fisica e dalla chimica ottocentesche. Il Quarto Stato è un’opera complessa, frutto di una tecnica cromatica matura ed efficace. Sulla grande tela, preparata a colla e gesso, Pellizza tracciò le linee di riferimento necessarie per costruire i numerosi personaggi su vari piani e la scena d’ambiente, utilizzando veline ricavate a penna sulla base di diversi cartoni a carboncino; intervenne poi col colore che usò puro, nella ricca gamma di toni messa a disposizione a fine Ottocento dalla casa parigina Lefranc, e che applicò a punti e lineette secondo le leggi del divisionismo, per rendere non solo effetti convincenti di luce ma anche di ariosità e di massa sia nel paesaggio sia nelle figure. Nel piano d’appoggio dominano tonalità ocra e rosate, che trovano il loro punto di massima accensione nel gilet rosso del personaggio in primo piano; nelle figure gli abiti sono realizzati con colori verdastri e giallo sulfurei, ottenuti con una ripetuta sovrapposizione dei vari pigmenti colorati, studiati nelle loro interferenze e nei loro timbri sulla base di cerchi cromatici del tipo elaborato da N.O. Rood (Modern Chromatics uscito a Londra nel 1879), capaci di determinare particolari intensità di toni sfruttando le leggi del contrasto e della complementarità. Anche la dimensione e la direzione delle pennellate contribuiscono a costruire le forme in modo tale da garantire a esse volume pur senza accentuarne la pesantezza o la robustezza. Analoga sapienza denotano le macchie di vegetazione che mediano con il loro controluce e la ricchezza de! fogliame tra la piena luminosità del primo piano e il corrusco tramonto di fondo. Proprio queste caratteristiche di serena oggettività, ma anche di forza e di sicura determinazione hanno contribuito a definire il valore simbolico dell’opera adottata come manifesto dai lavoratori e dalle loro associazioni fin dall’inizio della sua storia espositiva, all’origine di una lunga serie di usi e di riprese soprattutto nella seconda metà del Novecento.

[Testo di Aurora Scotti, tratto da Cento opere. Proposte di lettura, in Enciclopedia dell’arte, Milano (Garzanti) 2002]

CAPITOLO TERZO
Verso la “lettura” del paesaggio verghiano
1) Il paesaggio nel Verga
2) Gli archetipi letterari nel paesaggio verghiano: Teocrito e Virgilio-analogie e contrapposizioni-

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Il paesaggio nel Verga
Il nostro discorso, sino adesso sviluppato, ci convince che l’opera d’arte,nel periodo,oggetto del nostro studio, si realizza “iuxta naturae principia”.Questo presupposto,invero, presente nell’età classica, viene riproposto dal Verga, che lo adatta, pero,al contingente storico e al reale umano ed esistenziale, in cui lo scrittore vive ed opera. Nel Verga,giusta la congettura critica del Bachtin (M.Bachtin-Le forme del tempo e del romanzo-Einaudi-Torino- 1979)tempo storico o lineare tende a sparire,riassorbito nel ciclo eterno della natura”. Il che ci induce a considerare il paesaggio verghiano nella sua storicità temporale e al contempo nella sua idealizzazione simbolica.
Lo stesso Bachtin, nell’intento di focalizzare il concetto di cronotopo nell’opera verghiana, adduce ad esemplificazione la pagina iniziale de “I Malavoglia”,nella quale vengono presentati i personaggi ambientati in un paesaggio, che ha connotazioni del tutto realistico-naturalistiche.
“ Un tempo i Malavoglia erano stati in paese numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”. Il paesaggio, che fa da sfondo alla vicenda, che lo scrittore si accinge a narrare, è quello delle burrasche ed assume un carattere metaforico preconizzante le avversità, verso cui i personaggi sarebbero andati incontro.
“Le burrasche che avevano disperso di qua e là gli altri Malavoglia erano passate e senza far gran danno alla casa del nespolo e sulla barca ammarata sul lavatoio”
Gli elementi descrittivi sono realistici e raffigurano una perfetta coincidenza tra storia e paesaggio,intriso di sofferenza. Il paesaggio,tuttavia, nel Verga si trasferisce sul piano dell’idillio. Acutamente, al riguardo,il Bachtin definisce, puntualizzando nel testo verghiano l’unità organica tra spazio e tempo, in cui si muovono i personaggi e si snodano le loro vicende, cronotopo il risultato della resa artistica dell’autore nella descrittività paesaggistica.”L’idillio”, dice lo studioso, “è l’unione della vita umana e della natura, l’unità del loro ritmo, il comune linguaggio per i fenomeni della natura e per gli eventi della vita umana”.
L’intelligente affermazione critica del Bachtin ci motiva alla lettura,sia pure brevemente sommaria di alcuni loci verghiani. Il motivo del paesaggio in Verga,come possiamo dedurre dal brano, che ci apprestiamo a riportare, talora assume l’aspetto valoriale-simbolico dell’accumulazione della roba.
Si legge nella novella “La roba”
“Un uliveto folto,come un bosco,dove l’erba non spuntava mai e la raccolta durava fino a marzo- Erano gli ulivi di Mazzarò- E verso sera,allorché il sole tramontava rosso e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio al maggese, e i buoi che passavano al guado lentamente col muso all’acqua scuri; e si vedeva nei pascoli lontani della Carinzia nella pendice brulla,il fischio del pastore echeggiava nelle gole e il capannaccio che risuonava or sì or no, e il canto perduto nella valle.-Tutta roba di Mazzarò-“
Il paesaggio è coerente alla stessa vita di Mazzarò- Dice il Luperini: “Uomo e natura si scambiano le parti in una sorta di panismo lirico antropocentrico”
Analogamente quando mastro-don Gesualdo s’incammina per i campi, che costituiscono il cumulo della sua ricchezza, attraverso la quale tenta con fatica il suo riscatto sociale, lo sfondo naturalistico, nel riflettere l’immane fatica dell’arrampicatore sociale, si colora di fosche tinte, espressione di disperazione e solitudine.
Leggiamo
…….Brontolava ancora allentandosi nell’ambio della mula sotto il sole cocente: un sole che spaccava le pietre adesso, e faceva scoppiettare le stoppie quasi si accendessero. Nel burrone, fra i due monti, sembrava d’entrare in una fornace, e il paese in cima al colle, arrampicato sui precipizi, disseminato in rupi enormi, minato da caverne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro, rugginoso, sembrava abbandonato, senza un’ombra, con tutte le finestre spalancate nell’afa, simile a tanti buchi neri; le croci dei campanili vacillanti nel cielo caliginoso…………………
Osserva al riguardo G. Mariani (Letteratura Italiana- I Maggiori- vol.II-Marzorati ed. –Milano-1956-pag.1239) “La fede nella roba dà luogo a un dolcissimo canto che celebra la poesia del paesaggio, ma anche il paesaggio esiste in quanto roba, in una disperata sintesi che è certo una delle più alte conquiste verghiane. Da ora in poi il paesaggio non esisterà come tema a sé, ma come spietata ed amara conquista d’ogni giorno che l’uomo “nato per la roba”compirà senza soste, con implacabile ardore, bruciando se stesso e i suoi affetti in un’implacabile ardore, che ha come ultima meta la disperazione e la solitudine”.
Concludendo la sua giornata mastro-don Gesualdo si abbandona all’idillio contemplando nella Carinzia la luna accanto alla sua fedele e devota Diodata.
“Egli uscì furori a prendere il fresco.Si mise a sedere su un covone, accanto all’uscio,colle spalle al muro,le mani penzoloni tra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofone. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle era illuminata da un chiarore di alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore,anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi,come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si muovevano per la china , e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi .Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente gli altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio…………………………Egli non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli.Ne aveva portato delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino!……”
E’ stato giustamente osservato che il brano che abbiamo riportato rappresenta l’unico momento di idillio, vissuto dal personaggio.
La natura non si presenta, come nel racconto della prima giornata di travaglio arsa, arida, brulla, ma viene illuminata dal chiarore lunare e l’atmosfera è umbratile. La suggestione di quel paesaggio evoca in Mastro-don Gesualdo i ricordi della sua fanciullezza, il duro lavoro affrontato prima di poter possedere quel magazzino, che sembrava immenso nel buio.
Commenta A.Momigliano (A.Momigliano in Da Dante,Manzoni,Verga-D’Anna ed. pp.259-60)
“Dovunque penetra il respiro tranquillo di don Gesualdo, che, dopo la corsa sotto il cielo in fiamme, allenta il corpo e la mente, lascia che la calma dell’ora tarda smorzi la sua fatica, si ristora nella buia frescura della notte. La solitudine ridesta i ricordi lontani di don Gesualdo travagliato nella conquista dell’agiatezza: è un momento di poesia nella sua vita infaticabile, la poesia della sua esistenza di lottatore, il respiro di sollievo di chi è salito e ripercorre con l’occhio l’ascesa. Nemici, pericoli, liti, ostacoli, tutto ritorna in quest’ora di ricordi, ma raddolcito dalla lontananza, immerso nella serenità della notte estiva,ammorbidito e sfumato di tenerezza dalla vicinanza muta di quell’umile donna amata(Diodata)”
Come possiamo arguire dalle parole del Momigliano si tratta soltanto di una parentesi idilliaco-lirica all’interno del romanzo. Poi l’idillio svanisce e nel ricordo della sua ascesa sociale mastro-don Gesualdo ripropone in modo incalzante il tema della roba. Ne “I Malavoglia”,invece, il paesaggio assume un carattere più costantemente consolatorio ed unitario.
Nel paesaggio, sembra realizzarsi, sia pure con tonalità melanconica,il rapporto armonico tra l’uomo e la natura. La scrittura narrativa, allora, diventa cifra poetica nel momento stesso in cui il Verga trasferisce voci e colori della natura nella vita semplice degli umili personaggi.
L’idillio, inoltre, sia ne “I Malavoglia” sia in molte novelle, scritte dal Verga, emblematizza il ritorno al sogno del passato, a quella assolutezza edenica, dispersa e travolta dalla corrente del progresso. Ad esemplificazione leggiamo da “I Malavoglia” L’addio di ‘Ntoni
“E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio, poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta del nespolo mentre il cane gli abbaiava dietro e gli diceva che con il suo abbaiare era solo in mezzo al paese Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmeo lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un suo modo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora ‘Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciolo della vigna di massaro Filippo. Così stette gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare che gli brontolava sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva,e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie.Sulla riva,in fondo alla piazza,cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardar i Tre Re che luccicavano e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia……………………..Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro,riprese la sua sporta e disse:-Ora è tempo di andarmene,perché fra poco comincerà a passar gente.”
Assai mosso è il sentimento che anima il lettore di questo brano mentre lo induce a riflettere. ‘Ntoni decide di andarsene,di rompere con la sua storia presente; è un atto di ribellione, anche se il personaggio sa di incamminarsi verso l’ignoto. Soltanto la natura riesce a parlare al suo animo con voce genuina ed autentica. Il mare, avvertito come ciclo perenne di essere e divenire “di qua e di là dove nasce e muore il sole…….brontolava”. E’ un mare aperto “senza paese” che sa parlare ed ascoltare. E’ la voce di un amico.
All’immensità del mare illuminato dalle prime luci dell’alba si contrappone il paese tutto nero. L’oscurità del paese è una connotazione dell’impossibilità e della tragicità del vivere del personaggio. Quando l’alba comincia a spuntare, però,‘Ntoni riprende il suo cammino allontanandosi definitivamente dalla casa del nespolo e dal suo paese “tornò a chinare il capo e a pensare a tutta la sua storia……………..tornò a guardare il mare, che si era fatto amaranto,tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata, riprese la sua sporta e disse:- Ora è tempo di andarmene,perché tra poco comincerà a passare gente…”.
Il contrasto tra l’incanto incontaminato della natura e il buio del contingente storico reale ingenera il paesaggio del diario dell’anima di ‘Ntoni.
Soltanto la natura ha una parola di conforto per il personaggio nel momento,in cui si trova da solo a colloquio con essa.
Quando,invece, il paesaggio comincia a movimentarsi di persone, che iniziano il quotidiano lavoro, a ‘Ntoni non rimane altro che guardare ancora una volta il mare e andarsene.
La solitudine di ‘Ntoni si compendia nella solitudine del paesaggio (in mezzo alla piazza scura e deserta; tutti gli usci erano chiusi in mezzo al mare). Il personaggio, giusta l’annotazione contenuta nel testo-L.Poma-C.Ricciardi- Il secondo Ottocento-2002-Le Monnier a pag.189-“per la sua condizione di senza terra è assimilabile con un’altra metafora al mare che non ha paese “nemmeno lui”.
Ntoni vorrebbe ascoltare la voce del mare, che evoca la perennità di una vita ciclica ed eterna, ma allorquando si accorge che anche il mare anzi in Aci Trezza “ha un modo tutto suo di brontolare e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico”, il mare stesso diventa simbolo dell’affaccendarsi vorticoso dell’umana fatica per la sussistenza tra sussulti e impedimenti (il gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe).
A questo punto avviene la separazione tra personaggio e mare. ‘Ntoni deve allontanarsi, deve iniziare il suo cammino di ulisse senza ritorno e senza il conforto della voce amica del mare e non più rischiarato nell’anima dalle prime luci dell’alba.
Il contrasto dialettico, tra il mondo incontaminato della natura e la coscienza tragicamente sofferta di sua una frattura insanabile e conflittuale con il reale è al centro della novella Jeli il pastore, compresa nella raccolta Vita dei Campi.
Dall’incipit della novella Jeli il pastore
“Jeli, il guardiano di cavalli aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino, ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio alla mandria.Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso. Il suo amico don Alfonso mentre era in villeggiatura andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi e dividevano fra loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d’orzo del pastorello, o le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell’eccellenza al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene la loro amicizia fu stabilita saldamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, o montare correndo sul dorso nudo delle giumente ancora indomite, acciuffando per la criniera la prima che passava a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti,e dei loro salti disperati. Ah! Le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! I bei giorni di aprile,quando il vento accavallava ad onde l’erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! I bei meriggi d’estate, in cui la campagna bianchiccia, taceva sotto il cielo fosco e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! Il bel cielo d’inverno attraverso i rami nudi di mandorlo che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell’azzurro! Le belle sere di estate, che salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzio melanconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse-iuh! Iuh-iuh!-che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all’alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti,così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che, andavano accendendosi in cielo, vi piovessero in cuore, e l’allagassero.”
Di particolare rilevanza è questa pagina sia per la panoramica della poetica verghiana sia per il messaggio in essa contenuto.
Per quanto attiene alla poetica l’autore realizza una scrittura tanto pregna di poesia quanto più la sua penna trasferisce nel foglio la voce della natura stessa.
Il messaggio, inoltre, che viene evocato è quello del dualismo natura-società. La natura è appagante per la vita autentica dell’uomo; dalla medesima derivano gioia, contemplazione estatica, moti di meraviglia e sincerità di rapporti.
Nell’età infantile, nel contatto colle forze vergini della natura,Jeli riesce a legarsi di sincera amicizia con il signorino Alfonso,infrangendo, in tal modo le barriere, che le convenzioni sociali imponevano. Ma allorquando il reale, con tutte le sue sovrastrutture di ordine socio-economico, subentra al vago-indistinto del sogno, che la natura aveva infuso al primitivo ed umile pastorello, la vicenda umana diventa realisticamente cruda e a questa si reagisce con istintiva violenza e con atti efferati.
E’ significativo che l’autore abbia descritto un paesaggio tanto soffuso di luci e colori soltanto nella prima parte della novella.
Segno questo che il paesaggio diventa metafora dell’animo di Jeli, attesa di una vita da vivere in armonia colla natura.
Il rapporto edenico Jeli-natura, però, s’infrange quando l’umile pastorello viene inviluppato dalla realtà e dalla società, in cui è costretto a vivere.
Notiamo Jeli, all’inizio della novella, muoversi fra i verdi prati in una cornice naturalistica propizia : “le belle scappate per i campi mietuti……….i bei meriggi d’estate in cui la campagna taceva…….i grilli scoppiettavano fra le zolle…….”.
La polifonia delle voci della natura e la sua policromia irradiano di gioia e spensieratezza Jeli. Anche nella cadenza di una prosa snella e al contempo concitata,ritmata da molti segni di interpunzione esclamativi, si delinea il trasalimento dell’anima genuina e spontanea di Jeli, che al pari degli antichi cantori, si accompagnava, talvolta, con lo zufolo, anche se suonava sempre le stesse note. L’incanto della natura riconduceva alla memoria eventi lontani e gioiosi, quali la festa di S. Giovanni, la notte di Natale con struggente nostalgia,mentre sembrava che le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore ,e l’allagassero.
Interessante è il giudizio critico, espresso da Asor Rosa (Asor Rosa- Il caso Verga-Palumbo-1973-pp.45 sgg.)
“In Jeli il pastore esprime a modo suo il sogno mitico di uno stato di natura che precede la costituzione di una società di uomini con le sue strutture e con le sue leggi……………………………………..La contrapposizione di base su cui nasce l’invenzione del racconto è perciò questa : da una parte Natura più Jeli,dall’altra la società tutta (tutto il mondo meno Jeli).In mezzo un abisso storico incolmato e (se si deve giudicare proprio dalla vicenda di Jeli) irrimediabilmente incolmabile……………………..Jeli è parte effettiva della natura, colla quale per l’appunto intrattiene un profondo, misterioso colloquio, che non ha soste”
Jeli, in effetti,come si dice nella novella era piovuto dal cielo e la terra lo aveva raccolto. Ma la terra, che lo aveva raccolto,si relazionava ad una società piena di storture e di contraddizioni.
Al pastore,che sapeva comunicare con la natura, era inaccessibile quel mondo immerso nell’ipocrisia,nella falsità,nella menzogna.
E’ un mondo questo ignaro al pastore e di cui disconosce costumi e leggi. Non potrà sopportare di essere tradito dal suo migliore amico il signorino Alfonso che gli concupisce la moglie. Jeli in un impeto primordiale d’ira ucciderà il rivale accoltellando alla gola (rituale di duello rusticano presente nella Cavalleria). Quando Jeli, poi, viene condotto davanti al giudice per essere processato, pronuncia questa frase: -Come!—-Non dovevo ucciderlo nemmeno——Se mi aveva preso la Mara!———–
Queste parole, che concludono la novella sono coerenti a fissare in modo preciso la fisionomia del personaggio,vigile scrutatore delle leggi della natura, renitente ed inconsapevolmente avverso a quelle della società, in cui viveva il suo quotidiano.
L’elementarità del paesaggio, come è stato detto, rappresenta la stessa elementarità del personaggio e ne esprime tutti gli attributi e le caratteristiche allo stesso connaturate.
Comprendiamo,in tal modo, come il paesaggio figura del personaggio stesso, si diversifica nei vari momenti compositivi dell’opera verghiana.
Vediamo,infatti, come nella raffigurazione di Rosso Malpelo, destinato a soccombere al suo atroce destino, è assente ogni componente idilliaca all’interno dello scenario, in cui si muove il caruso.
Domina nel luogo dell’incessante,faticante e disumano lavoro il colore nero della lava quasi a rappresentare la tragicità cupa dell’esistenza. E seppure c’è uno squarcio di elemento paesaggistico “il mare turchino e l’azzurro del cielo”, questo è visto in contrapposizione al buio della miniera, al tragico e doloroso vissuto del personaggio,che proprio da quel buio sarà inghiottito senza più riapparire.
Dice il Luperini ( R.Luperini-La scrittura e l’interpretazione-Storia e antologia della letteratura italiana-vol. V a pag.355)
“Il paesaggio evoca l’inferno:rena, roccia,picchi e burroni senza un segno di vita………..La miniera è il simbolo del labirinto, dello smarrimento nelle viscere della terra, ma anche della prigione, da cui non si può evadere che con la morte. Malpelo si identifica totalmente nel mondo sotterraneo fino alla scelta volontaria dell’annientamento in quel “buco nero” opposto al mondo degli altri, della luce, della vita comune, che lo ha escluso e rigettato per sempre tra le creature maledette.”
Diversamente si atteggia il paesaggio, che contorna il personaggio della Lupa. Il paesaggio è assolato e sembra ardere della stessa passione, che infuoca la Lupa “….la gnà Pina era la sola anima che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa”
La campagna, che fa da sfondo all’errare della Lupa, simboleggia lo stato d’animo del personaggio, pervaso da indomabile passione. I sassi sono,infatti,infuocati, le stoppie riarse e tutta l’aria respira di afa.
E’ mirabile come il Verga con efficacia stilistico-descrittiva fa palpitare la natura con gli stessi sentimenti, che si agitano nel personaggio. La resa artistica compiuta dell’immedesimazione personaggio-natura conferisce al racconto un tono lirico-simbolico di alto significato poetico. Per comprendere ancora maggiormente la valenza, che il paesaggio assume nella poiesi artistica dell’opera verghiana, non possiamo non ricordarci di un’altra novella Malaria.
Sembra che il Verga, nello scrivere questa novella abbia voluto trasferire sul piano lirico-simbolico le parole-documento, comprese nell’Inchiesta di Franchetti e Sonnino (Frianchetti e Sonnino-La Sicilia-Firenze 1925- pp. 44-45)
“ Triste dote della vasta e ferace terra( terra benedetta da Dio, scrive il Verga) pianura di Catania è quella di essere il luogo dove maggiormente predomina la malaria e fanno stragi le febbri intermittenti e perniciose…..I Lavoratori lavorano tutto il giorno sotto la sferza di un sole cocente, e la notte dormono all’aperto, senza riparo di sorta, in mezzo ai miasmi micidiali: parecchi ne muoiono lì per lì, e molti riportano a casa i germi di una lunga malattia che li renderà inabili al lavoro o li trascinerà sicuramente alla tomba. E ciò per guadagnarsi per una o due settimane poche lire di salario!…”.
Dall’incipit della novella Malaria
“E vi par di toccarla con le mani!- come della terra grassa che fumi là, dappertutto, torno, torno alle montagne-che la chiudono da Agnone a Mongibello incappucciato di neve- stagnante nella pianura, a guisa dell’´afa stagnante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera,e l’estate arsa; vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno,e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte,senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandria, nel gran silenzio volan via le cuttrotole silenziose e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all’ombra dei giunchi secchi. E’ la malaria che vi entra nelle ossa col pane che mangiate,e se aprite bocca per parlare,mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate al basto della mula che va all’ambio, colla stessa bassa”
In questa novella protagonista non è l’uomo, ma la malaria, che incombe sugli esseri umani e ne scandisce il destino.
La malaria accomuna gli elementi della natura, uomini e animali in un cammino di sconfitta e di morte.
All’interno della novella possiamo anche ravvisare le contraddizioni, già denunciate dall’Inchiesta di Franchetti e Sonnino, esistenti tra la fertilità della terra siciliana e le condizioni di fragilità e di miseria degli uomini, che la abitano. Il che fa vibrare nel Verga un profondo pathos, che si riverbera negli stilemi compositivo-descrittivi di un paesaggio desolato, che diventa, al contempo,parafrasi dello stato d’animo dei personaggi, che lo popolano. La natura è dominata dalle stesse leggi, che governano l’uomo: miseria e sofferenza.
Il sole,che appare nello scenario di questa novella, è di brace, quasi a definire l’anima disperata ed esacerbata degli umili lavoratori,mentre la luna smorta sembra voler accentuare con la disillusione una desolazione infinita. Dopo la comparsa della luna smorta si ha l’impressione che il panorama si slarghi ; si scorge la“ Puddara( la costellazione delle Pleiadi) che appare come se navigasse in un mare che evapori. Ma la visione della Puddara sfuma per dare luogo ad una rappresentazione naturalistica più sconfortante : “ gli uccelli e le margherite bianche della primavera e l’estate arsa e vi passano in lunghe file nere le anatre nel nuvolo di autunno”. Nella descrizione, pur se si tende in qualche modo ad esaltare la fecondità della terra le margherite bianche della primavera, poi si accenna all’estate arsa,aggettivazione questa che è riferibile all’aridità della vita personaggi. L’immagine successiva del nuvolo di autunno, verso cui si avviano le anatre in lunghe file nere denota l’opacità esistenziale della vita, condotta dai personaggi verghiani.
Anche il fiume sembra risentire del male di vivere: “il fiume che luccica tra le rive larghe e slabbrate”(slabbrate e, pertanto,deformate da colpi inferte dalla natura).
Lo stesso fiume si sente,pertanto,immerso nelle impervietà dell’esistente e la sua vita sembra seguire l’eguale triste ed inarrestabile destino degli uomini “senza una barca, senza un albero alla riva, liscio e immobile”. L’immobilità del fiume è paragonabile all’imperturbabilità ed ineluttabilità del fato ,così come il medesimo senza barca può raffigurare il naufragio dell’uomo chiuso nella sua solitudine.
Solitudine e desolazione sono nel Verga i temi fondamentali, trasposti dall’autore in questa pagina, non solo con l’intento artistico-poetico,ma soprattutto con l’impegno del letterato-intellettuale, che, nel documentare la realtà, riesce a creare una perfetta sincrasi tra il mondo della natura e l’universo umano.
Continuando a leggere la pagina verghiana, scopriamo che anche i buoi riproducono nella loro fatica il senso del travaglio esistenziale degli umani: “pascolavano svogliatamente,rari, infangati……”. “E verso la fine della descrizione non poteva mancare la presenza umana “ il pastore istesso giallo di febbre e bianco di polvere anche lui, schiude in istante le palpebre gonfie levando il capo ai giunchi secchi”. Alla condizione devastante dell’uomo, in preda alla febbre e sconsolato, fa da correlativo oggettivo la raffigurazione dei giunchi secchi. Invero gli effetti della malaria costituiscono la grammatica compositiva dell’inventività verghiana in questa pagina e per questo l’autore non la nomina nella primo capoverso del racconto. La parola malaria , è situata all’inizio del secondo capoverso: E’ la malaria che vi entra nelle ossa come il pane….ed è funzionale alla discorsività susseguente del racconto, dove si snoda la vicenda dei personaggi mediante codici linguistici più realistici e confacenti all’azione narrata. L’uso, inoltre, di registri linguistici differenziati,da quello simbolico-lirico della prima parte, a quello più dimesso nella seconda parte,sintetizza lo specimen dell’arte verghiana,tendente a descrivere tutta quanta la realtà dalle radici profonde dell’essere umano sino al suo interrelarsi con il mondo della natura e con il vissuto quotidiano. Nel Verga, inoltre, la diversità degli stilemi è correlata al diverso modo di essere, di manifestarsi e di comportarsi dell’individuo.
2
Gli archetipi letterari nel paesaggio verghiano: analogie e contrapposizioni

Le argomentazioni svolte c’inducono a riflettere che nell’arte verghiana il rapporto tempo-spazio e uomo-natura costituisce la peculiarità e l’essenza stessa della tematica del Verga.
Donde la specificità della sua estetica tendente, peraltro, ad una precisa rappresentazione del reale in tutte le sue componenti da quelle naturalistiche a quelle meramente umane.
In quest’ottica abbiamo cercato di interpretare anche il paesaggio verghiano, intessuto di un idillio, che riflette inoltre quell’amara condivisione di dolore, che accomuna natura ed uomini.
Desideriamo adesso soffermarci sull’aspetto dell’idillio, congeniale alla tematica verghiana e tentare di individuarne, per quanto possibile, gli archetipi nell’età classica.
Parlando d’idillio, che ha la sua forza poetica generatrice nella terra di Sicilia, in primis ci ricordiamo di Teocrito.
Teocrito (310-250 a.Chr.), come Verga, è fortemente legato alla Sicilia e, come Verga, predilige cantare la vita semplice dei suoi abitanti.
Ma se il topos è lo stesso, assai distante e diverso è il chronos.
Lo scrittore siciliano ritrae il paesaggio della Sicilia con fosche tinte drammatiche anche quando sembra indulgere ad un momento statico di contemplazione
L’idillio, infatti, viene vissuto dal Verga in contrapposizione al reale ed, anche quando questo si permea di un sentimento patetico-elegiaco, come nell’episodio dell’addio di ‘Ntoni, la natura risuona della nota dolente di un sogno nostalgico, non appagato, disperato, impossibile da realizzare.
In Teocrito,invece, il paesaggio della Sicilia appare rigoglioso, pieno di luci e avvolto da un’aura di serenità.
C’è da dire,inoltre,che Teocrito, pur tendendo ad un certo realismo di linguaggio e d’ambientazione, trasferisce la materia del suo canto in orizzonti meramente letterari.
Bisogna,però, sottolineare che, come in Verga,anche in Teocrito la natura è parafrasi sensibile dei sentimenti umani.
C’è da osservare che,mentre in Teocrito la natura,contemplata nel suo tripudio, è la stessa gioia della vita,in Verga presenta un volto assai più contraddittorio e conflittuale e partecipa delle vicissitudini del genere umano.
Nel paesaggio, invece,Teocrito si abbandona al sogno, immergendosi in una natura felice e benigna.
Ad esemplificazione i vv.135-142 dalle Talisie

Folti sul nostro capo ondeggiavano in alto
pioppi e olmi: e accanto la sacra acqua
stillante dall’antro delle Ninfe mormorava.
Sopra i rami ombrosi le cicale amanti del sole
erano affaccendate a ciarlare, e lontano
fra i rivi folti di spini gracidavano le rane,
cantavano allodole e cardellini, gemeva la tortora
e bionde api volavano intorno alle fonti.

Anche se il poeta tende a rappresentare una realtà oggettuale della natura, il tono poetico si impronta a forme di letterarietà tradite dalla cultura del tempo.
Persino quando vuol rappresentare il meriggio estivo o i colori festosi del paesaggio siciliano è presente la componente stilistico-letteraria.
Leggasi questo brano dell’Idillio XI IL Ciclope

Lascia che il mare turchino si franga a la riva ansimando
come più dolce la notte con me qui passerai nell’antro!
Qui sono allori, qui svettano i bei cipressi slanciati,
d’ellera brune volute, qui vite dei grappoli dolci:
spiccia qui gelida l’acqua che l’Etna selvoso m’invia,
da le sue candide nevi, ambrosia bevanda a la sete;
queste dolcezze chi mai, per i mari ed i flutti, darebbe!
( trad. E. Bignone)

Lo sfondo naturalistico in questo brano ha la sua ragione di essere in rapporto al mito: l’amore vano cantato da Polifemo per Galatea e per questo si libra in un’atmosfera del tutto ideale.
Dice il Pascucci (G. Pascucci- Storia della letteratura italiana-Sansoni-1963-a pag.357)
“Trionfa nel più puro paesaggio, quello più liricamente sentito, l’azzurro del cielo e del mare di Sicilia, l’ardore e il rigoglio delle sue estati, la fecondità delle sue greggi, l’ardente passione e la mimica vivacità dei suoi pastori; più spesso è paesaggio composto, fatto di elementi estranei alla natura e ricavati dall’esperienza letteraria”
Eppure in questa cornice di carattere bucolico Teocrito, come farà più tardi Verga, anche con maggiore intensità, pone l’attenzione alla precisa descrizione di dati realistici e della vita quotidiana.
Invocando Galatea Polifemo parla di se stesso, del suo aspetto e della sua vita di tutti i giorni

Forse villoso soverchio ti sembro, ma qui nella grotta
legna ho di querce e, di sotto la cenere, brace mai spenta
e pure l’anima saprei sopportar che m’ ardessi,
e questa sola pupilla che m’è la più cara dolcezza!
( trad. E. Bignone)

Anche in questo caso l’aspetto realistico non si esaurisce in sé, ma è strumentale all’elegia di amore, secondo la tradizione bucolica.
Nel canto di Polifemo ci sembra,però, di invenire un elemento nuovo, che ci ricorda, sia pure con profonde e radicali differenze, un altro personaggio del Verga. Ci riferiamo a Jeli il pastore.
Nel presentare il personaggio di Polifemo, invero, Teocrito, ne opera una profonda trasformazione rispetto alla tradizione omerica.
Polifemo viene umanizzato, perde la sua ferinità e per questo riesce a modulare con la cetra un canto, che si accorda col paesaggio bucolico, che lo circonda e che ha il palpito della vita vissuta.
Soffre come tutti gli altri pastori innamorati senza speranza e tuttavia in un’intima comunione colla natura, come è stato osservato da S.Nicosia, giunge alla catarsi.
Anche Jeli, nella contemplazione della natura, nell’intuirne il fascino misterioso, sublima il suo animo e, soltanto compenetrandosi in essa, può trovare quella serenità, che la realtà gli negherà.
Nell’episodio teocriteo il paesaggio s’intona compiutamente al modulare del canto dell’anima del personaggio,laddove in Verga, invece, ed,in particolare, nel racconto di Jeli, assume un carattere antinomico e conflittuale con le vicende umane.
Per questo in Jeli è impossibile pervenire alla catarsi, anzi l’opposizione natura-realtà lo farà precipitare in un abisso incolmabile.
Anche quando Jeli tenta di suonare lo zufolo non riesce che a modulare poche note smorzate e sempre le stesse.
Segno questo che i suoi momenti idilliaci erano soltanto sporadici e comunque non tali da potere tramare un discorso compiuto.
La sua emozione, anche se sincera, non diventa consapevole parola dell’anima, né intende, né sa accogliere le suggestioni di moduli poetici, che, invece, sono presenti nell’opera teocritea.
E’ chiaro che i due autori Teocrito e Verga, pur ambientando i propri personaggi nello stesso humus, hanno proposizioni artistiche diverse.
La Sicilia di Teocrito è tutta immersa nel mito della poesia bucolica, quella del Verga, è, invece la Sicilia storica e reale, presente all’autore e vissuta attraverso le sue lacerazioni e contraddizioni.
Abbiamo accennato al rapporto uomo-natura in Teocrito, correlandolo a quello del mondo verghiano, cercando di comprenderne le analogie, come pure le necessarie contrapposizioni, afferenti alla diversità di temperie storica e alle istanze estetiche dei due autori.
Ci sembra, però, opportuno sottolineare che i due autori hanno senz’altro, nella composizione delle loro opere un criterio in comune: quello di identificare Il mondo della natura, dell’arte con il vero.
Leggiamo i versi 42-48 dalle Talisie

Così io dissi a bella posta, e il capraio dolcemente ridendo “ ll mio bastone-disse “ ti dono poiché ti sei formato sulla verità, un rampollo di Zeus. Poiché a me un architetto e fortemente antipatico il quale dice di voler costruire un edificio raggiungendo la cima dell’Oromedonte, e gli uccelli delle Muse che di faccia al cantore di Chio urlando a mò di cuculi si affaticano invano”
(trad.V.Pisani)

All’interno delle Talisie, in mezzo ad una natura festante e rigogliosa, si svolge un colloquio tra i due pastori Licida e Simichida.
Gli stessi pastori, anche se assumono la maschera bucolica, ci tramandano un messaggio assai significativo e tuttora vivo e presente: il bisogno di creare una poetica fondata sul vero.
Il vero, inoltre, concepito in questo brano, trova la sua realizzazione e compiutezza nel rapporto con una natura primigenia e feconda e rifugge dal mondo opulento e dalle sovrastrutture dalla città perché-dice Licida: “a me è antipatico un architetto il quale dice di voler costruire un edificio in cima all’Orodomonte”.
Teocrito, invero, come Verga rifugge dall’ambiente fatuo della città e cerca la sua ispirazione nel paesaggio agreste e nell’umile vita dei suoi personaggi.
La poetica di Teocrito, come lo sarà ancora più compiutamente quella di Verga, vuole essere scevra da un mondo falso e fatuo.
Prende in tal senso una precisa connotazione semantica il modo con cui Teocrito per bocca di Licida deride “ i poveri uccelli che gracidando pretendono di gareggiare con il cantore di Chio”
Anche in questa annotazione si evidenzia il postulato estetico, proposto da Teocrito: il rifiuto dell’imitazione e la creazione di poesia tutta incentrata sul vero.
Acquista, in tal modo un valore categoriale l’apostrofe di Licida rivolta al pastore Simichida “Il mio bastone ti dono perché sei tutto formato sulla verità”.
Il principio dell’opera d’arte, fondata sulla verità sarà perseguito, e lo testimoniano i suoi numerosi scritti al riguardo, anche da Verga, nei termini consentanei alla sua esperienza di uomo e letterato, decisamente distanti da quelli di Teocrito.
E’ importante, però, tenere presente che alcune categorie, relative alle teorie dell’estetica in letteratura, si perpetuano nella diacronia temporale.
Il che ci giustifica il fatto che Teocrito e Verga, autori appartenenti ad ere diverse e distanti, si prefiggono la stessa meta nello svolgimento dei loro itinerari narrativo-poetici: la verità.
Proseguendo il nostro discorso sul paesaggio verghiano, ed, in particolar modo, sul suo aspetto idilliaco, la nostra attenzione si volge ad un altro archetipo letterario: Virgilio.
Anche per Virgilio, come per Teocrito la Sicilia diventa il topos ideale, sede delle muse, che ispirano il canto pastorale.

Leggiamo nella Bucolica IV

Sicilides Musae, paulo malora canamus.
Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae:
si canimus silvas, silvae sint consule dignae.
Ultima Cumai venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.

Cose cantiamo più grandi, Sicule Muse!
Non piaccion gli alberi a tutti né i tamarischi
umili.E allora cantiamo le selve
e siano le selve degne di un console.
L’ultimo tempo è venuto è venuto del carme Cumano;
una grande serie di secoli nasce da capo.
(trad. Cetrangolo).

Il poeta introducendo la quarta egloga, ricordando Teocrito, invoca la Sicilides Musae, nomina gli arbusta e le myricae, gli umili tamerici, piante di basso e tenue fusto, simbolo della poesia delle umili cose, che, però, non piacciono a tutti.
Ora il poeta si appresta a cantare un carme più solenne “paulo malora canamus” e a correlativo della sua poiesi pone le silvae, che rappresentano appunto l’ambiente e la materia pastorale di proporzioni più grandi, consule dignae.
Il console, a cui è dedicata l’egloga è Asinio Pollione, che nel 41 a.Chr. aveva trattato la pace di Brindisi, ponendo fine alle guerre civili e creando le condizioni per una pace duratura tra i popoli.
Per questo motivo nel carme Virgilio celebra l’avvento dell’età dell’oro.
Ci accorgiamo subito che l’unico motivo nel canto che può farci ricondurre a Verga è quello della denominazione della Sicilia, evocata,però,soltanto come sede delle Muse.
Le Sicule Muse ispirano al poeta latino un canto, che è un inno ad un mondo irenico, dove sta per avverarsi una palingenesi universale.
Soltanto c’è da rilevare che è proprio la Sicilia che, da Teocrito a Virgilio sino al Verga e a Quasimodo, costituisce il paradigma di una poesia, che concilia con il melos poetico l’accordo dell’uomo con la natura.
Ma questa tematica deve fare sempre i conti colla storia. Per questa ragione il locus amoenus di Virgilio, per antitesi in Verga spesso assumerà gli attributi del locus horridus.
Invero i due autori legano l’anima del paesaggio al reale storico, in cui vivono ed operano.
Virgilio inneggia all’aetas aurea, Verga, invece, scrive nella natura la sofferenza e il tragico destino degli uomini del suo tempo.
Si può cogliere, però, una certa analogia tra la rappresentazione paesaggistica virgiliana e quella verghiana: il sentimento della nostalgia.

Leggiamo nella Bucolica I. i versi 1-10

MELIBOEUS. Tityre, tu patulae recumbans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patriam fugimus, tu Tityre, lentus in umbra
Formosam resonare doces Amarryllida silvas.
TITYRUS. O Meliboee, deus nobis hoc fecit.
Nacque erit ille mihi sempre deus, illius aram
Saepe tener nobis ab ovilibus ambuet agnus.
Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.

MELIBEO. Titiro, sicuro tu giaci sotto i rami
larghi del faggio e componi un canto silvestre
col flauto sottile; e noi queste dolci campagne
lasciamo, noi in fuga dalla patria.Tu, Titiro,
tranquillo all’ombra insegni alle selve
a ripetere il nome della bella Amarillide
TITIRO. O Melibeo, un dio questa pace mi ha dato.
lui certo un dio sarà sempre per me; e spesso
trarrò dal mio ovile teneri agnelli
per bagnare la sua ara di sangue.
Mi disse che bene i miei bovi potevano errare,
come vedi, al pascolo; e disse che pure potevo
canti a mio piacimento comporre col calamo.
(Trad. Cetrangolo)

L’egogla fa riferimento ad un evento storico: la confisca dei terreni decisa dopo la battaglia di Filippi (42 a.Chr.) per compensare i veterani che avevano combattuto.
Colui che deve abbandonare le terre (Melibeo) viene colto da una struggente nostalgia “nos patriam fugimimus et dulcia linquimus arva”.
Un altro personaggio verghiano, ’Ntoni è costretto a lasciare la propria terra.
Analogo è il sentimento di nostalgia ,che accomuna i due personaggi. Profondamente diversa è, però, la loro condizione psicologico-esistenziale come pure , di conseguenza, diverso è lo sfondo paesaggistico dagli stessi contemplato.
In Melibeo il suo sentimento nostalgico si snoda in un afflato panico colla natura e si libra in un canto patetico-elegiaco per tutta la durata dell’egloga.
La natura viene concepita come una divinità da amare sempre e a questa si intona il canto dell’anima con un’armonia composita ed unitaria.
Anche quando nel paesaggio appaiono ombre “ maiores cadunt altis de montibus umbrae” con specifico riferimento ai tempi bui della storia, il pastoreintona il suo canto in armonia colla natura con una mestizia velata.
Commenta il Funaioli

“ Sulla tragedia umana, intessuta di lacrime amare,di ricordi, di commozione, scende come un oblio lene della faticosa vita,la sera di un pomeriggio di autunno coi suoi casolari fumanti di lontano,colle sue ombre che sempre più grandi cadono dai monti e scolorano le case e ne velano il pianto. E’ appunto di Virgilio far svaporare la tristezza, soprattutto la più grande dentro una scena dolcissima e ampia”.

La suavitas del paesaggio fa contrappunto allo status animi di Melibeo .
Mondo della natura e sentimenti del personaggio si confondono, in un’inscindibile e costante unitarietà, facendo risuonare per tutta l’egloga pure e pacate note di elegia.
Nella pagina verghiana, che descrive l’addio di ‘Ntoni, lo scenario non si sviluppa con un continuum di momenti idilliaci, anzi nel momento stesso in cui nasce l’idillio si avverte da questo il doloroso distacco con l’incombere di un fato indomito ed inarrestabile.
Soltanto per qualche istante la voce della natura parla a ‘Ntoni con il gorgogliare del mare che non ha paese “nemmeno lui”. Scorge le luci dell’alba, ma dovrà allontanarsi, esule senza ritorno.
Non vi è nell’episodio di ‘’Ntoni quella visione panica della natura, in cui si immerge Melibeo, traendone conforto.
Sovrasta la necessità del distacco,che rende ancora più amaro e struggente il sentimento di nostalgia.
A ‘Ntoni non è concesso soffermarsi a contemplare la natura o a condividere con altri, come fa Melibeo con Titiro, la sua pena.
Lo squarcio idillico della natura scompare nel momento stesso, in cui deve intraprendere il suo ignoto destino, che lo travolgerà.
Solitudine e desolazione,lo ripetiamo, sono le note che sottolineano il paesaggio verghiano,che si presenta naturalmente assai distante da quello evocato nell’egloga virgiliana.
Un altro aspetto presente nel Verga e ravvisabile in Virgilio è la concezione del labor.
Leggiamo Virgilio – Dalle Georgiche- I ww121-148

Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni:
ne signare quidam aut partiri limite campum
fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus sepentibus addidit atris
predarique lupos iussit pontem moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando eextunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut sulcis venis abstrusum extunderet ignem.
Tunc alnos primum fluivi sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas,Hyadas claramque Lycaonis Arcton.
Tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelogoque alius trait umida lina.
Tum ferri rigor atque argutae lamina serrae
-nam primi cuneis scindebant fissile lignum-
tum variae venere artes.Labor omia vincit
improbus et duris urgens in rebus egestas.
Prima Ceres ferro mortalis vertere terram
Instituit, cum iam glandes atque arbusta sacrae
deficerent silvae et victum Dodona negaret.
Mox et frumentis labor additus, ut mala culmos
esse robigo segnisque horreret in arvis
carduus: intereunt segetes,subit aspera silva
lappaeque tribolique, interque nitentia culta
infelix lolium et steriles dominantur avenae.
Quod nisi et adsiduis herbam insectare rastris
et sonitu terrebis avis et ruris opaci
falce tremens umbras votisque vocaveris imbrem,
heu magnum alterius frusta spectabis acervum
concussaque famem in silvis solabere quercu

Le cose dei campi volle difficile il Padre
stesso e primo li mosse per arte pungendo
i cuori mortali d’affanno né sonno permise
pesante al regno. Prima di Giove
non c’erano coloni che arassero i campi,
neppure segnare confini o dividerle
era lecito; i frutti in comune ed essa la terra
ogni cosa donava senza richiesta di alcuno.
Ma quello aggiunse il veleno ai serpenti,
impose che i lupi predassero, che il mare bollisse,
il miele tolse alle foglie,il fuoco nascose
e i vini scorrenti e i ruscelli dovunque richiuse:
perché meditando l’uomo foggiasse col tempo
le arti diverse e l’erba del grano cercasse
coi solchi e il fuoco nascosto destasse dai sassi.
Allora sentirono i fiumi gli ontani incavati,
allora diede il pilota numeri e nomi
alle stelle: Pleiadi,Iadi e l’Orsa fulgente
di Licaone;allora s’inventa di prender le fiere
coi lacci, ingannarle col vischio e di cingere
i grandi boschi coi cani; altri colpisce
di fionda vaste fiumane,altri umide reti
tira al mare;allora il rigore del ferro,
le lame stridenti di sega (giacché i primi
spaccavano il legno con i cunei) e nacquero allora
le arti diverse. Tutto vince il lavoro
continuo e nell’aspra giornata l’urgente miseria.
Cerere apprese per prima ai mortali l’aratro
poi che le ghiande e i corbezzoli eran del bosco
sacro scomparsi e Dodona negava ogni cibo.
Anche il frumento sacro s’ammala: ruggine trista
corrode gli steli;s’erge nei campi infecondo
il cardo; muore la messe,un’aspra sterpaglia
sottentra di pruni e di lappole e tra i colti
unitile domina il loglio e sterile avena.
Ché se non rimuovi assiduo l’erba coi rastri
e non metti paura col suono degli uccelli,
se l’ombra non togli di rami frondosi alla terra
e non supplichi pioggia con voti, invano
stupito vedrai de’ vicini i gran mucchi e la fame
tu sazierai scotendo nei boschi le querce.
(trad. Cetrangolo)

Abbiamo riportato questo brano virgiliano piuttosto lungo in quanto riteniamo che contenga topoi ravvisabili nell’opera verghiana : la tensione agonistica dell’uomo con la terra e la necessarietà del labor.
E’ , infatti, all’interno del brano che Virgilio, che prima nelle Bucoliche aveva cantato Omnia vincit Amor, celebra la forza operosa per superare, le avversità della natura e della vita e la miseria……………….Labor omnia vicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas.
Dice il Rostagni : (A.Rostagni- Letteratura latina-vol.II-Utet-Torino 1955 a pag. 51)
“ Il mondo irreale fittizio dei pastori arcadici si allontana più che mai per cedere il passo alla realtà che è fatta di cose comuni, dure, aspre, rozze,di lavoro, di sforzo, di azione…………………….nulla si ottiene dalla terra che non sia pagato con sudore e pianto; le forze misteriose della natura minacciano di ora in ora la vita, gli affetti e l’opera umana, piombano sull’uomo e su tutto ciò che alluomo è caro : sugli animali, sulle piante, sul seminato, sui raccolti e sovvertono tutto,costringendo a riprendere con pena infinita l’opera sconvolta”.
Seguendo l’acuto giudizio critico del Rostagni , ci ricordiamo dei personaggi verghiani e del mondo che li circonda.
Comprendiamo innanzi tutto che sia Virgilio che Verga attingono alle forme estetiche più evolute e più significative allorquando fanno della realtà la substantia della loro ispirazione e del loro discorso letterario.
La realtà, cui volge lo sguardo Virgilio è la medesima,che viene indagata da Verga; si compone di uomini comuni che lottano con indomito travaglio contro le forze misteriose della vita.
L’umanità ,vediamo, rappresentata sia da Virgilio sia da Verga, sente l’incombere di una minaccia, che può sconvolgere nell’uomo tutta quantala vita e soffocarne i più intimi sentimenti.
Bisogna, inoltre, precisare che l’approdo al vero, per entrambi gli autori Virgilio e Verga, segna la loro estrema maturazione nella sfera non soltanto artistica, ma anche in quella umana, culturale e spirituale.
Virgilio si proietta nel vero dopo la parentesi arcadica,Verga sente,invece, l’esigenza di imprimere il vero nella sua opera dopo un primo approccio alle tematica della scapigliatura.
In tal modo i due autori,calando il reale nella loro produzione, congiungono al fenomeno letterario quello storico e colloquiano con il loro pubblico con forti motivazioni di carattere etico-sociali.
Non dobbiamo, però, in virtù delle enunciazioni espresse, pervenire ad un’affrettata conclusione, che ci indurrebbe a considerare il mondo poetico virgiliano del tutto coincidente con quello verghiano.
Del tutto diversa e assai distante è la temperie storico-culturale, in cui i due autori operano e vivono.
Virgilio scrive le Georgiche tra il 37 e 30 a. Chr., nel momento in cui la politica di Ottaviano, compresa quella agricola coincideva con i suoi interessi etico-religiosi. Donde la concezione del labor , che sta alla base del riscatto e della redenzione del suolo italico.
Verga,invece, vive nell’Italia postunitaria, che pagava gravemente il prezzo dell’unificazione, accentuando il divario tra Nord e Sud, nel pieno fermento della questione meridionale e nel turbinio di questioni sociali che non trovavano alcuna soluzione.
Ci affidiamo al testo proposto per meglio comprendere la consonanza dei motivi ispiratori nei due autori e al contempo le contrapposizioni.
…………………………..Pater ipse colendi
haud facilem esse voluti vitam

In questi versi si propone la necessità del labor per l’uomo ai fini della sua sussistenza in un mondo irenico.
Il lavoro degli umili nel Verga, invece, ha un aspetto disumano ignoto a Virgilio.
I personaggi verghiani erano sottoposti alle leggi inique del tempo e allo sfruttamento. Da qui la disperazione e la desolazione dei vinti, che si muovono in un paesaggio, che si colorava delle fosche tinte della loro dolorosa situazione in un attonito silenzio.
Nel testo virgiliano, invece, è ipse pater-Giove,che impone agli uomini la dura fatica dei campi.
La presenza del pater ipse-Giove ci riconduce alla concezione del theòs eurghethès esiodeo.
Il deus-pater, ammonendo gli uomini al lavoro dei campi, preconizza un mondo nuovo,fondato sul bene e la giustizia.
Commenta L.Alnsonsi (L. Alfonsi-Letteratura latina- Sansoni- Firenze-1960 a pag. 208 )

“ Il mondo diventa mondo di giustizia e di lavoro, che trionfa di ogni avversità: iustissima è la tellus ed omnia vicit labor. In questa vasta economia, dove la fatica dell’uomo non è più senza scopo, ma pare sia il dovere, sia il compito morale di ognuno di noi, la realtà sociale acquista contorni ben precisati e si identifica con l’unione tra l’Italia e Roma e con la funzione direttiva affidata a quest’ultima in tutto il mondo…………………………………..Ben poche opere hanno contenuto sociale così marcato, e condizionano in tal misura la vita e la storia alla quotidiana fatica dell’umile lavoratore, riconoscendo a questa la capacità di redenzione”.
Nel testo virgiliano viene esplicitata la volontà del numen.
Giove ha compiuto quest’azione nell’intento che l’uomo meditando foggiasse col tempo le arti diverse e l’erba dal grano cercasse ut varias usus meditando extunderet artis/ paulatim et sulcis frumenti quaereret herbam.
La forza operosa, che spinge l’uomo al culto della terra per ricavarne i propri mezzi di sostentamento, è anche presente nel Verga.
Nel mondo verghiano, però,è assente il numen e quasi sempre la fatica dell’uomo viene vanificata o dall’imperversare di calamità naturali ovvero dall’oppressione, esercitata dalla miope politica del tempo nei confronti degli umili, che ci appaiono vinti e dalla natura e dalla storia.
Questa visione pessimistica viene rappresentata,come abbiamo detto, dal Verga colla metafora del mare ovvero della fiumana del progresso, che tutto travolge,uomini e cose.
Anche nel testo virgiliano è presente il mare. Ed è lo stesso Giove, che iussit pontemque moveri. Giove comanda che il mare venga agitato, ribadendo la volontà ,espressa in tutto quanto il brano, di infondere negli uomini la capacità di opporsi in forma antagonistica alla natura.
Da questa contrapposizione uomo-natura, elemento dominante anche nell’opera verghiana, l’uomo in Virgilio sembra uscirne vittorioso. Non così avviene,per le ragioni innanzi espresse, per il personaggio verghiano.
Nell’antagonismo con la natura l’uomo in Virgilio prende vigore e rivela la sua stessa identità di essere,che vive nella natura e colla natura. E dell’uomo la natura sente la presenza tunc alnos primum fluivi sensere cavatas (allora sentirono per prima gli ontani incavati).
Il tunc, posto all’inizio del verso 136,assume un valore semantico pregante.
Da allora, infatti, l’uomo non solo sente di vivere in perfetta armonia con la natura, ma si evolve nella conoscenza e dà un nome alle cose navita tum stellis numeros et nomina fecit.
L’iterarsi delle locuzioni avverbiali di tempo, tunc all’inizio del verso 136 e tum, all’interno del verso susseguente, se da una parte ci danno la viva sensazione dell’immediatezza con cui il navita scopre il mondo e dà un nome alle cose, dall’altra ci spinge ad un discorso più ampio sul problema sul problema gnoseologico, legato al linguaggio,in senso diacronico..La conoscenza nasce nell’uomo in un rapporto di intima connessione colla natura. E’ una conoscenza genuina e spontanea katà phùsin,da cui si origina quel linguaggio,che non è ancora lògos, ma,che in quanto parola dell’anima si accorda in ogni tempo alle visioni idilliache e alla compiuta espressione dei sentimenti umani.Il navigante attribuisce un nome alle stelle e alle costellazioni : Pleiadi, Iadi, Orsa ed indubbiamente sarà colpito dallo stupore dell’incanto della natura.La lezione virgiliana,infatti,vediamo,è anche presente nel Verga, che propone un linguaggio sempre aderente alla realtà, anzi possiamo dire che converte i segni della natura in segni linguistici.La stessa parola verghiana assume un tono di più elevata e commossa poesia nel momento in cui sostanzia il vissuto dell’uomo con il mondo che lo circonda.Come il navigante virgiliano anche ‘Ntoni,che, però, si sente vicino al naufragio esistenziale, scorge le Pleiadi.“Sulla riva in fondo al mare cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re e la Puddara, che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte”.E’ significativo che il Verga nomini le Pleiadi Puddara, proprio nell’accezione dialettale, per rendere più familiare l’evento del suo insorgere a ‘Ntoni nel momento del distacco.Ne nasce una suggestione tutta particolare,imperniata su un realismo linguistico, stilato in corrispondenza al vissuto e all’emotività del personaggio.Si può dedurre,allora, che in Virgilio come in Verga l’unica parola possibile, capace di estrinsecare compiutamente i sentimenti dell’uomo e di condurlo nell’aura dell’idillio,è quella autentica,ingenerata e vissuta nell’elementarità ed essenzialità del mondo della natura.Proseguendo nella lettura del testo virgiliano conosciamo che Cerere apprese per prima ai mortali l’aratro dopo che Dodona aveva negato agli uomini i frutti che copiosamente crescevano nel bosco. Prima Ceres ferro mortalis vertere terram/ instituit,cum iam glandes atque arbusta sacrae/ deficerent silvae et victum Dodona negaret. La dea della terra,che affida all’uomo l’aratro ha due intenti, l’uno complementare all’altro : quello di salvare la vegetazione dall’insorgere della ruggine trista e quello di preservare l’uomo dall’egestas.Ammonisce,infine,il poeta l’uomo ad attendere con scrupolosa cura ai lavori  dei campi,senza la quale gli sarà impossibile evitare la miseria, mentre non gli resterà altro da fare che guardare i grandi mucchi dei vicini, ammassati per opera del duro lavoro.Anche quest’ultima parte del brano virgiliano ci conduce ad alcuni momenti della narrativa verghiana.Nei versi 150-154 si parla della robigo che distrugge la vegetazione,mentre Verga intitola una sua novella Malaria.Nei versi susseguenti 155-159  si parla del modo, con cui è possibile vincere l’egestas e non stare a guardare i cumuli dei vicini.I cumuli ammassati non possono che rimandare alla mente  la “roba” tanto amata ed idolatrata da  Mazzarò e da mastro-don Gesualdo.Pur nell’analogia di elementi, compresenti sia in Virgilio sia in Verga, è d’uopo, enunciarne, sia pure sommariamente le contrapposizioni. La robigo,di cui parla Virgilio, è un male, che si può estirpare con il frumentis labor additus.Molto più angosciante e funesta è la descrizione in Verga della malaria: “E’ la malaria che vi entra nelle ossa col pane che mangiate…………” questa è la desolante conclusione cui approda l’autore raffigurando,altresì, nel paesaggio stesso la condizione della fragilità umana. Il deus presente in Virgilio è assente nel Verga colle conseguenze che ne derivano.Anche l’accenno ai cumuli, ammassati e, comunque alla roba,che fanno parte integrante del paesaggio, in cui si muovono Mazzarò e mastro-don Gesualdo, introduce una tematica, che si distanzia nettamente da quella virgiliana.Per Virgilio ognuno è in grado, con l’assiduità del lavoro, di procacciarsi il suo cumulo, derivante dai frutti della terra e, favorevole per il sostentamento fruibile per il trascorrere di una vita serena, mentre per Verga soltanto alcuni, come per l’appunto Mazzarò e mastro-don Gesualdo, che della roba hanno fatto la loro unica divinità e che sono riusciti a superare la china della miseria, possono godere di questo bene. Attorno a loro una folla di derelitti e sfruttati che non riescono a levare il capo dalla miseria.Mastro-don Gesualdo,dopo tanti stenti e fatiche, guarda con soddisfazione i covoni ammassati in mucchi della sua roba e gode alla vista di quel grande magazzino,in cui si accumulava la sua ricchezza e che gli sembrava immenso nel buio, mentre una striscia argentea della luna lo illuminava.Per Mazzarò e per mastro-don Gesualdo  lo stesso paesaggio,in cui è assente il theòs eurghethès , s’identifica con la roba.Le enunciazioni suesposte ci sembra che chiariscano l’assunto che Virgilio e Verga sono accomunati da interessi e motivi d’ispirazione, ma che sono, naturalmente distanti, anche per ragioni storiche, nell’ottica concettuale e culturale, oltre che nella poiesi artistica, sviluppata dai due autori nelle forme personali d’originalità ed autenticità. Analogo discorso possiamo condurre rapportando l’opera di Verga a quella di Teocrito. Concludendo riteniamo di potere affermare che sia stato doveroso riproporre la lezione degli autori classici e il loro messaggio, implicito per alcuni aspetti anche nell’opera verghiana.Il che ci convince a considerare che il colloquio tra intellettuale e pubblico, oltre che nella specificità del contingente storico, contiene  in sé un valore assoluto e metatemporale.

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                 

 

        

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Da Beatrice a Clizia- Studio comparato su Dante e Montale-

Da Beatrice a Clizia
Studio comparato su Dante e Montale

E. Montale – La primavera hitleriana 
Approfondimenti
Intertestualità con Dante

 
EUGENIO MONTALE

La primavera hitleriana

Né quella ch’a veder lo sol si gira
DANTE (?) a Giovanni Quirini
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
 
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.
 
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
S’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
 
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a san Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud….

PARAFRASI
“La lirica fu iniziata o abbozzata nel 1939 e portata a termine nel 1946-47 nell’estrema stagione della trasfigurazione di Clizia nell’apice dell’opera montaliana che sono le Silvae del terzo libro.
Qui sono confrontati  quel vero e proprio prologo delle tenebre che la visita di Hitler a Firenze simboleggia e la possibile alba di salvezza rappresentata da Clizia, che per la prima volta viene chiamata col suo nome senhal, senza che i due eventi, che pure precedono e seguono la bufera, siano collocabili in un prima e dopo cronologici, come figure di tempi storici diversi: come il male ha natura ontologica e non sempre scompare con la fine della guerra la morte dei “messi infernali”, che l’hanno scatenato, così il bene non è certo un retaggio della nuova era conservando misure escatologiche.
Non per nulla male e bene, orrore e salvezza convivono in quella metafora del “bianco” che percorre tutta la poesia, ora come nevicata sinistra delle farfalle, ora come luce dell’alba senza raccapriccio, così che le sirene e le campane che annunciano la visita dei “mostri” possono essere anche segno del possibile evento di salvezza.
Nel giorno della visita del dittatore tedesco a Firenze, nel maggio del 1938 scende nella città una nuvola di falene, che stende sulle strade e sulle rive del fiume una coltre di ali bianche, che scricchiolano sinistramente sotto il piede, nella città pavesata di croci uncinate e sparsa dei segni della prossima tragedia bellica sembrano perdere senso gli opposti segni cliziani, ma nel cuore stesso della tragica mascherata s’installa il messaggio della missione redentiva della donna”.
(E. Gianola)
 
ANALISI DEL TESTO
Avantesto
Né già ch’ a veder lo sol gira
( Dante(?) a Giovanni Quirini)
E’ il verso 9 del sonetto attribuito a Dante e diretto a Giovanni Quirini.
Si riferisce al mito di Clizia trasformata in girasole dopo che il suo amore per Apollo non fu corrisposto.
La vicenda è narrata da Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi al v. 270 “vertitur ad solem mutataque servat amorem” (si volse verso il sole ed anche così mutata conserva l’amore), ripreso al v.10 del  citato sonetto e che ci conduce al v.34 di questa poesia montaliana “che il non mutato amor mutata serbi”.
 
STROFE PRIMA
La lirica si apre con la seguente rappresentazione paeseggistico-lirica “folta nuvola delle falene impazzite/ turbina intorno agli scialbi fanali e alle spallette”che possiamo considerare come momento proemiale.  Il linguaggio, alla maniera proprio di Montale, è “scabro ed essenziale”e si rapporta allo stato d’animo del poeta.
La nuvola è bianca e proprio la “metafora del bianco”, può essere considerata un ipersegno in tutto il contesto poetico della lirica. 
L’epesegetico “delle falene” (farfalle crepuscolari) “impazzite” ci riconduce a tutto quanto il mondo montaliano, all’ansia del poeta, che, propriamente nella cifra poetica, fa vibrare il sentimento di un disordine cosmico e al contempo la tormentata ricerca dell’Altro che vivifichi l’essenza stessa della vita.
Lo stato d’animo del poeta è semantizzato, inoltre, dal termine“turbina”e dai correlativi “intorno agli scialbi fanali” (lampioni)“e sulle spallette” (muretti del fiume)che simboleggiano la tragicità dell’existere del poeta nel tempo storico in cui vive.  
E, se nel termine“turbina”, possiamo notare ancora un’ansietà del vivere, pur nella semioscurità delle incertezze “scialbi fanali”, assai più drammatica ci appare l’immagine dei versi successivi: “stende a terra una coltre, su cui scricchia come su  zucchero il piede;……”(vv.3-4).
L’asperità del linguaggio e la rappresentazione realistica sono una trasposizione lirica del  sentimento  umano del “fallimento cosmico”.
Il fonosimbolismo, inoltre, contenuto con forte pregnanza onomatopeica nelle parole “scricchia” e “zucchero”, traduce anche a livello fonico il senso di trepida ed angosciosa attesa di un sinistro presagio.
Ma proprio, all’interno del v. 4, immediatamente dopo la comparsa della raccapricciante coltre, seguita dal sinistro calpestio dell’uomo, e, che sembra dolorosamente ritmare il processo di dissoluzione e morte nel mondo, balena fulminea l’immagine dell’estate “l’estate imminente sprigiona / ora il gelo notturno che capiva/ nelle cave segrete della stagione morta, / negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai” (l’estate, che sta arrivando (imminente), ora emana (sprigiona) il gelo notturno che era ancora racchiuso (che capiva-verbo intransitivo “capire”) nei nascondigli (nelle cave) della morta stagione (dell’inverno) – (nota esplicativa di R. Luperini); il paesaggio è simbolo di una situazione dell’anima che interpreta una disarmonia cosmica sincronica alla drammaticità del momento storico.
I dati realistici della rappresentazione, anche a livello formale-stilistico, ci ricordano la poetica dantesca; compaiono, inoltre, le variabili antinomiche presenti in tutto il componimento nella resa stilistico-retorica dell’ossimoro di fuoco/gelo, ravvisabili nei campi semantici antecedentemente citati; l’“estate” imminente sprigiona ora il gelo notturno”.
La contrapposizione dialettica dei termini la rinveniano all’interno di tutto quanto il componimento poetico (cfr. vv.28-30) “tutto arso e succhiato da un polline che  stride come il fuoco / ed ha punte di sinibbio.”.
Si può, pertanto, dedurre, che la presenza dell’ossimoro non è da considerare soltanto una costante stilistica di tipo retorico nella poiesi montaliana, ma che deve essere riferita al  polisenso del mondo umano e poetico dell’autore.
Non solo la coppia gelo/fuoco, ma anche i campi semantici cieco sole/alba bianca/greti arsi del sud sono da intendere come segni dell’anima poetica dell’autore, che interpreta, vivendolo in pieno, il reale storico per riproporlo, poi, nelle regioni superne della sua poesia.

STROFE SECONDA
Il disordine cosmico, prefigurato nella prima strofe, inquadra nella seconda la comparsa di un messo infernale (Hitler) accompagnato dai suoi sgherri (scherani).
Tutti partecipano in qualche modo alla sua festa e sono coinvolti, anche se miti, in una grande colpa storica.
Il fatto storico si connota per il poeta come insopprimibile momento dell’umana esperienza da comunicare a tutti quanti gli uomini.
Per Montale, che accoglie la grande lezione di Dante, l’opera d’arte ha bisogno di incarnarsi nella storia e di ripetersi fra gli uomini con un tempo, che, seppure transeunte e non trascendente, come quello dantesco, trasfigura il contingente.
La storia e gli uomini, il fallimento cosmico e la possibilità di salvezza attraverso la poesia: questi sono i temi che ruotano intorno alla poetica montaliana e che ci sembrano mirabilmente condensati in questa lirica.
Ma, dovendoci occupare in particolare dell’esame della seconda strofe, cercheremo di analizzarne i campi semantici più significativi, con cui viene presentato il messo infernale in un’atmosfera tragica e grottesca, che richiama il Dante soprattutto degli ultimi canti dell’Inferno, e per forme di realismo figurale-espressivo e per le movenze fonosimboliche.
La componente predominante della strofe è, infatti, quella demoniaca.
“Da poco è passato a volo un messo infernale”.  
Montale colloca  in un tempo di poco precedente a quello della prima strofe la venuta del “messo infernale”, seguito da un coro di“alalà”. 
Il termine di antica origine greca era noto al poeta come grido dannunziano, fatto proprio dagli scherani (fascisti), che inneggiano al dittatore.
E’ senz’altro da rilevare come l’onomatopeia  contribuisce a dare al componimento contorni sonori che rendono ancora più viva e palpitante la scena, così pure come l’uso raro della parola“scherani”, con valenza del tutto spregiativa, connota la condanna  che il poeta fa  della storia  del  tempo.
La strofe procede con una fitta rete di ossimori, contrapposizioni dialettiche di termini, che simboleggiano il disagio esistenziale del poeta ed insieme il suo interesse per una poesia che  assolva prevalentemente alla sua funzione di riscatto umano e civile.
La nominazione del golfo mistico (sineddoche per teatro-così, infatti, veniva chiamata nella sistemazione del teatro moderno, ideato da Riccardo Wagner, la parte riservata all’orchestra) è usata dal poeta certo in forma antinomica rispetto al “messo infernale”, che lo occuperà, accompagnato dalle urla degli scherani.
E proprio “il golfo mistico” ha preso ed inghiottito Hitler.
Il dittatore sembra essere sommerso nella folla dalle ignare, ma non per questo incolpevoli acclamazioni.
Ma, se per un momento il personaggio demoniaco sembra annullarsi, il poeta non può fare a meno di cogliere con un’immagine di alta densità lirica il modo con cui viene allestito il“golfo mistico”.
Il luogo, è, infatti, “acceso”, (il vocabolo ha un’accezione icastica nell’atmosfera lugubre dominante nella scena) e “pavesato” (addobbato-altro elemento antifrastico) “di croci ad uncino (simbolo nazista), che sono senz’altro ineluttabili segni di distruzione e di morte.
Nei versi che seguono si enunciano le catastrofiche conseguenze che l’evento produce.
Sono state chiuse le vetrine povere, cioè dotate di scarse merci ed inoffensive, benché anch’esse armate di cannoni e di giocattoli di guerra.
Anche il beccaio (macellaio-beccaio è un termine anche usato da Dante) che infiorava (adornava) il muso dei capretti uccisi, ha sprangato (chiuso) il negozio.
Tutto sembra fermarsi in un attimo; ma è proprio in quest’attimo che Montale ci esprime in forma lirica, unitamente alla sua angoscia esistenziale il dramma dell’uomo contemporaneo, che considera, però, non incolpevole del misfatto storico.
Significativa, allora, ci appare la presentazione delle “vetrine, povere ed inoffensive/ benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra”. (vv.11-13).
La contrapposizione dei termini povere /inoffensive/ giocattoli con armate/ cannoni/ guerra c’induce a riflettere sulla condizione di dubbio, incertezza e di ossimoricità in senso lato dell’uomo coevo al poeta, che, però, nel plaudire al dittatore, si rende responsabile dell’incombente  minaccia dello sterminio del mondo.
Gli stessi giocattoli, infatti, preconizzano gli ordigni di morte, mentre “i capretti uccisi” sono un evidente simbolo sacrificale che ricorda il destino delle vittime innocenti del nazifascismo. L’aspetto sacrificale è accentuato dall’ornamento delle “bacche sul muso”. L’antinomia storica del tempo e la conseguente lacerazione dell’esistenza del genere umano sono stigmatizzate dalla contrapposizione dei termini: vita/morte- capretti uccisi / infiorava.
Ne segue il giudizio negativo sulla storia e sull’inerzia totale degli uomini del tempo, che con un ossimoro assai forte  vengono definiti “miti carnefici”, anche se, come aggiunge il poeta, “ancora ignorano il sangue.”
Coloro che, invero, festeggiano Hitler, proprio con il loro conformismo, diventano complici del grande sbaglio della storia.
La loro sagra (vera e propria festa popolare) si tramuta in “sozzo trescone d’ali schiantate, / di larve sulle golene”.
Ricompare l’atmosfera macabra sottolineata anche dal ritmo del “sozzo trescone” (orrido ballo) -il termine trescone, usato in senso spregiativo e che ha il suo etimo in “tresca- imbroglio”, conferisce alla movenza scenica aspetti terrificanti simili ad alcuni “loci”dell’Inferno dantesco.
La danza, inoltre, è un motivo ricorrente nella poesia montaliana ed indica movimenti  esagitati di  dispersione irrazionale.
Nella medesima silloge, infatti, la lirica Bufera, che apre la sezione Finistere, ci presenta un’altra danza: il fandango (danza tipica andalusa) ai vv.16-19 “e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere/ dei tamburelli sulla fossa fuia, / lo scalpicciare del fandango, e sopra/ qualche gesto che annaspa”.
Possiamo certamente notare, attraverso la lettura comparata delle due liriche, un’isotopia: anche in Bufera, invero, lo scatenarsi della guerra è evocato con lo stesso sarcasmo amaro e con immagini talora riduttive che sembrano contrapporsi alla tragedia dell’evento bellico.
Allo “schianto rude”, che, come spiega lo stesso Montale, richiama immagini di guerra si accompagnano “i sistri” (antichi strumenti musicali egizi, fatti di lamine di metallo che vengono percosse) ed il “fremere di tamburelli”.
Come in Primavera hitleriana anche in questa lirica il poeta sottolinea la dissoluzione degli eventi storici e privati, individuali e collettivi , ricorrendo  ad  una rappresentazione tanto farsesca  quanto drammatica.
E’evidente che anche in questa poesia è raffigurata la folla ignara, ma non “incolpevole”, che inneggia con toni trionfalistici alla propaganda di guerra.
L’elemento comico-realistico, e che, più  propriamente preferiamo definire grottesco, sia in questa lirica che in quella, oggetto della nostra analisi, fa da contrappunto al cupo evolversi degli eventi. Da questa contrapposizione nasce quel realismo completamente lirico proprio del nostro poeta.
Alla sinistra folla carnevalesca, infatti, si mescolano suoni ed immagini di tipo ben diverso ed antitetico: “schianto rude”….“fossa fuia” (termine dantesco- il Contini parla di un “sagace dantismo”non è ladron, né io anima fuia- Inf. XII, v. 90- dice Virgilio di sé e di Dante al centauro Chirone) fuia = ladra-baratro  che inghiotte  coloro che sono morti a causa  della violenza della guerra) … “qualche gesto che annaspa” gesto di chi  cerca di scampare alla catastrofe, alla “fossa fuia”.
Il verbo “annaspa” indica un moto affannoso e convulso dell’uomo nel buio della storia.
Ma, se il “gesto”in questa lirica ci appare alquanto disperato, assai più drammatica è la visione delle “ali schiantate” in Primavera hitleriana.
Ritorna la voce semantica dello“schianto”con tutte le implicazioni di acuto dolore che si ripercuote in tutta quanta l’umanità. All’uomo però non è concesso neanche quel gesto estremo evocato nella precedente lirica.
La sua condizione è quella di“larve sulle golene” (argini del fiume).
E, se nel primo verso alla“folta nuvola delle falene”si attribuiva la condizione di“impazzite”, (si ponga mente al fatto che i derivati dal verbo impazzire ricorrono spesso nel cifrario linguistico-poetico di Montale e semantizzano, nel turbine dell’esistenza, l’ansia dell’uomo, proteso al suo riscatto nella dimensione metafisica dell’esistenza – basti ricordare in Portami il girasole“il girasole impazzito di luce”o in Casa dei doganieri “la banderuola impazzita”-), la visione delle “ali schiantate”, che precede quella delle “larve”, sembra annullare ogni segno di attesa e speranza.  Di metafisico adesso non c’è che il nulla.
Non un gesto, non una parola.
La popolazione, che assiste al trionfalismo del dittatore, è paragonata a tanti fantasmi sugli argini del fiume, ad un insieme di ombre, che non hanno il coraggio di agire, e per questo è colpevole.
E la storia allora? “l’acqua seguita a rodere le sponde”. Il poeta esprime ivi il senso più alto e commosso del suo pessimismo storico.
Gli eventi (l’acqua seguita a rodere le sponde), che inesorabilmente continueranno ad adempiere la loro opera distruttrice, preconizzano l’avvicinarsi della tragedia e l’ineluttabilità della catastrofe.
Questa concezione della storia Montale la ripropone in Satura in una lirica che per l’appunto s’intitola  La Storia:  “La storia non si snoda /come una catena/ di anelli ininterrotta./ In ogni caso / molti anelli non tengono./ La storia non contiene il prima e il dopo, / nulla che in lei borbotti/ a lento fuoco./ La storia non è prodotta/ da chi la pensa e neppure /da chi l’ignora……”.
Il poeta, invero, pur contrapponendosi ad ogni concezione, sia di stampo idealistico che marxista  della storia, non può fare a meno di affermare che la storia non  può essere fatta da chi l’ignora (chiara allusione al popolo che veniva travolto dalla bufera del tempo, senza, però, comprenderla).
Il pessimismo montaliano mette in evidenza la radicale ed incolmabile estraneità della storia nei confronti dell’individuo, che non può ritrovarvi certezze o consolazione.
Però, nell’ombra cupa del suo pessimismo, come vedremo nel prosieguo dell’analisi della lirica, cerca un “varco”.
“Nessuno è incolpevole”; ognuno è compartecipe della comune sorte di lutti e tragedie; la denuncia manifesta la vocazione sociale e civile della poeta congiuntamente al suo impegno  militante di letterato e di uomo tra gli uomini del suo tempo.
 
STROFE TERZA
Le immagini di morte e di distruzione sembrano trionfanti fin quando un interrogativo, all’inizio della terza strofe, “Tutto per nulla, dunque -?” crea un campo di tensione che culminerà con l’epifania  di  Clizia.
Si nota subito il mutamento dalla prima parte della lirica: al sangue e ai movimenti esagitati delle falene subentrano immagini di luce.
E’ evocata la partenza della donna amata; le parole stesse mutano segno e diventano, per dirla col poeta stesso, “parole di fede e di speranza”.
Ed i segni della fede e della speranza, liricamente espressi nell’evocazione del distacco, che ritorna alla memoria, con l’immagine delle“candele romane” (i fuochi di artificio) “che sbiancavano” (illuminavano) “lente l’orizzonte”, si riferiscono proprio a lei (Irma Brandeis-Clizia).
Si noti la metafora del “bianco” (sbiancavano) che permane in tutta l’ispirazione poetica della lirica.
Le candele hanno altresì un valore simbolico e sono segnali di salvezza, legati a Clizia, come  pure i “pegni e i lunghi addii / forti come un battesimo………”.
I  pegni, intesi nel valore semantico proprio, testimoniano altresì la fedeltà di Clizia al suo ruolo di donna salvifica dal momento che il poeta li definisce“forti come un battesimo”e quindi  carichi di forza redentrice.
E tuttavia“nella lugubre attesa dell’orda”, nel cielo illuminato dai fuochi di artificio si manifesta un evento  prodigioso che annuncia la speranza.
Una stella cadente (gemma) riga l’aria stillando (facendo cadere come stille) luci minori che il poeta interpreta come angeli di Tobia e come semi (la semina dell’avvenire) di un avvenire migliore proprio nel paese di Clizia, gli Stati Uniti, raffigurati come un paese di ghiacciai e di fiumi (v.25): “sui ghiacciai e le rivere dei tuoi lidi”. Per alcuni critici il poeta vorrebbe alludere all’attesa dell’arrivo delle truppe americane che avrebbero liberato l’Italia dai Tedeschi.
Anche a livello semantico questa ipotesi potrebbe avere la sua giustificazione, se accogliamo l’interpretazione del Gianola, secondo la quale “i ghiacciai connotano un nord sacrificale e redentivo, il regno delle alte nebulose” e se la rapportiamo per antitesi  con le parole che concludono la lirica “ai greti arsi del sud….”.
Un’altra componente fondamentale di questa strofe è il ricorso alle fonti bibliche.
Il poeta, che, nella prima parte della poesia aveva echeggiato Dante, nella rappresentazione macabra del “messo infernale”, adesso, seguendo l’esperienza dell’illustre fiorentino, ripropone temi biblici, adattandoli alla contingenza storica in cui vive.
Non vi è dubbio che la vicinanza con Irma Brandeis, studiosa dei Padri della Chiesa, avrà decisamente influito a far maturare in Montale queste nuove conoscenze vissute, però, sempre con originalità di inventiva poetica, come avviene nell’evocazione  degli angeli di Tobia, germinati come stille dalla gemma che rigò l’aria.
E’ un’immagine di assoluta concentrazione lirica che rinvia ad un “sovrasenso” di carattere allegorico-figurale come in Dante.
Gli angeli di Tobia sono “figura”, anticipazione di un mondo migliore (la semina dell’avvenire).
Nel libro biblico dell’Antico  Testamento, dedicato a Tobia, sette sono gli angeli tra cui Dio scelse Raffaele per guidare Tobia, come sette sono i mariti di Sara morti uno dopo l’altro prima che ella possa congiungersi con Tobia “dando così inizio a una nuova generazione destinata al riscatto, alla terra dei “padri”: una speranza, dunque, qualcosa di positivo che deve nascere e ciò giustifica l’accostamento tra Tobia e Clizia” (nota esplicativa -L.Poma-C.Ricciardi).
Nel testo biblico  (Tobia 12,15) così si legge: “Raffaele, uno dei sette angeli di Tobia che vanno e vengono davanti alla gloria del Signore.”.
Nei versi che concludono la strofe, però, incombe nuovamente l’atmosfera tragica.
Tutti i segni positivi, che avevano accompagnato Clizia, sembrano dissolversi “tutto arso (bruciato) e succhiato (divorato) da un polline che stride ed ha punte di sinibbio” (vento gelido del Nord).
Sinibbio possiamo considerarlo un iponimo rispetto all’iperonimo “gelo”ed ancora una volta attraverso la coppia fuoco-gelo il poeta ci rappresenta l’ossimorocità del vivere.
 
STROFE QUARTA.
  “ Oh la piagata 
 primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte”
L’inizio della quarta strofe ci riporta all’incipit della lirica.
La primavera è ferita; il gelo e la caduta delle farfalle l’hanno colpita; eppure il poeta auspica che possa ancora inneggiarsi alla festa, se trasforma nel gelo della morte “questa morte”,  simboleggiata dall’imperversare del “messo infernale”, attorno a cui si scatenava il “sozzo trescone”.
A livello stilistico è da rilevare la duplicatio della parola “morte”,  che nel secondo posto, è accentuata dall’eidittico “questa”. Lo sconvolgimento cosmico della “nevicata”, visto prima come male, ora è considerato come possibilità di distruzione del male.
E proprio, all’interno dello stesso verso, gremito dei segni della morte, è lo scatto dell’invocazione a Clizia, che viene pregata di assumere il suo ruolo di donna-girasole che guarda in alto. “Guarda ancora / in alto, Clizia, è la tua sorte, ……” .
Siamo al momento della mitopoiesi.
Clizia per amore  si muta in girasole  e guarda in eterno il sole “il non mutato amore ancora serbi”; per il poeta, come nella grande avventura mistica dantesca, il sole s’identifica con Dio.
Ne consegue la visione salvifica della donna“fino a che il cieco sole che in te  porti / si abbacini nell’Altro e si distrugga/ in Lui per tutti”. Clizia porta dentro di sé un amore segreto (cieco).
Il termine cieco si può intendere anche come “privato” “individuale” e si contrappone all’amore divino (Altro), in cui la  donna salvifica si abbaglia (abbacini) e si distrugge per salvare l’Umanità.  La donna, che arriva a confondere il suo amore con quello divino, non  approda ad una beatitudine di tipo mistico, ma assume in pieno il suo ruolo sacrificale.
Ed il suo annullarsi nella  volontà divina si connota cristologicamente come riscatto per tutti.
Anche in questi versi il poeta, che ricorre ad un cifrario stilistico ben preciso: la coppia degli opposti- luce/ cecità, consunzione/ salvezza–, tipica del linguaggio mistico di ogni tempo e non certo ignoto a Dante, sviluppa in una resa di tensione lirica la complessità del suo mondo ideologico-culturale e spirituale. Il contrasto dei campi semantici ci annuncia l’ultima  parte della lirica vv.37-39. “Forse le sirene, i rintocchi/che salutano i mostri nella sera/della loro tregenda”.
E’ significativo l’avverbio “forse”, che, all’inizio del periodo, esprime l’ideologia ed insieme lo“status anini” del poeta, non incline a soluzioni filosofiche di tipo idealistico-ontologico, ma tutto calato in una filosofia probabilistica ovvero delle “occasioni” del vivere.
Tempo storico e tempo assoluto  diventano un tutt’uno nella coerenza della creazione poetica.
Echeggiano i suoni ed i rintocchi delle sirene che salutano i mostri (i nazisti) nella sera e viene evocato il diabolico ballo (tregenda), che, come nelle strofi precedenti, sottolinea  l’esagitarsi di atteggiamenti irrazionali ed inconsapevoli.
Suoni e rintocchi (vv. 41-43) “ si confondono  già /col suono che slegato dal cielo, scende, vince-/ col respiro di un’alba che domani per tutti/ si riaffacci bianca ma senz’ali/ di raccapriccio, ai greti arsi del sud”.
I rintocchi, che salutano i dittatori, si trasformano in un suono, che scende dal cielo annunciante vittoria in mezzo a tutti i segni di distruzione e di morte, colla metafora di un’alba, che seppure porta sempre i segni del dolore e della tragedia, (l’alba è bianca così come bianca è la “nuvola delle falene impazzite”), si contrappone alla“sera della tregenda” e non reca in sé i segni luttuosamente angosciosi della disperazione e della morte “ma senz’ali di raccapriccio”, rappresentazione, che ci riconduce all’antitesi enunciata dall’avversativo ma, al v. 17 “ le ali schiantate”.
L’’epifania di Clizia si propone come momento di attesa, di riscatto e di salvezza per tutti quanti gli uomini accomunati nella speranza di un futuro migliore.
L’alba, inoltre, che si affaccia ai “greti arsi del sud”, fa insorgere la speranza di un riscatto proprio in un mondo, come quello del sud, che è figura di tutto il dramma storico-esistenziale del periodo. A livello semantico questa condizione interiore dell’uomo è espressa dal termine “arsi” che ci rimanda ai già citati versi vv.27-29 della lirica“tutto arso e succhiato/ da un polline che stride come il fuoco /ed ha punte di sinibbio”.
Questa notazione ci permette  ancora una volta di affermare che  la poesia si presenta del tutto unitaria sul piano formale della coerenza lirica e ci induce a riflettere sulla concezione del tempo in Montale e sul suo ruolo di letterato e poeta.
Del che ci occuperemo innanzi.
 
LIVELLO METRICO
 
Concorre all’efficacia della poesia il movimento ritmico: i versi liberi lunghi hanno un andamento lento.  L’accelerazione  del ritmo è scandita dagli endecasillabi.
I versi lunghi liberi si rapportano in genere ai momenti più cupi, mentre gli endecasillabi propongono i momenti in cui si dilegua l’angoscia e appaiono i segni della speranza.
 
APPROFONDIMENTI
Dalla lettura della lirica possiamo desumere che Montale si è avvicinato a Dante non soltanto per l’impianto artistico di alcuni aspetti linguistici e livelli formali, ma soprattutto per alcune tematiche fondamentali, che stanno alla base dell’ideazione allegorico-lirica, di cui si nutre la sua poesia.
Così, com’era avvenuto per Dante, la vicenda personale dell’autore si trasporta su “un piano di astrattezza metafisica e di universalità”.
Questa è la tesi del Luperini, che noi accogliamo pienamente, anche leggendo il primo verso della Commedia: “nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai…”. E’ ormai luogo comune, accettato da tutta la critica dantesca, che il nesso tra l’io esistenziale di “mi ritrovai” contrapposto a “nostra vita”, indica proprio nel proemio il messaggio del poeta, che dalla sua esperienza personale, fa nascere un’opera che deve avere un valore assoluto per tutti quanti gli uomini “nostra vita”. Indubbiamente Montale ha accolto la lezione dantesca, anche se logicamente, gli esiti poetici, riferibili all’esperienza dei due autori, vissuti in contesti storico-culturali distanti nel tempo, sono necessariamente diversi.
Ma un punto che accomuna Dante a Montale è senz’altro la figura della donna- angelo.
Come Beatrice anche Clizia  rappresenta una mediazione tra l’uomo  e Dio ed analogamente a Beatrice la donna-angelo montaliana si volge al sole, simbolo di Dio, e si libra dall’umano al sovrumano per riscattare l’uomo.
Il personaggio di Beatrice, però, ha un significato ontologico-escatologico, fondato  sulla filosofia tomistico-aristotelica, coscientizzata nell’anima e nella mente di Dante.
Montale, invece, utilizza i temi e i concetti della religione cristiana nell’ambito di una cultura del tutto laica.
Il poeta, insomma, potremmo dire tesaurizza l’alta esperienza del fiorentino per poi, però, adattarla al suo vissuto individuale e storico, realizzando nella sua arte“il dramma conoscitivo e poetico di tutto quanto il mondo moderno”.
Apparentemente le figure di  Beatrice e Clizia sembrano accostarsi.
Come Beatrice anche Clizia sembra impersonare, ma soltanto in un primo momento, i valori assoluti  che si devono incarnare nella storia per poi trasferirsi nell’Eterno.
Come Dante Montale, nel raffigurare la donna ideale, si serve di richiami biblici e della simbologia cristiana.
Ma mentre il primo, proprio in virtù dell’intelletto d’amore e con la mediazione della donna-angelo, potrà congiungersi con l’Amore primo, il secondo rimane pur sempre legato alla sfera del mondo umano e la stessa Clizia si connota come simbolo della concezione poetica dell’autore e della sua religione: quella del rinnovamento umanistico delle lettere nella drammaticità del contingente storico. Clizia, inoltre, nella realtà anche biografica si cala perfettamente nella storia del suo tempo.
Irma Brandeis, ebrea, eppure studiosa dei Padri della Chiesa ed illuminata dantista, è la vittima sacrificale che deve subire le leggi razziali.
Nella sua persona il poeta sembra configurare, soprattutto nella silloge “Bufera ed altro”, un mutamento dall’allegoria di tipo umanistico a quella di carattere cristiano.
La stessa immagine di Clizia, abbacinata dal sole, ci ricorda la figura dantesca, ma con connotazioni differenti.
Beatrice, che già ha conquistato l’Eterno, potrà guardare il sole “come aguglia unquanco non si affisse mai”, Clizia, invece, si distrugge nella vista dell’“Altro” portando in sé un “cieco sole” per riscattare tutti quanti gli uomini.
Il suo atto di amore indica la speranza di salvare l’umanità travagliata e dolente (greti arsi del sud…), ma non assume certamente la figura ideale di rivelazione propria della Beatrice dantesca.
In effetti, come giustamente opina Iacomuzzi, Clizia non assurge mai ad un valore assoluto in quanto la trasfigurazione di Clizia per Montale si attua“non come oggetto di fede, ma di speranza”
La figura di Beatrice è tutta proposta nei  termini della trascendenza escatologica, “scende da cielo in terra per miracolo mostrare”e dal cielo  soccorre “l’amico suo e non della ventura”e lo conduce all’Empireo. 
Clizia, invece, è un personaggio chiaroscurale, in cui reale ed ideale si  mutuano a vicenda.
In effetti, nel periodo in cui maturava la composizione della Bufera ed altro, il poeta, che riteneva di poter contare sulla solidarietà degli uomini e di poter dare voce colla sua poesia ad un sentimento di coralità  umana e sociale, dovette prefigurare nella religione cristiana lo spiraglio di una speranza e di una possibile redenzione per tutti.
Forse il poeta intravedeva nell’essenza del cristianesimo la possibilità di una  risposta, che irradiasse i nuovi valori che dovevano, confortando, sollevare gli uomini  dall’angoscia esistenziale e dalla lacerazione storica.
L’atteggiamento di Montale, però, non deve intendersi come credo assoluto, ma come speranza, attesa  di redenzione.
Tutta la composizione della Bufera è scandita come atto di attesa non, però, immemore della tragicità del presente.
Le coordinate tempo-spazio nel poeta sono sempre immanenti.
La Firenze di Clizia, come abbiamo visto, è quella storicamente determinata, in cui giunge Hitler, in mezzo all’agitarsi del “sozzo trescone” per cui “nessuno è incolpevole”.
E’ proprio del poeta intrecciare la dimensione storica con quella individuale e di cronaca in un mirabile equilibrio spaziale-temporale, anche attraverso l’inventività figurale-espressiva di immagini poetiche, che sono il correlativo oggettivo della sua condizione umana e spirituale.
 
INTERTESTUALITA’CON DANTE
Per un esame più attento delle diversi componenti, che sono il fulcro ideativo- poetico delle rappresentazioni delle due donne Beatrice e Clizia, ci pare opportuno analizzare alcuni “loci” danteschi riguardanti la presenza di Beatrice nella Commedia per poi confrontarli con quelli già  riscontrati nell’epifania di Clizia della Primavera hitleriana e con altri “topoi” della poesia montaliana che ripropongono il modello del visting angel.
E’ nostro intendimento, infatti, cogliere il “continuum” nella diacronia poetica, come pure le differenze, attraverso un’adeguata esemplificazione. 
Iniziamo col trattare alcuni momenti esemplificativi della presenza di Beatrice nella Commedia.
Beatrice è presentata da Dante sin dal II canto dell’Inferno come figura ed incarnazione della rivelazione: “donna di virtù sola per cui / eccedi ogni contento /di quel che ha minori i cerchi suoi”. (vv.76-78).
Infatti, è proprio Beatrice che dovrà guidare Dante alla conquista del vero assoluto.
Lo ricorda Virgilio al poeta (Purg. canto VI vv. 44- 48) “ ….. se  quella nol ti dice / che lume fia tra il ’vero e lo ’intelletto:/ non so se ‘ntendi; io dico di Beatrice :/ tu la vedrai di sopra ,in su la vetta/ di questo monte, ridere e felice”.
Comincia a delinearsi una delle tematiche fondamentali della Commedia: la visione provvidenziale della storia, che per gli uomini si realizza attraverso l’illuminazione della grazia e della rivelazione.
Ed è proprio Beatrice, nata dall’esperienza terrena del poeta, che si manifesta, per dirla con le parole dell’Auerbarch, “figura o incarnazione della rivelazione che la grazia divina manda  per amore all’uomo, per salvarlo e che diventa  per lui la guida -visio Dei”.
Le parole dell’Auebarch sono senz’altro esplicative del significato del canto II dell’Inferno e ci inducono ad una interpretazione omnicomprensiva di tutta quanta la Commedia.
                      Beatrice vive nel mondo ultraterreno con gli stessi tratti di “donna gentilissima” che l’hanno contraddistinta in terra; ma nella sua significazione allegorica è figura del divino, che comprende, nel trascenderlo, tutto quanto l’umano.
 Il modo con cui Dante ci presenta Beatrice (Inf. II: v.55) “lucean gli occhi suoi più della stella”, pur con stilemi  d’impianto stilnovistico, è preconizzamento della luce purissima del Paradiso.
Ed in tutto il canto mondo umano e mondo divino si conciliano. Anche quando la donna dice, sempre nel medesimo canto, al v..72 “Amor mi mosse che mi fa parlare”, come osserva giustamente il Sapegno: “La parola è sentita in tutta quella complessità, o ambiguità se così si vuol dire, di significato, che lo stile comportava. E’ l’amore di Beatrice per il suo fedele, ma anche l’amore inteso sul suo valore assoluto, cioè  Dio, da cui deriva ogni impulso caritatevole”.
Ma le parole di Beatrice nei vv.. 94-102 assumono un preciso significato allegorico-teologico: “Donna è gentil che nel ciel si compiange/di quest’impedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudizio là su frange. / Questa chiese Lucia in suo dimando/ e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele/ di te, e io a te lo raccomando-./ Lucia, nimica di ciascun crudele, / si mosse, e venne al loco dov’i’era, / che mi sedea con l’antica Rachele”.
Per alcuni critici “la donna gentil”, figura della Madonna rappresenterebbe la grazia preveniente, mentre Lucia, anche con riferimento al nome “lux lucens” la grazia illuminante e  Beatrice  la teologia.
La critica, che s’ispira al realismo figurale di Auebarch, ha preferito connotare nelle “tre donne benedette” rispettivamente la carità, la fede, la speranza, specularmente al canto XXXI  del Purgatorio e nella proiezione di tutta la Commedia, anche perché, come sappiamo, l’esame sulla fede, speranza, carità  costituisce realmente la più significativa avventura mistica di Dante prima di ascendere all’Empireo.
Ma sia che si privilegi l’una o l’altra interpretazione non si elude il nucleo fondamentale dell’opera dantesca: il viaggio dell’Uomo sospeso tra tempo ed  eternità, tra “buio” del peccato ed attesa della “luce”- rivelazione”.
In questa ottica cerchiamo di cogliere l’assunto critico di Charles S. Singleton, che nell’opera, che per l’appunto s’intitola:“Viaggio a Beatrice”- (Il Mulino-Bologna-1958-a pag.16) così si esprime: :“Potranno esserci lettori, che per leggere il poema nel modo in cui esso esige di essere letto, saranno disposti a compiere lo sforzo di stabilire a fondo della loro mente ciò che la mentalità medievale accoglieva senza esitazioni: l’ampio ed indubitabile disegno di una possibilità offerta all’uomo ora, nel grande dramma di salvazione che è  la vita quaggiù. Questa possibilità consiste in un itinerarium mentis ad deum, in quanto evento reale che ha luogo nella vita di qualcuno: una conversione dal dolore e dalla miseria del peccato, come avvenimento reale dell’anima-e, per questo poeta medievale, qualcosa che può prendere vita nello specchio dell’allegoria”.
La lezione del grande critico è funzionale al nostro argomento in quanto ci ammonisce a considerare il messaggio dantesco nell’ambito della filosofia medievale.
E’chiaro, pertanto, che due poeti quali Dante e Montale, tanto distanti nell’assiologia temporale e nella loro formazione etico-spirituale-culturale, anche se ricorrono a figure paradigmaticamente analoghe, come quelle di Beatrice e Clizia, non possono che viverle in modi diversi di pensiero e di poiesi creativa.
Un elemento, però, anche alla luce della lettura delle parole di Singleton, accomuna i due poeti e  si riflette nella loro allegoria poetica: “la possibilità offerta all’uomo ora, nel dramma di salvazione che è la vita quaggiù”.
Ritornando al concetto di “dramma di salvazione” possiamo affermare che questo motivo è presente nel secondo canto dell’Inferno ed in tutto l’itinerario di Dante, personaggio della Commedia.
Nel canto II, infatti, proprio in relazione al “dramma della salvazione”, è  evidenziato il sentimento di pietà, che muove la Vergine a chiamare Lucia, e quest’ultima Beatrice, che “sedea con l’antica Rachele”, simbolo della vita contemplativa.
Nei detti e nei gesti di Beatrice palpita, invero, un profondo sentimento umano.
Lo notiamo, allorquando ansiosamente trepida perché ritiene di non riuscire in tempo a salvare il pellegrino, travolto dal vortice inesorabile del peccato vv.107-108 (……la morte  ch’l comabatte/ su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto.-), scende dal “beato scanno” chiedendo aiuto a Virgilio e al suo“parlare onesto”.
Acutamente osserva il Fallani (Fallani- Lectura Dantis – Le Monnier 1960 –pag.40) “Dante ha scoperto, come avvertì il Toffanin, la quarta dimensione della poesia: l’allegoria. Dopo le pagine del Convivio e le indagini sull’umano sapere, dopo avere ondeggiato tra le dispute del tempo con le deduzioni e le induzioni sul potere e i limiti della ragione e della sapienza, sulle possibilità conoscitive dell’uomo, in merito alla rivelazione e al sopranaturale, ecco infine che egli  trova  la risoluzione e lo scioglimento del dramma della ragione e della fede, definendolo in due personaggi: Virgilio e Beatrice.
Un sol volere risolve questo ideale classico e cristiano del viaggio.  Il Limbo  e l’Empireo, Virgilio e  Beatrice chiariscono a Dante e riscoprono nella sua cultura non meno che alla sua anima l’infinita e verace azione di Dio, nella sfera del giudizio d’oltretomba e nella vicenda umana della storia”.
Non migliore spiegazione, infatti, potrebbe essere addotta ai versi dell’ultima terzina del canto con cui Dante apostrofa Virgilio vv.139-40:“Or va, ch’un sol voler è d’ambedue:/ tu duca, tu signore, tu maestro”.
Un altro elemento, che ci fa comprendere l’intensità del sentimento umano di Beatrice, mentre tende a volgersi nelle sfere eterne, è facilmente intuibile dalla splendida descrizione, che Virgilio ne fa nei vv.115-117 “Poscia che m’ebbe ragionato questo /gli occhi lagrimando  volse; / per che mi fece del venir più  presto”.
L’ascesa di Dante, ad opera della grazia, non ignora tutto il dramma umano che viene compreso da Beatrice col suo pietoso soccorso, di cui avrà memoria anche nel xxx canto del Purgatorio (vv. 139-141) “Per questo visitai l’uscio d’i morti/ e a colui che l’ha qua su condotto/ li prieghi miei, piangendo furon porti”.
Pietas e  palpitante commozione, invero, non possono essere assenti in Beatrice, che, in quanto figura ideale di tutta quanta la Commedia, non disgiunge mai l’umano dal divino.
La complementarità tra mondo umano e mondo divino è concepita anche dal poeta, quando ci descrive Beatrice, che, impersonando la teologia, nel XXXI canto del Purgatorio, contempla nell’immagine del Grifone la rivelazione della duplice natura dell’umanità e della divinità di Cristo.
 In merito il Fallani opina (Lectura Dantis op.cit. febbraio 1960 pag.35): “Gli occhi di Beatrice continuano l’irresistibile fascino; nel mondo avevano una potenza di elevazione, nell’eternità assurgono a simbolo della sacra dottrina, per cui il Grifone nel Paradiso terrestre si rispecchierà in quegli occhi, mentre Dante pieno di meraviglia sarà appagato per l’alta contemplazione”.
Nei vv.76-84 del XXXI canto del Purgatorio leggiamo: “E come la mia faccia si distese, / posarsi quelle prime creature/ da lor aspersion l’occhio comprese; /e le mie luci, ancor poco sicure, /vider Beatrice volta in su la fiera/ ch’è sola una persona in due nature. /Sotto’l suo velo e oltre la rivera/ vincer parìemi  più se stessa antica,   / vincer che l’altre qui, quand’ella c’era”.
Possiamo anche in questo caso notare un’analogia tra l’inventività fantastico-ideativa di Dante e quella montaliana.
Infatti, la rappresentazione degli animali dalla duplice natura è presente in Dante come in Montale, ma mentre il primo ci propone la  duplice natura nei termini escatologici della mistica medievale, il secondo, pur non privo di ansia metafisica, nella raffigurazione iconologico-zoomorfa espressa in alcune sue liriche, si connota come un “nestoriano” inviluppato nella terrestrità e tutto proteso al dramma dell’uomo e alla tragicità della sua dissoluzione.
Beatrice, infatti, consapevole del travaglio umano del peregrino, anche nella figurazione del Grifone, che comprende la duplice natura, quella umana e quella divina, giusta l’interpretazione del Singleton, assume il significato allegorico della salvezza, intesa come itinerarium in mentem Dei, proprio in relazione a Dante“personaggio agens della Commedia  e alla sua anima volta colla mediazione della grazia all’Assoluto e all’Eterno”.
Beatrice diviene simbolo della conciliazione della vita reale ed ideale, del sinolo vita umana –vita divina- tempo ed eternità.
Significativo è il fatto, invero, che la figurazione del Grifone prelude all’ascesa mistica di Dante nel Paradiso.
Del tutto diversa la figura di Clizia, immersa nella mutevolezza e nella drammaticità della storia, nei confronti del“nestoriano”Montale.
Il Grifone con Beatrice è prefigurazione di un’ascesa mistica, che si basa un’escatologia ontologica cristiana ben definita, Clizia, invece, che può essere considerata“sorella”dell’anguilla, altro animale dalla duplice natura, simbolo dell’angoscia esistenziale del poeta e della sua concezione di vita, è volta alla contemplazione di “una teologia negativa”. 
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Le argomentazioni dantesche, che abbiamo sin qua esposto, non intendono essere un discorso a sé stante, ma un elemento esemplificativo per comprendere  le analogie e le differenze con il mondo poetico montaliano e conseguentemente la funzione allegorica del modello del visting-angel  nei due poeti.
Riteniamo che sia opportuno, dopo esserci soffermati su alcuni motivi della mistica di Dante, enunciare gli aspetti fondamentali della religiosità  e dell’ipotesi metafisica di Montale.
Ci sembra di cogliere una prima sostanziale differenza nella concezione religiosa dei due autori.
Dante è il poeta che ha improntato tutta la sua opera al principio tomistico-aristotelico traducendo la filosofia dell’assoluto nell’assoluto della poesia.
Nasce in tal modo la figura di Beatrice“visio Dei”, che trascende l’umano  per congiungersi con l’Eterno, secondo i dettami dello scolasticismo medievale.
 Clizia, invece, che si configura parimenti come  momento di attesa e di fede, rimane radicata nel terreno, nell’illusorietà della vita e della storia e non assurge ad un valore assoluto come quello esemplato dalla Beatrice dantesca.
Assai distante è, peraltro, la concezione religiosa dantesca da quella montaliana.
Montale non perviene mai, come Dante, ad una“summa teologica”; il suo Dio, per dirla con Angelo Marchese (Angelo Marchese- Montale e la ricerca dell’Altro- Edizioni Messaggerie- Padova 2000 –pag .24) è  un deus absconditus.
Il dio, pertanto, che contempla Clizia è presenza-assenza (divina indifferenza) che  non solleva l’uomo dal suo problematicismo esistenziale e non lo libera dal  dilemma tra ragione e sentimento- immanenza e trascendenza.
Dante, invece, come abbiamo già avuto modo di costatare, confortati altresì dal summenzionato giudizio del Fallani, trova la soluzione della contrapposizione drammatica della ragione e della fede nella definizione dei personaggi di Virgilio e Beatrice.
Per Dante la vicenda umana della storia si solleva all’Eterno ed il“bell’occhio”di Beatrice, che tutto vede, può comprendere nell’umano tutto quanta la possanza del divino e condurre l’amato alla salvezza.
Lo sguardo, invece, di Irma Brandeis sarà freddo, distante (occhi di ghiaccio) e si  volgerà in un cosmo, di cui, come il suo cantore, non riesce a coglier che la disarmonia.
Lontano da Montale e pertanto da Clizia è il mondo dell’Empireo dantesco, i cui attributi sono la luce purissima e  l’arcano suono dell’armonia cosmico-teleologica.
Il paesaggio, in cui è evocata Clizia, è, invece, come abbiamo potuto avere modo di leggere, un paesaggio chiaroscurale, tratteggiato dalle figure retoriche degli ossimori, (cieco sole/ fuoco/gelo)  ed accompagnato da turbamenti di suoni confusi.
Il che c’illumina sulla condizione spirituale dell’autore e sulla sua concezione del mondo.
Ma per chiarire questi aspetti di Clizia, in particolare e della poesia montaliana in generale, ci pare opportuno sottolineare il clima culturale e filosofico, nel quale il poeta è vissuto.
La formazione filosofica di Montale, maturata, come il poeta stesso dice, anche attraverso le sollecitazioni della sorella Marianna, si evolve collo studio dei filosofi dell’esistenzialismo.
Dai padri dell’esistenzialismo coglie la lezione, che pone al centro di ogni ricerca: la condizione umana ed il suo limite
Approfondendo Jasper, e, facendo sua la concezione di una situazione-limite dell’uomo, come “io gettato nel mondo”, a dibattersi con i gravi problemi dell’esistenza (libertà, dolore, morte…), Montale crea nella sua poetica una prospettiva metafisico-esistenziale, nella quale, però, avverte tutti i limiti e le ombre del contingente.
Eppure dal non essere, dal non senso, nel rifiuto delle false identità, affida alla poesia l’unica possibilità d’istanza metafisica ovvero l’attesa di un miracolo che si compia per l’appunto con l’epifania di Clizia.
L’avvento di Clizia, però, lo ripetiamo, non ha alcunché di ontologico, si manifesta colla stessa evanescenza della vita e talora si definisce come un sogno, una parvenza, che ci richiama la famosa immagine del velo di Maya di Schopenhauer.
Ma se Schopenhauer parla dell’uomo come“un semplice anello nella catena necessitante dei fenomeni”, destinato ad una lotta incessante, che si conclude con lo scacco finale, Montale, che pure si rifà  anche terminologicamente al filosofo di Danzica, si apre, però, come osserva il Marchese (A. Marchese- La ricerca dell’Altro-op. cit. pag.50) al miracolo, che ora prende le sembianze della donna salvifica e cristologica Clizia, ora si cela nella simbologia degli animali dalla doppia natura (anguilla e gallo cedrone) quasi a voler rappresentare la perpetuazione degli esseri viventi in una catena irrazionale ed eterna.Ci accorgiamo subito della  fondamentale divergenza col mondo dantesco, dove reale ed ideale, immanenza e trascendenza tomisticamente convergono secondo il principio filosofico della “reductio ad unum”.
Illuminante  al riguardo ci pare la tesi del  Mazzoni, che, con riferimento allo XXXI canto del Purgatorio, da noi già preso in esame, così commenta la “figura del grifone”:
“ E’ appunto all’alzarsi del suo volto che Dante  nel suo nuovo e conquistato contemplare, vede come gli angeli, i”ministri e i messaggeri di vita eterna”che fin dal canto trentesimo sono comparsi sulla scena, ora hanno smesso di spargere fiori quasi  a sottolineare la solennità del momento e a preparare una nuova e più  diretta contemplazione analogica del divino mediante Beatrice, la quale  è ora” volta  in su  la fiera/ Che è una sola persona in due nature (vv. 80-81), vale a dire contempla essa stessa, nel Grifone attaccato al  carro, nella “biforme fiera l’umanità e la divinità del Cristo”. (Francesco Mazzoni- Canto XXXI-Lectura Dantis Scaligera-Le Monnier- Firenze 1967-pag.1161).
Il viaggio di Beatrice e di Dante è per l’appunto l’inverarsi di un “itinerarium in mentem Dei”.
 Per Montale, invece, non esiste una conciliazione fra immanenza e trascendenza e neppure una mediazione idealistica ed anche quando  il poeta dal nulla tende ad una tensione metafisica, ovvero ad una “chiamata cosmica”, per dirla con il Contini, fa vibrare sempre nella sua lira l’angoscia della ricerca di un mondo ultraterreno, che, però, non si svela compiutamente al suo sguardo neppure con l’avvento miracolistico di Clizia.
La Beatrice si presenta in molti tratti della Commedia come la donna  velata ed ancora palpitante  di sentimenti umani, ma nel momento in cui “si svela”, si connota come figura della rivelazione, della luce dell’intelletto, sublimando in senso del tutto medievale la “caritas mundi”in“caritas Dei”ed offrendo all’homo agens della Commedia  la via della salvezza.
Non certo può svelarsi la figura di Clizia, che  si delinea con i segni della tragicità del dramma umano nel momento stesso in cui assurge a simbolo sacrificale per la salvezza dell’umanità lacerata dalle vicissitudini storiche.
In effetti, in Montale non esiste né il concetto della Rivelazione, né quello della Grazia nei termini tomistici fatti propri dal fiorentino.
Lo stesso tempo, in cui si muove la figura di Clizia, è un tempo storico determinato.
Non è il caso di ripercorrere ancora una volta  l’evento storico, che è il  chronos della Primavera hitleriana; lo ricordiamo soltanto per cercare di comprendere meglio il significato della figura di Clizia e continuare la nostra indagine ponendo in rapporto analogico e/o di contrapposizione la figura di Beatrice con la creatura montaliana.
Il tempo in Dante si rivela anche attraverso la figura della donna-angelo, contemplata in tutta quanta la Commedia, come miracolo divino che  attua nel peregrino il transito  dalla sfera storica a quella metastorica, dall’immanente all’Assoluto e all’Eterno.
Montale, invece, sull’ipotesi del miracolo, così si esprime nell’Intervista immaginaria: “Il miracolo era per me evidente come la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili, e farsi uno stato d’animo della perenne mediazione dei due termini come propone il moderno stoicismo, non risolve il problema o lo risolve con un ottimismo di parata. Occorre vivere la propria condizione senza scappare, ma senza trovarci troppo gusto. Senza farne merce di salotto”.
Le parole di Montale, pertanto, escludono ogni possibilità di conciliazione dialetticamente compiuta tra immanenza e trascendenza  di stampo teleologico di tipo dantesco; piuttosto ci proiettano in uno stato di tensione spirituale autenticamente esistenziale, da cui  nasce la musa lirica, e di cui Clizia  è “figura” anche nella sua ipotesi metafisica.
Osserva acutamente il Marchese (A. Marchese-op.cit- pgg-54-55): “La gnoseologia di Montale è sin dalle origini aliena da ogni forma di idealismo ottimistico, particolarmente nella versione dello storicismo assoluto: si nota anzi in contrasto con le fin troppe facili affermazioni di libertà nella natura….un sentimento di fondo schopenhauriano (e per certi aspetti  leopardiano) che nega ogni illusa apparenza di bontà, di rousseauiana positività delle cose per scorgere dietro di esse un inganno,  un trucco della nostra rappresentazione…… Dal famoso animo informe e dal  ciò che non siamo, di Ossi sino alle ripetute affermazioni da Satura in poi (Non sono mai stato certo di essere al mondo- Xenia II,7;) Montale ha sempre posto al centro della  sua poesia un io debole, confuso, privo di saldi  punti di riferimento. Alle origini di una siffatta prospettiva vi è di certo in particolare la psicologia dell’uomo sempre assillata da problemi metafisici e religiosi e, per così dire, radicata più nei dubbi che nelle certezze; le letture filosofiche non fecero che convalidare la sofferta esperienza personale”.
L’indagine critica del Marchese è significativa per farci comprendere la distanza che separa l’orizzonte etico-spirituale e culturale di Dante  da quello di Montale.
Ma è proprio attraverso questa contrapposizione dialettica che la lezione dantesca assume una valenza del tutto unica ed irrepetibile nell’universo montaliano.
Ce lo spiega lo stesso Montale: “Dante non può essere ripetuto……. Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, ad una società soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli ad un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò  la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale. Lo fu perché era possibile alle forze di un uomo ispirato, o per meglio dire lo fu per una felice congiunzione degli astri nel cielo della poesia oppure dobbiamo considerarla come un fatto estraneo alle possibilità umane?…… posso tranquillamente considerare l’affermazione del Singleton che il poema sacro fu dettato da Dio e il poeta non fu che lo scriba…… non avrei nessuna prova per contestare il carattere miracoloso del poema, così come non mi ha atterrito il carattere miracoloso che fu attribuito a quella Beatrice storica di cui pensavamo di potere fare a meno…….. Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi la riceve, questo è il migliore insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli  non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore. E se è vero che egli volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e farlo conoscere a chi è più cieco di noi”.
(E. Montale- Da Atti del Congresso internazionale di Studi danteschi-20-27 aprile 1965- Firenze, Sansoni-1966-vol.II-pp.330-33).

Le parole dell’autore, anche se in veste di critico di Dante, sono sempre parole di grande illuminazione poetica e non riteniamo opportuno aggiungere alcunché.
Cerchiamo soltanto di interpretarne il messaggio per meglio comprendere, in quali termini nell’avventura poetica di Montale, sia congeniale l’ispirazione di derivazione  dantesca  del carattere miracoloso della poesia, correlato alla visione salvifica della donna-angelo.
Abbiamo altresì imparato a conoscere che di Dante Montale non solo riprende la concezione della poesia, intesa come rivelazione, come dono per il riscatto morale e civile di tutta quanta l’umanità, ma accoglie stilemi e forme lirico-inventive riferibili ad archetipi comuni.
Iniziamo a trattare dell’archetipo dell’acqua.
E l’acqua seguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Riprendiamo questi versi, che abbiamo già citato all’inizio della nostra trattazione, per porre l’accento sul correlativo oggettivo dell’acqua che in Montale assume la connotazione del tempo che corrode.
E’condivisibile il parere della critica moderna, che afferma che il concetto di tempo-corrente, che tutto travolge, in Montale ha il suo prodromo in Schopenhauer: “Il tempo somiglia a un’irrefrenabile corrente, e il presente a una roccia, contro cui quella si frange senza pervenire a trascinarla con sé”. (A. Schopenhaueur- Il mondo  come volontà e rappresentazione –Laterza -Bari 1977-pag. 309).
Come osserva il Marchese (op.cit. pag. 60-61): “Lo scorrere dell’acqua che si fa vortice e rapina è l’allegoria della necessità irrazionale, propria del mondo fenomenico……. L’arte del poeta trasfonde nella teoria la potenza del pensiero e del sentimento che fa del tempo l’assiale metafora di una dolorosa concezione della vita”.
L’acqua rappresenta anche per il poeta l’impossibilità di dare vita al ricordo di persone o cose care come nel caso di Cigola la carrucola nel pozzo.
Cigola la carrucola nel pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Il poeta spera di recuperare il passato, ma tutto sembra inutile.
La lirica prelude ad immagini luminose, che indicano attesa e speranza, ma poi tutto svanisce.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride,
La memoria non riesce, però, a trattenere il ricordo; l’“io”di Montale è un“io debole”. Si rivela ancora una volta l’ossimoricità del vivere: da una parte l’attesa di un evento miracoloso, dall’altra il fallimento che l’accompagna e che testimonia la tragicità dell’existere nel tempo attraverso la deformazione dell’immagine.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…………
Il tempo per Montale non è assoluto come per Dante e l’estraniarsi dell’immagine alla memoria
 Ah che  già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide
manifesta la negatività dell’Essere e l’impossibilità di approdare a quelle certezze metafisiche cui, invece, Dante ontologicamente perviene nella composizione del suo poema.
La concezione della negatività dell’esistenza si fa ancora più lacerante in Lindau
La rondine vi porta
fili d’erba, non vuole che la vita passi.
Ma tra gli argini a notte, l’acqua morta
logora i sassi.
Ancora una volta si contrappone l’immagine positiva della vita (la rondine vi porta fili d’erba) con la visione angosciosa del desolante ed inarrestabile processo di distruzione cosmica (l’acqua morta logora i sassi).
Un altro esempio del rovinoso vortice delle acque ci è dato dalla lirica Flussi.
All’immagine dei fanciulli, che con gli archi spaventavano gli scricchi nei buchi e che sembrerebbe rappresentare il gaudio spensierato della fanciullezza, fa riscontro la cupa meditazione del poeta.
La vita è questo scialo
di triti fatti, vano
più che crudele
………………………………
……………………………….
 E tutto scorre nella gran discesa
e fiotta il fosso impetuoso tal che
s’increspano i suoi specchi:
fan naufragio i piccoli sciabecchi
nei gorghi dell’acquiccia insaponata.
Il naufragio dei piccoli sciabecchi (antiche imbarcazioni a vele a tre alberi) evidenzia ancora una volta come l’uomo, alienato dal flusso della vita, non riesce ad approdare ad alcuna verità ontologica, se non concependola nella sua negatività. 
Il male del mondo, come nella concezione leopardiana, sembra insito nella stessa natura.
Il correlativo oggettivo, poi, dell’acqua insaponata ci rimanda all’inganno, all’insidia, che travolge l’uomo nel nulla.
Questa concezione permane in tutta la produzione poetica montaliana.
 In Arsenio leggiamo:
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la testa ti inghiotte
dell’onda antica che ti volge………………
Anche gli animali dalla duplice natura il gallo cedrone e l’anguilla,  fraternamente congiunti a Clizia, e, che emblematizzano il concetto stesso della poesia nella produzione matura di Montale, si aggirano in acque limacciose e putride.
Il singulto del gallo chiede aiuto. La sua non è una voce, ma appunto un singhiozzo, lamento di una vita strozzata, che non riesce ad emergere.
…………………………………..Era più dolce
vivere che affondare in questo magma,
più facile disfarsi al vento che
qui nel limo, incrostati nella fiamma.
Non diversa ci appare la sorte dell’anguilla.
L’anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finchè  un giorno
una luce scoccata  dai castagni
ne accenda il guizzo in pozze d’acquamorta………………….
In tutta la produzione poetica, ed anche in quella dell’ultimo periodo, Montale riprodurrà la simbologia dell’acqua, intesa come problematicismo esistenziale o teologia negativa, colta, per dirla con Fallacara, in una tensione di interscambio tra fisica e metafisica.
Nella lirica Acque alte, in “Diario del 71 e 72”, il poeta configura l’uomo, alienato dalla società di massa, che viene travolto dal demone delle acque alla stregua di un oggetto-rifiuto.
Le  acque si riprendono
ciò che  hanno dato: le asseconda il loro
invisibile doppio, il tempo; e un flaccido
gonfio risciacquamento ci deruba
da quando lasciammo le pinne per mettere fuori gli arti,
una malformazione, una beffa che ci ha  lasciato gravidi
di cattiva coscienza e responsabilità.
………………………………………………………..
………………………………………………………..
In altri tempi scoppiavano
castagne sulla brace, brillava qualche lucignolo
sui doni natalizi. Ora non piace più
al demone delle acque darci atto che noi
suoi spettatori e correi siamo pur sempre noi.
Il correlativo oggettivo dell’acqua in Montale, come in Dante, ha una sua connotazione ben precisa.
Nel primo simboleggia il fluire del tempo, che s’infrange irrefrenabilmente nella roccia dell’esistente, in un cammino impervio ed irto di difficoltà e di perplessità, nel secondo le acque, ed in particolare negli ultimi canti del Purgatorio, appaiono sempre più limpide e circolari all’armonia cosmica preordinata da Dio ed anticipano l’incedere verso l’alto regno.
E’ evidente che i due poeti, pur ricorrendo ad archetipi analoghi nella loro produzione poetica, li rappresentano in modo diversificato, correlandoli alla loro concezione del mondo ed al proprio vissuto
E se l’archetipo dell’acqua è la “figura” del tempo, dello stesso dobbiamo cercare di  interpretare il sovrasenso e la sua specifica individuazione poetica nel mondo dantesco ed in quello montaliano con precipuo riferimento alle figure di Beatrice e di Clizia.
L’acqua che continua a rodere  le sponde, il fango, il magma rappresentano il tempo, divenuto coscienza esistenziale di Montale e di cui la stessa Clizia è permeata, così come il circolare fluire di acque perenni e limpide, che costituiscono il paesaggio ideale del Paradiso terreste, nel quale si aggirano Lia, Matelda e la stessa  Beatrice, s’intona perfettamente all’assunto teleologico-escatologico della Commedia.
 Arguisce al riguardo il Raimondi (E. Raimodi –Metafora e storia –Studi su Dante e Petrarca –Torino- Einaudi-1970-pag. 65).
“In Dante l’immagine del mare e delle acque non si esaurisce mai in una formula unica e comporta quasi sempre una convergenza di significati istintivi, di ricordi, di simboli vitali. E’ chiaro che l’idea del mare in un contesto ricchissimo d’immagini bibliche, sottintende una compresenza di eventi e di figure che ogni cristiano  sente di rivivere nella propria esistenza come simboli della grazia e della  liberazione”.
Le argomentazioni del Raimondi c’inducono a meditare sul momento del viaggio del peregrino Dante, che, avendo già attraversato il mare crudele e l’acqua perigliosa, potrà proprio, dalla contemplazione limpida delle acque e dalla sua fede trovare conforto nella  speranza dell’altezza.
“L’acqua diss’io “e il suon della foresta
impugnan dentro a me novella fede.
( Purg. Canto XXVIII vv.85-86).
E sarà Matelda, prefigurazione di Beatrice, che all’interno del medesimo canto spiegherà a Dante  la natura miracolistica delle acque:
L’acqua che vedi  non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
dall’altra d’ogni ben fatto la rende.
Quinci Letè; così dall’altro lato
Eunoè si chiama e non  adopra
se quinci e pria non è gustato:
a tutti altri sapori esso è di sopra.
(Purg. Canto XXVIII vv. 121-132)
 La perfetta natura del luogo, rappresentata dal perenne scorrere delle terse acque non significa, inoltre, ripudio della terra, ma assunzione secondo verosimiglianza di essa, sul piano immutabile dell’ideale, mercé un processo di astrazione che non trasforma la sostanza della natura umana, bensì la purifica dalle scorie, dalla mutevolezza, dalla provvisorietà delle cose.
E se in un primo momento Dante rimane attonito all’insolito paesaggio:
Tutte l’acque che son di qua più monde
parrìeno avere in sé misura alcuna,
 verso di quella, che nulla nasconde,
avvenga che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetua, che mai
raggiar non lascia sole ivi nè luna.
(Purg. Canto XXVIII vv.28-33)
le parole di Matelda senz’altro gli fanno comprendere il senso ultimo del suo viaggio.
Nei versi succitati notiamo una tecnica narrativa terra-oltremondo, realtà-sogno che ci trasferisce in un’atmosfera virgiliana.
Si noti la contrapposizione- più monde parrìen aver natura /avvegna che si mova bruna /bruna sotto l’ombra perpetua- per comprendere come inizialmente nella rappresentazione delle acque si intrecciano varietà di simboli contrapposti: tenebre dell’oblio e catarsi dell’animo.
Ricordiamo, inoltre, che l’aspetto chiaroscurale del Paradiso terreste è anche detto da S.Agostino (Genesi Ad lit. VIII.1) fructosis nemoribus opacatum.
Nel nemus opacum prende vita la funzionalità sacrale delle acque, che Matelda  puntualmente rivela a  Dante.
Il lettore a questo punto potrebbe obiettare forse che ci siamo lasciati troppo condurre dal verbo dantesco e che abbiamo tralasciato Montale.
Ed invece no; è nostro intendimento chiarire con  specificità di esemplificazione testuale le ragioni per cui i due poeti, pur ricorrendo allo stesso sema (l’acqua), pervengono a modelli poetico-figurali dissonanti e contrapposti.
Abbiamo parlato del circolare fluire delle acque nel mondo dantesco ed abbiamo lasciato Montale muoversi  in acque limacciose ed insidiose.
Questa tipologia delle acque accompagnerà tutta la vita di Montale e naturalmente quella di Clizia, che, nella sua estrema mutazione di anguilla, troverà il suo humus esistenziale-poetico nel fango e nel magma.
Il correlativo oggettivo della poesia in un poeta è sempre da ricondurre al suo impianto filosofico congiunto alla sua esperienza umana.
Per Dante i termini filosofici, non sembra più il caso di ripeterlo, sono quelli dottrinari tomistico-aristotelici, per Montale quelli della filosofia esistenziale-probabilistica del suo tempo ricreati nel suo“io lirico”.
I filosofi, che hanno maggiormente influito sulla formazione di Montale, sono Heidegger e Jasper.
Di entrambi il poeta percepisce la concezione del tempo e il senso dell’existere nel mondo.
Tali concezioni nella poesia montaliana, per l’appunto, si rapportano al correlativo oggettivo dell’acqua, inteso come archetipo figurale di tutta quanta la produzione poetica.
Di Heidegger il poeta riprende la concezione del dasein (dell’essere-qui).
Il filosofo dice: “La questione, che mi preoccupa non è quella dell’esistenza dell’uomo; è quella dell’essere nel suo insieme in quanto tale”.  L’uomo, osserva Heidegger al pari di Montale,  si volge al mondo del non autentico perché non vuole affrontare la propria condizione di limitazione, di finitezza.
Il concetto della limitazione e della finitezza dell’uomo, Montale, rapportandosi sempre al sema dell’acqua, lo rivive con vibrante liricità in Casa sul mare pubblicata il 28 febbraio del 1925, e che rappresenta l’ultimo momento compositivo degli Ossi di Seppia.
Il viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima  che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono uguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio
Già all’inizio del suo itinerario poetico, infatti, Montale non si pone come“rivelatore dell’Essere”, ma proprio, alla maniera heideggeriana, come“pastore dell’Essere”.
“Piuttosto l’uomo è gettato nello stesso Essere nella verità dell’Essere che in tal modo ex-sistendo custodisca la verità dell’Essere, perché nella luce dell’Essere appaia come quello essente che è. Se e come esso appare, se come dio e gli dei e la storia entrano nell’apertura dell’Essere, vengono e si ritraggono, tutto ciò non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’Essente ripara nel destino dell’Essere. All’uomo resta, però, il problema di trovare essenza in conformità di tale destino; perché è in conformità di destino che egli ha da custodire come esistente la verità dell’Essere. L’uomo è il pastore dell’Essere” (M. Heidegger- Lettera sull’umainsmo- in “La dottrina di Platone  sulla verità- trad. it. Di A. Bixio e G. Vattimo- Torino- S. .E..I- 1975-pag. 93)
I dettami della filosofia di Heidegger costituiscono i nuclei fondanti della poetica di Montale.
Come Heidegger Montale si sente gettato nell’Essere e, come per il filosofo la realtà gli appare come essente  e gli  si svela nelle sue parvenze ora con un salir dell’acqua che rimbomba, ora con lo strepitio di un cigolio, ora con un segno numinoso di luce.
Seguendo l’ammonimento del filosofo, inoltre, il nostro “ripara nel destino dell’Essere”, e, come pastore nestoriano, tenta di custodire la verità, che non può rifulgere se non con l’avvento epifanico di Clizia, che naturalmente s’identifica con la poesia stessa.
Come Heidegger Montale cerca nell’immanenza e nel limite stesso dell’existentia  (il viaggio finisce qui) un varco per la trascendenza.
Nel contesto della poesia  si legge:
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti di no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là del tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non vi sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi
…………………………………………………
…………………………………………………..
 Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse all’eterno.
O. Macrì definisce questo componimento poetico in questi termini: “una  lirica in cui convivono scepsi e credenza entrambe tremolanti di angoscia esistenziale”.
Ci troviamo ancora di fronte al primo Montale; nell’orizzonte poetico non è ancora apparsa Clizia, ma già se ne prevede il nucleo ideativo, nutrito dalla tensione metafisica del poeta, incline a trascendere l’immanenza per volgersi all’infinito “forse solo chi vuole s’infinita”. Pregnante è il “forse” all’inizio del verso che puntualizza il problematicismo esistenziale del poeta.
Nell’ultima strofe l’immagine della“marea”che “rode col moto alterno” raffigura il vorticoso incedere dell’uomo in un magma storico-esistenziale tendente al limite, alla finitudine.
 E’ da notare, pure, il valore semantico della parola “rode” che sarà ripetuta, come abbiamo avuto di esaminare, in Primavera hitleriana “e l’acqua continua a rodere le sponde”.
Ma un altro forse  proprio all’interno dell’ultimo verso ” il tuo cuore salpa già forse  per l’eterno” ci rimanda a quell’ipotesi metafisica che non sarà mai sopita nell’anima del poeta e che figuraliter assumerà le sembianze di Iride  o di Clizia.
Un altro filosofo, che avrà implicanze nel percorso esistenziale-poetico di Montale, è senz’altro Jasper.
Per Jasper, infatti, come per Montale  la nostra esistenza è  sempre in rapporto con qualcosa di Altro, che n’è il fondamento, con un mondo, che non si può conoscere se non parzialmente. Così congeturra  Jasper:
“L’assoluto è qualcosa di nascosto che si rivela in frammenti fuggitivi, in lampi intermittenti. E noi abbiamo il  senso di una notte in cui il nostro pensiero si perde”.
Il filosofo, nel proporci il suo pensiero, ricorre alle metafore “lampi intermittenti”,  correlate alla fugacità del Tempo e all’indecifrabilità dell’Assoluto “frammenti fuggitivi”ed anche terminologicamente postula gli elementi costitutivi dell’essenza della poetica montaliana.
Prosegue Jasper: “Ma proprio quando nella situazione-limite l’uomo ha coscienza del suo scacco (termine anche usato da Montale) “si mette in rapporto all’esistenza e al trascendente”.
 Ci addentriamo proprio nella tematica ideativo-concettuale che informa tutta quanta la poesia di Montale.
Un’altra concezione, comune a Jasper e a Montale, e, che si rapporta alla metafora dell’acqua, è quella del naufragio.
Il naufragio e la ricerca della salvezza ci rimandano ancora una volta a Dante.
Menzionando il saggio di Singleton, abbiamo detto che un elemento, che accomuna i due poeti tanto distanti nel tempo, è “il dramma della salvazione dell’uomo”.
Il che altro non è che l’estremo tentativo dell’uomo di salvarsi dal naufragio dell’esistenza per vivere l’autenticità del suo Essere alla ricerca di una salvezza, che, naturalmente nei due poeti, si connoterà in alterità di forme ed approdi.
L’idea del naufragio è proprio nell’incipit del poema sacro.
E come quei che con lena affannata
uscito fuor dal pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ ancor fuggiva
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò mai persona viva.
( Dante Inferno, I, vv. 22- 27)
 Ma  il naufrago Dante già nell’orizzonte  aveva potuto scorgere il colle della grazia
Ma poi ch’i fui al piè d’un un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle
( Dante-Inferno-I-vv.13-17).
Il colle illuminato si contrappone alla selva scura  ed il sole che lo illumina raffigura la grazia.
Già all’inizio del poema sacro in Dante si rappresenta la contrapposizione dialettica tra buio (assenza del bene) e luce (salvezza ad opera della Grazia con la mediazione di Beatrice), tra tempo ed eternità.
Temp’ era dal principio del mattino,
e’l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle,
sì ch’a ben sperare m’era cagione
………………………………………………….
(Dante Inf. I –vv.36-39)
L’elemento chiaroscurale buio-luce- tempo storico ed eternità, paura della selva scura e “speranza dell’altezza” lievita la profonda e commossa liricità del primo canto dell’Inferno e sollecita l’uomo a meditare sul suo destino in bilico tra l’umano e il divino.
Dante in tutto il suo percorso dimostrerà la sua incrollabile fede nella grazia, ora rilevata dalla luce del colle, ora trasfusa nello sguardo di Beatrice.
Montale percorre un itinerario analogo a quello di Dante, dalla cui poetica trae anche archetipi e stilemi anche formale-stilistici (alba, sole, fuoco), ma è destinato dalla sua stessa esistenzialità ad approdare a lidi diversi.
Ma ritorniamo a Dante e cerchiamo di comprendere il senso del suo naufragio e della sua salvezza attraverso le mirabili parole di G. Ungaretti, che nel suo celebre commento al I canto dell’Inferno, con genialissima intuizione impernia la sua critica su tre parole dantesche “ ’l sol tace”.
Ungaretti riprende il verso dantesco e si pone un interrogativo “Il sol tace?”. La risposta ermeneutica, densa di alto valore concettuale, proponibile nella diacronia temporale di tutta quanta la poesia nel tempo, e riferibile, secondo il nostro avviso, in particolar modo sia alla poetica dantesca che a quella montaliana, la formula il poeta stesso: “Certo il sole parla, ed è buona occasione per soffermarci sul valore che Dante dà all’atto della parola”
L’analogia proposta da Ungaretti: sole- rivelazione-parola è di precipua valenza per farci penetrare nell’essenza della poesia e del mondo dantesco e di quello montaliano, che, per l’appunto, ricorrono alla metafora del sole, sia pure con difformità di impianti ideologici, per esprimerci una poesia, che è insieme momento gnoseologico dell’Essere e sua illuminazione, attraverso la trasfigurazione della natura o mediante l’epifania della donna-angelo.
Lo stesso Ungaretti, all’interno del suo discorso, ci chiarisce l’aspetto categoriale ed assoluto della poesia:
“Il primo modo di conoscere dell’uomo è la poesia: è il suo modo innato di avere nozione di ciò che nella natura sua permane immortale, e vedremo che sarà anche il suo supremo modo, quando l’uomo stesso avrà saputo fare in sé luce completa sino ad immedesimarsi nella poesia ed essere, per conseguente potenza morale e per possesso di chiaro intelletto, un libero uomo. Da principio la parola per l’uomo era la poesia, e, sofferto, dichiarato, isolato ogni male, dall’uomo rivestita l’originaria, musicale purezza per l’uomo la parola sarà più che mai luce, poesia”.
La parola poetica, luce-rivelazione ed al contempo mezzo  per salvare gli uomini e renderli liberi con una salda coscienza morale, è il presupposto ideale di tutta quanta la poesia montaliana e di quella dantesca e, forse, come ammonisce lo stesso Ungaretti, definisce il senso primigenio dell’essenza dell’opera poetica “primo modo di conoscere modo innato” per l’uomo ” di avere nozione di ciò che nella natura permane immortale”.
Alla luce dell’acuta affermazione di Ungaretti proseguiamo nel nostro percorso cercando, proprio attraverso le parole stesse dei poeti, di addentrarci nella loro “verità” poetica e soprattutto tentando di chiarire a noi stessi il profondo significato del loro verbo, che“accorda sempre un attimo all’Assoluto”, sia  nella proiezione di un mondo trascendente-escatologico come quello di Dante, sia in un mondo, dove la metafisica è soltanto un’ipotesi (Montale), ma non per questo meno sentita e sofferta.
Alla parola-luce si accorda, invero, l’evento miracolistico della donna-angelo nelle figure di Beatrice o di Clizia.
Le mutazioni delle figure femminili, inoltre, (Lia, Matelda, Beatrice in Dante, Iride, Clizia in Montale) sono funzionali al vissuto psicologico-esistenziale dei due poeti e tendono a svelare il mistero dell’umano nel divino con variegate forme di vibrante intuizione poetica.
Nel XXVII canto del Purgatorio vv. 94-108 leggiamo:
Ne l’ora, credo, che de l’oriente,
 prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor per sempre ardente,
giovane bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi allo specchio qui m’addorno
ma  mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio e siede tutto giorno.
Annota il Sapegno: “Lia e Rachele sono prefigurazione delle due donne che il pellegrino incontrerà fra poco nell’Eden: Matelda che rappresenta la felicità raggiungibile nella terra,nell’amore del prossimo e nell’operazione della virtù e Beatrice la scienza rivelata che avvia l’uomo all’amore di Dio e al godimento senza fine della sua presenza”.
Riteniamo, pertanto,che Dante con questi versi  abbia voluto suggellare la coincidentia tra beatitudo huius vitae e beatitudo caelestis.
 E, se antecedentemente abbiamo parlato del“volere uno”, che accomuna Virgilio e Beatrice, e cioè del rapporto intrinsecamente dialettico tra ragione e fede, adesso possiamo vieppiù supportare questo principio nella visione di una perfetta armonia tra vita attiva e vita contemplativa.
In Montale, invece, vita contemplativa e vita attiva non sono complementari l’una all’altra; il poeta gettato nel mondo ne soffre la scepsi ed  echeggia nel suo animo il suono della disarmonia cosmica.
Pur mosso da istanze metafisiche, per un certo senso analoghe a quelle del mondo di Dante, Montale se ne distaccherà per rappresentare autenticamente il suo universo  poetico, immagine lirica propria del suo existere nel mondo.
Conseguentemente la  figura della sua donna angelo, pur nella numinosa parvenza, avrà sempre i connotati di un’esperienza di vita lacerata e sofferta.
La donna-angelo in Montale si muove nel contingente storico “nella scacchiera del tempo”, nella quale è inviluppata.
Adduciamo ad esemplificazione la lirica Nuove Stanze.
La lirica all’inizio ci rappresenta l’immagine del fumo che si dilegua in forme evanescenti ed illusorie esprimendo, in tal modo, il senso della precarietà della vita, di cui, però, Montale vuol cogliere, al di là del transeunte il significato profondo,  proprio attraverso Clizia, che impersona la cultura e quindi la luce, che potrebbe dissipare il buio dalle menti degli uomini.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
 al primo soffio; s’apre la finestra
non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
altro stormo si muove : una tregenda
d’uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Compaiono in questa lirica i temi fondamentali della poetica montaliana: la morgana (illusione dell’Essere ed evanescenza della realtà) -lo stormo (folla indistinta di uomini che si aggira nel tempo come in una tregenda–termine che ricompare, come abbiamo visto, in Primavera hitleriana).
Alla donna-angelo, in quanto intellettuale e conscia del travaglio dell’umanità, è affidato il compito di  interpretare l’essenza stessa della vita (tu sola conosci il senso).
L’ultima strofe contiene una risposta positiva alle perplessità del poeta ed afferma la funzione della poesia  mediata dal potere redentivo della figura di Clizia.
 
…………………………………………..Ma resiste
e vince il premio della solitaria
veglia chi può con te allo specchio ustorio
che accieca le pedine opporre i tuoi
 occhi d’acciaio.
Come ci appare lontana Clizia da Beatrice ed anche dalla luminosa prefigurazione della “donna spirans” Lia ridente in un mondo edenico mirante all’Eterno!
Ma sia Beatrice che Clizia hanno una stessa fondamentale missione da compiere: comprendere il dramma dell’uomo  ed adoperarsi per la sua salvezza.
La salvezza dell’uomo, come ci ha spiegato Ungaretti, può derivare dalla poesia stessa che, rendendoci consapevoli del nostro “io” autentico e primigenio, ci eleva alla dignità di uomini suggellando la nostra libertà morale.
Il discorso di Ungaretti, nella sua astrazione ideale, trova rispondenza alla funzione  di  rinnovamento, che sia Dante che Montale attribuiscono alla poesia.
 Il cronotopo montaliano è, però, del tutto differente da quello dantesco.
 In Dante si attua proprio nelle regioni superne della poesia la “reductio ad unum”;  in Montale  la radice della sua  ragione poetica spesso si  innerva nei frantumi della memoria e dell’Essere; manca nel poeta quell’ordine teleologico, che è proprio di Dante ed il tempo stesso assume  la figura di una scacchiera, di cui non si conosce il senso.
L’antinomia stessa dell’Essere, inoltre, nella lirica montaliana si decifra con i valori semici della metafora fuoco-gelo, che è altresì un costante segno distintivo che accompagna la figura di Clizia.
L’immagine del fuoco è presente anche in Dante nel XXVII canto del Purgatorio.
Il peregrino tenta la sua ascesa alla sommità del monte.
Il sole nel Purgatorio è già vicino al tramonto quando l’angelo del cielo canta “Beati mundo corde”.
 E’ la sesta beatitudine (Matt. V, 8 ) che per intero recita così “Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt”.
Il canto s’intona perfettamente alla condizione spirituale dei penitenti e dello stesso Dante prossimi a vedere Dio.
L’angelo invita i tre peregrini (Dante, Virgilio, Stazio) a percorrere un muro di fuoco.
”Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde
( Dante- Purg.- Canti XXVII vv. 10-12).
L’invito dell’angelo è coerente ad una concezione simbolico-rituale della purificazione dell’anima, momento necessario per l’elevazione sino all’Empireo.
In Montale, invece, la figura del fuoco, sempre presente nel suo lungo viaggio poetico, si rapporta all’irto cammino dell’uomo affaticato dalla canicola “dietro un muro scalcinato”, alla sua “arsura”, che è ad un tempo desolazione, assenza di pura linfa vitale, proprio nel momento stesso in cui tenta di proiettarsi nella sfera metafisica.
Il fuoco, in tal senso, rappresenta la tragicità del contingente, di cui il poeta si sente persona dramatis e di cui non è immemore la stessa Clizia, che abbacinata“dal cieco sole si distrugge in Lui per tutti”.
La stessa chiusa di Primavera hitleriana con lo sguardo della donna volto “ai greti arsi del sud” conferma il valore semico della metafora.
Il fuoco, pertanto, in Montale ha un significato poetico riferito alla nostra temporalizzazione dell’Essere nel mondo, mentre per Dante è visto come l’unico ostacolo  da superare.
”Or vedi, figlio:
tra  Beatrice e te  è questo muro”
( Purg. XXVII vv. 35-36)
Questi versi, che condensano la tendenza ascensionale di Dante verso Beatrice, ci sembrano assai significativi anche per farci comprendere la diversa  species che Clizia e Beatrice assumono nell’ideazione fantastico-lirica dei due autori.
In Dante il fuoco vuol significare la purificazione di ogni scorie terrestre, tramite cui si perviene, sia pure con drammatico ed angoscioso sforzo umano e con volontà consapevole, alla verità rivelata.
La visione beatifica di Beatrice si conquista col superamento del muro di fuoco, nel  cui ardore si dissolve ogni residuo  del peccato e della terrestrità.
Dice al riguardo U. Leo: (Lectura Dantis Scaligera –op.cit.) “Il poeta con l’immagine della paura e del suo superamento voleva anche mettere in evidenza la prossima  comparsa di Beatrice in tutta la sua più vicina, travolgente efficacia. Ciò che la personalità di Virgilio con tutto il suo peso non può più, può, invece, la semplice menzione del nome di Beatrice”.
Beatrice “donna spirans” proietterà Dante oltre il muro del fuoco nel divino.
Clizia, invece, legata sempre al reale storico, non riuscirà mai, come non lo farà nemmeno il suo poeta, a superare il muro di fuoco che accerchia, consumandola, la vita dell’uomo.
Non solo la metafora del fuoco contrapposto al gelo in Montale è un segno distintivo della donna amata, ma anche il sole, iperonimo del fuoco stesso, produce forme ed effetti del tutto contrapposti alla sua natura, (cieco, freddoloso====ombra nera) emblematizzando in tal modo l’assurdo del vivere stesso. E’ il caso della lirica Ti libero la fronte dai ghiaccioli.
Clizia ritorna al poeta come angelo ferito dopo aver percorso un doloroso viaggio.
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
 nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
In questo componimento, che risale al 1940, come osserva Dante Isnella “si apre il vasto spazio dell’oltrecielo al primo periglioso volo di Clizia, trasfigurata ormai nell’angelo delle visitazioni; spalanca gli ampi orizzonti delle nebulose  attraversate da lei, per recare a chi sa intenderlo il suo messaggio”.(Dante Isnella- Commento a E. Montale-Le occasioni.- Einaudi- Torino 1996, pag.129.
Il paesaggio, in cui si muove Clizia, certamente del tutto differente da quello, in cui si aggira la figura di Beatrice, contornato dalla purissima luce dell’intelletto d’amore, è quello delle vette nebulose, correlativo oggettivo dell’impervio viaggio esistenziale dell’uomo, dei suoi dubbi che non gli consentono di scorgere all’orizzonte se non“sole freddoloso” ed “ombra nera”.
La stessa Beatrice, prima ancora che faccia la sua comparsa nella Commedia, era stata annunciata da Virgilio “in su la vetta”. Ma la vetta di Beatrice è il colle della grazia, nel quale Dante, come abbiamo detto all’inizio del nostro discorso, potrà contemplarla  mentre  felicemente ride. La felicità di Beatrice è quella della creatura che ha conquistato l’Eterno e che potrà condurre Dante all’approdo della verità assoluta “ella ti dirà qual lume fia tra il vero e l’intelletto”.
Non un lume squarcerà le tenebre dell’animo di Montale ed il suo intelletto sarà assai lungi dalla conquista del vero.
Clizia, pertanto, si muove tra le insopprimibili ed  angoscianti sofferenze della vita: ha le“penne lacerate” dai cicloni e si desta “a soprassalti”.
In questo tormentato panorama, tuttavia, Clizia spicca il suo volo, come fa Beatrice, diventando anche lei messaggera di salvezza.
M. Corti commenta: “E’ uno dei sonetti costruiti attorno alla figura della donna. La sua natura trascendente, il suo essere una realtà assoluta al di fuori del mondo naturale, trova corrispondenza in una serie di attributi eccezionali che vanno dalla durezza del ghiaccio al volo piumato  di un angelo (altrove la circonda in un’atmosfera di tempesta).
 La donna è la mediatrice della salvezza e per tutti  porta il suo messaggio. Ma solo a pochi è riservata la conoscenza. Gli uomini sono, infatti, ombre, hanno parvenze di vita che li esclude dalla comprensione della rivelazione.”.
( Maria Corti- Viaggio nel ‘900 –Arnoldo Mondatori editore- Milano, pag.583).
 Si delineano chiaramente le contrapposizioni del mondo montaliano con quello dantesco.
In Dante la trascendenza poggia sulle basi di un assoluto escatologico, in Montale la trascendenza viene invocata per viam negationis.
Come Beatrice Clizia è l’angelo messaggero della salvezza, ma il mondo, in cui vive è popolato da “ombre”.
Nella seconda quartina il paesaggio è immerso nell’ora simbolica del mezzogiorno, che viene, però, offuscato dall’ombra del nespolo.
 Permane l’impressione di assenza, semantizzata dall’ossimoro “sole freddoloso”. 
Desolante è altresì l’apparire di “altre ombre”che scantonano nel vicolo”, che non sanno avvertire la presenza  di Clizia e non ne intuiscono il messaggio.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo e non sanno che sei qui.
Ci accorgiamo che il poeta, proprio nel momento in cui si sente proiettato nella sfera della trascendenza, non rinuncia mai alla ragione. La sua stessa metafisica, infatti, ce lo dirà il poeta stesso nasce dal “cozzo colla ragione”.
“Tutta l’arte che non rinuncia  alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può dirsi metafisico” (Dialogo di Montale sulla poesia-1960- pubblicato in S.M.A. M. S.- Il secondo mestiere- Arte, musica e società- a cura di Zampa- Mondatori ed .pag.10)
Il“cozzo con la ragione”,  il senso dell’“innata disarmonia col mondo” non sono da considerare i limiti della concezione della vita e della poesia montaliana, perché anzi è proprio dal disaccordo tra l’“io” e il cosmo, tra la ragione, il reale e la tensione della fede nell’Assoluto che scaturisce in tutta la sua forza la musa del poeta.
Montale, infatti, cerca sempre al di là dalla ragione e dalle cose non parventi il numinoso, che s’invera nell’attesa di un momento di speranza e di fede, che implica l’evento miracolistico della donna-angelo.
La donna avrà le sembianze della Cristofora, fragile e vittima, che continua nel mondo il sacrificio di Cristo.
Ci riferiamo alla lirica Iride
Quando di colpo San Martino smotta
le sue braci e le attizza in fondo al cupo
fornello dell’Ontario,
schiocchi di pigne verdi fra la cenere
o il fumo d’un infuso di papaveri
e il Volto insanguinato sul sudario
che mi divide da te,…………………………….
Nella stagione settembrina, nella cosiddetta estate di S.Martino, che offre l’ultimo sole prima dell’inverno e pare che liberi dalla cenere e ravvivi le ultime braci, che già il freddo ha cominciato a spegnere, anche nel paese lontano, presso l’Ontario, che è uno dei grandi laghi posti al confine fra gli Stati Uniti e il Canadà, luogo, dove la donna è esiliata, si evocano liricamente alcune immagini simbolo (schiocchi di pigne verdi- braci- fumo d’infuso di papaveri).
I correlativi oggettivi (fumo, cenere) alludono allo sterminio della guerra; l’“infuso dei papaveri”rivela la tendenza dell’uomo a dimenticare, mentre l’immagine del“Volto insanguinato sul sudario”ci riporta ad una dimensione metafisica colla figurazione del Christus della Passione, fissato nella Sindone.
Il poeta, nel momento della“tregenda” e della lotta, che lo sospinge in “un ossario”, si sente sperduto, immerso in un paesaggio fantastico biblico, animato da “zaffiri celesti e palmizi e cicogne su una zampa”, che, però, “non chiudono l’atroce vista al povero Nestoriano smarrito)”.
Non ha nessun altro amuleto o luce per la sua esistenza; ritorna il motivo del naufragio che non prelude alla salvezza.
e  quanto di te  giunge  dal naufragio
delle mie genti, delle tue , or che un fuoco
di gelo porta alla memoria il suolo
ch’è tuo e che non vedesti; e altro rosario
 fra le dita non ho, non altra vampa
se non questa, di resina e di bacche,
t’ha investito
Il  nostro ricorre ancora una volta all’ossimoro fuoco-gelo per esprimere con alta densità lirica il sentimento di angoscia per la lontananza della donna assente sia per ragioni sia di patria che di fede.
La prima strofe, con riferimento al“Volto insanguinato”si conclude con le parole che mi divide da te (chiara allusione alla diversità di religione- Clizia era ebrea).
Nei versi 16-18 leggiamo “ ….un fuoco/di gelo porta alla memoria il suolo/ch’è tuo  e che non vedesti;……”.
I critici moderni tendono ad interpretare“fuoco di gelo”in senso deterministico storico come fuoco di morte con riferimento ai forni crematori.
Come pure i versi “il suolo che è tuo e che non vedesti” potrebbe essere un’allusione alla Palestina, la patria ideale allora (e oggi reale) degli Ebrei, che in quel momento poteva venire alla mente, sia per l’inizio in essa delle lotte fra Inglesi, Arabi ed Ebrei, sia per l’assassinio compiuto di milioni di Ebrei.
Sia che vogliamo leggere i versi della lirica nei termini di un determinismo  contingentistico sia che vogliamo cogliere in astratto il dramma, che lacera l’umanità del tempo e che trascende anche dalla particolarità degli eventi, possiamo  concludere che il senso dell’immanenza in Montale è frammisto colla tensione alla trascendenza.  Smarrito nel suo cammino unica vera consolatrice  rimane la donna –angelo.
Da rilevare come nel contesto del componimento poetico motivi evangelici si mediano con il dramma puramente umano ed immanentistico del tempo.
Anche i segni, che la poesia rappresenta nella duplice metafora del “bel soriano-Cristo-“che apposta l’uccello”) e l’(“ombra del grande sicomoro- figura ripresa nella lirica “A Zaccheo”), sono simbolo di redenzione e di uguaglianza, in cui si sublima la figura ideale della donna, che diventerà ministra di Dio e che si  muove in una dimensione metafisica al di là  del tempo e dello spazio.
Ma se ritorni non sei tu, è mutata
la tua storia terrena, non attendi
al traghetto la prua,
non hai sguardi, né  ieri né domani
……………………………………………………………..
……………………………………………………………….
perché l’opera Sua (che nella tua
si trasforma) dev’essere continuata.
Lo stesso Montale parlando di Iride dice: “In chiave terribilmente in chiave….Iride la Sfinge delle Nuove Stanze, che aveva lasciato l’oriente per illuminare i ghiacciai e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell’eterno sacrificio cristiana.- Paga per tutti, sconta per tutti”.
E Montale ? non può che riconoscersi sempre più nella sua condizione di “nestoriano smarrito”, proprio nei termini che lo stesso autore precisa: “ Il nestoriano, l’uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista  o il rigido ed astratto monofisita”.
Comprendiamo, allora, perché il poeta quando si rivolge alla donna lontana, sia pure evocandola in un’aura di  estatica contemplazione, ne ritrae tutti i turbamenti umani.
Clizia è anch’essa  creatura incarnata nella tragedia del tempo, nel momento stesso in cui assume il  forte crisma  della religiosità, che per gli uomini  diventa atto di speranza e di salvezza.
Commenta Barberi Squarotti (Barberi Squarotti- La poesia italiana contemporanea-D’Anna-Firenze1970-pag.270): “Tutta la poesia oscilla tra la desolazione sconsolata dell’uomo nel momento più cupo della sua tragedia storica, e l’aprirsi della vertiginosa prospettiva metafisica; e il poeta smarrito fra i segni più atroci della lotta, della morte riceve dalla persona sacra incarnata nella donna lontana la luce della certezza (non un conforto, non una consolazione, che lo possa salvare, ma una consapevolezza un po’ arida della ragione, che non spera più nulla per sé) e della persistenza di un’altra verità, oltre quella terribile  della guerra e della  disperata situazione dell’uomo, del durare dell’azione assoluta misteriosa  del Dio (il Dio non legato a nessuna religione positiva, proprio simbolo della metafisica montaliana, quasi simbolo soltanto della suprema verità delle cose e dell’esistenza posta al di là delle apparenze dei sensi, della storia, che in Iride assume forti coloriture cristiane”.
Il giudizio critico di Barberi Squarotti è autorevolmente conducente alla tesi, che ci stiamo sforzando di argomentare e riguardante il carattere tutto laico immanentisco della religiosità, di cui si alimenta la poesia montaliana.
Il riverbero della parola poetica, nata da una coscienza sofferta, sempre impegnata a confrontarsi con le ragioni dell’Essere e con la vita, spingerà Montale verso il mondo metafisico dal quale luminescente ed umbratile insieme potrà prendere corpo la figura di Clizia.
  Ma è appunto la concezione della parola poetica, intesa come decifrazione dell’Essere e come luce-rivelazione, che fa riflettere nel mondo montaliano quello dantesco, implicando anche il concetto della grazia, costitutivo dell’opera di Dante, ma certo non ignoto a Montale.
Per Dante la grazia non può che essere concepita se non nei precetti della filosofia tomistico-aristotelica, in Montale l’idea della grazia balena soltanto come ipotesi.
Ce lo spiega il poeta stesso nell’Intervista Immaginaria: “L’ipotesi della grazia non è recente: era già in Casa  sul mare ed in Crisalide e già qui era solo per altri. In Crisalide volevo stringere un patto col destino  per scontare l’altrui gioia con la mia condanna- In Casa sul mare penso che per i più non vi sia salvezza, ma che taluno sovverta ogni disegno  e  passi il varco. Può essere  un motivo cristiano; come può essere un motivo cristiano Iride, l’ebrea che io chiamo Cristofora o portatrice di Cristo. Qualche fermento cristiano  è senz’altro in me, ma io non sono un cattolico praticante; io rispetto tutte le religioni come istituzioni.”
Accanto al motivo della grazia, sempre nell’atmosfera di una religiosità del tutto immanentistica, in Montale vibra anche il sentimento della fede.
Prendiamo ad esempio  Ho tanta fede in te che alcuni critici ritengono la più bella poesia cliziana.
Ho tanta fede in te
che durerà
(e la sciocchezza che ti dissi un giorno)
finché un lampo d’oltremondo distrugga
quell’immenso cascame in cui viviamo.
Alla trepida attesa e al sentimento di fede si contrappone il nulla, la dissoluzione dell’uomo nelle cose stesse del creato (cascame) senza un punto preciso di riferimento nel tempo e nello spazio.  Nei vv. 6-7 della lirica, infatti, il poeta dice:
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha senso dire punto dove non è spazio.
Eppure dalla cenere rinascerà l’uomo, in cui arde la fede.
Questa, infatti, è la conclusione della poesia:
Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà  dirà è un uomo di cenere
senza accorgersi che era rinascita.
Dal Nulla all’Essere, dalla cenere alla rinascita, dal buio alla luce, dal silenzio alla parola: questo il periglioso cammino del nostro, mai dimentico del perenne sacrificio umano, di cui è testimonianza anche la donna-angelo. Si pensi a Il giglio rosso e a Giorno e notte.
Il  giglio rosso, se un dì
 mise radici nel tuo cuor di vent’anni
……………………………………………………..
……………………………………………………..
Il giglio rosso già sacrificato
…………………………………………..
fiore di fosso che ti s’aprirà
sugli argini solenni ove il brusio
del tempo più non affatica……………………….
L’immagine della fanciulla prematuramente morta, che non ha potuto coltivare nel suo cuore il giglio rosso, e, che, ora è fiore di fosso, in una dimensione atemporale appartenente all’eterno della morte, è una  delle note più sconsolate della poesia montaliana, anche se proprio dall’immensità del dolore il poeta si sospinge, al di là del tempo e dello spazio, nell’ultraterreno (ove il brusio del tempo più non affatica).
Nella poesia Giorno e notte il processo di sublimazione della donna avviene attraverso immagini angelicale-numinose, che adombrano, però, l’incombere della morte.
Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
tra i mobili, il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
 dei pioppi e già sul trespolo s’arruffa il pappagallo
dell’arrotino. Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d’incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell’antro
incandescente- e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t’arrossa
la gola e schianta l’ ali, o perigliosa
annunciatrice dell’alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerìo  di trombe…………….
Di questa lirica ci dà un’analitica spiegazione lo stesso Montale: (Giorno notte- 1961 in S.M.A.M.S.  op.cit. pag.1458) “Posto che in tutto il breve ciclo il rombo della guerra  (intesa fatto cosmico) è presente, diventano comprensibili come parti del“basso continuo”i pianti e le grida nella veranda non meno il colpo che arrossa la gola alla visitatrice perigliosa- Ma chi è costei ? Certo all’origine donna reale,  ma qui e altrove visting angel poco o punto materiale. Non è necessario attribuirle una piuma che vola quasi si fosse distaccata in anticipo dalle sue ali (sebbene non sia impossibile). Piuma, luccichio dello specchio ed altri segni (in altre poesie) non sono che enigmatici annunci dell’evento che sta per compiersi: l’istante privilegiato, spesso la visitazione. E perché la visitazione annunzia l’alba?  Quale alba ? Forse l’alba di un possibile riscatto, che può essere tanto la pace quanto una liberazione metafisica. In sé la visitatrice non può tornare in carne ed ossa, ha un tempo cessato di esistere come tale. Forse è morta da tempo, forse morirà altrove in quell’istante..
Il suo compito d’inconsapevole Cristofora non le consente altro trionfo che non sia l’insuccesso quaggiù: lontananza, dolore, vaghe apparizioni quel tanto di presenza che sia per chi la ricerca un memento, un’ammonizione. La sua fisionomia è sempre corrucciata, altera, la sua stanchezza mortale, indomabile il suo coraggio: se angelo mantiene tutti gli attributi terrestri, non è riuscita a disincarnarsi. Tuttavia è già fuori , mentre noi siamo dentro. Era dentro anche lei, ma poi è partita per compiere la sua missione”.
Le parole di Montale adesso ci fanno comprendere quanto sia incolmabile la distanza che separa la figura di Beatrice da quella di Clizia.
Il bell’occhio dell’angelo dantesco rivela la luce assoluta dell’Eterno; la tormentata Clizia, invece, nell’incalzare dei drammatici eventi e nel limite stesso posto dalla vita e dalla morte, e proprio nel momento, in cui “è fuori”, di là dalla vita, può  volgere il suo messaggio di salvezza agli uomini  “che sono ancora dentro”.
Beatrice  nella sfera dell’Eterno si congiunge all’Alto fattore ed, in quanto visio Dei, può condurre“l’amico suo e non della ventura”alla salvezza, Irma-Clizia, invece, tutta calata nella temporalità esistenziale, esprime la possibilità di salvezza attraverso la morte.
Eppure Clizia come Beatrice è segno divino, capace di liberare l’umanità dal “male di vivere”.
Come Beatrice anche Clizia viene preannunciata dalla luce ed il codice della luce nei due poeti ripropone per l’appunto il tema biblico della rivelazione e della salvezza.
Ma la luce, che accompagna Clizia si manifesta solo a tratti e spesso è correlata, come abbiamo visto, da stilemi ossimorici, che evidenziano la precarietà del vivere stesso degli uomini e il loro atteggiamento dubbioso nei confronti della trascendenza.
Beatrice, a sua volta, s’identifica colla luce stessa del sole, grazia e rivelazione al tempo stesso.
Beatrice è votata alla vita eterna, Clizia alla morte.
Osserva il Marchese (A. Marchese- op. cit- pp. 247-48) :“La morte di Clizia ha tutti i caratteri della sublimazione dell’eros in caritas, cioè della dolorosa, ma necessaria rinuncia della donna amata perché“Iri del Canaan”compia la sua missione di salvezza. La semantizzazione della donna è connessa all’idea profonda del sacrificio sicché il correlativo simbolico dell’allodola-usignolo-robin, stroncato dal colpo di fucile, è altra e non diversa immagine cristologia incentrata nel colore del sangue (se rimbomba improvviso il colpo che t’arrossa /la gola e schianta l’ali o perigliosa annunciatrice dell’alba-Giorno e Notte. vv.14-16.”.
Noi da parte nostra condividiamo pienamente il giudizio del Marchese, in base al quale  riteniamo che Clizia, con gli elitropi che fioriscono dalle sue mani, con il suo non mutato amore, che mutata con conserva in sé, rappresenti non solo la caritas, ma anche la fede, in cui traluce l’attesa dell’uomo nei modi propri della speranza.
Fede, speranza, carità caratterizzano, dunque, la figura di  Clizia come quella di Beatrice.
Fede, speranza, carità non solo rappresentano il momento più importante per il peregrino Dante nella sua ascesa all’assoluto, ma nella Commedia assolvono pienamente alla loro funzione teologica congiuntamente a Beatrice.
Nel canto XXXI del Purgatorio Dante assieme Matelda si trova presso il Letè, “beata riva” (beata poiché segna il trapasso tra la conquista della felicità terrena e la contemplazione del divino). L’evento straordinario viene ritmato dal salmo Asperges me. Il coro s’intona perfettamente alla situazione liturgica ed il poeta ne intuisce l’ineffabilità che non può essere affidata né alla memoria, né alla penna vv. 98-99 “sì dolcemente udissi / che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva”. La bella donna  (Matelda) cinge delle sue braccia il capo di  Dante e lo immerge nel Letè.
Pur in una viva e commossa rappresentazione colma di  sensibilità umana il rito del battesimo si connota con tutto il crisma sacrale cristiano.
Anche Montale accenna al battesimo, ma con accenti completamente diversi, anzi diremo che anche il battesimo stesso non è disgiunto dalla stessa forma della tragicità dell’esistenza.
Ricordiamo i versi già citati di Primavera hitleriana.
ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda…………………………………………………
Il battesimo è analogico ai“lunghi addii”, espressione di dolore e sofferenza per lontananza, mentre l’attesa è“lugubre”. 
A rendere ancora più carico di sofferenza e di dolore umano il battesimo è senz’altro il valore semantico della parola “pegni” (lat. pignus-oris, che oltre a pegno, assume il significato di garanzia di una scommessa (pignore certare cum aliquo Virg. Ecl. 3, 31), ovvero di pegno d’affetto riferito a persone a persone care (tibi commendo communia pignora natos-Prop.) ovvero di testimonianza ( magnum pignus dare Cic.).
Ci siamo voluti soffermare sulla semantica del vocabolo in latino perché riteniamo che proprio attraverso la corretta accezione del termine possiamo comprendere il significato profondo che la parola poetica intende comunicarci.
Infatti riteniamo, che oltre all’implicanza affettiva, relata ai “lunghi addii”, i pegni di Clizia si devono intendere, come il latino stesso ci suggerisce, una garanzia posta dalla donna-angelo di fronte allo scacco del mondo e la sola possibile risposta al nulla e alla finitudine dell’uomo.
“Tutto per nulla?”, è, infatti, l’’interrogativo angosciante e dubbioso del poeta all’inizio della strofe.
Ancora una volta il richiamo ad un rito cristiano in Montale si media con la terreistreità e con la sempre sofferta angoscia del presente.
Il battesimo, invece, è vissuto da Dante nel suo profondo significato religioso ed escatologico.
Lo stesso poeta c’illumina sul significato profondo della sua purificazione per opera della donna benedetta (Beatrice) e delle sue ancelle.
( Dante Purg. Canto XXXI vv.107-113 )
“Noi sian qui  ninfe e nel ciel siam stelle
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi, ma nel giocondo
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo”
Le quattro ninfe,che rappresentano le quattro virtù cardinali,dicono condurranno il peregrino alla presenza di Beatrice “merrenti a li occhi suoi”, nel cui sguardo luminoso potrà mirare“le tre di là”, (le virtù teologali: fede, speranza, carità) che miran più profondo”.
 L’allegoria ci rimanda al senso anagogico della Commedia e compendia tutto il credo cristiano di Dante ed inoltre ci fa comprendere l’essenza stessa della  figura di Beatrice, “visio Dei”, cui sono ministre le sette ninfe (virtù cardinali e virtù teologali”).
Ordine cosmico e volere divino sono consonanti e ritrovano il loro “necesse esse” e“bene esse” proprio “nel giocondo lume” di Beatrice attraverso il quale Dante potrà mirare le tre virtù teologali necessarie per penetrare nella profondità del mondo divino.
Fede, speranza, carità, abbiamo detto poc’anzi, possono essere considerati attributi della figura di Clizia.
 Ma il suo amore è caritas, che si distrugge, la sua fede e la sua speranza si librano in un mondo di attesa, dove si ricerca l’assenza-essenza di Dio, di cui predomina il silenzio interrotto soltanto ora da “qualche indisturbata divinità, ora  presente con gli attributi  della “divina indifferenza”.
Beatrice può connotarsi come“lo svelamento  della grazia di Dio”, Clizia rimane alla soglia di un’attesa metafisica di tipo probabilistico e non riesce a sciogliere “l’anello che non tiene”, a svelare “l’ordegno universale” del meccanicismo cosmico e della “tregenda” in cui si dibattono gli uomini del suo tempo.
Il Dio di Montale non è quello di Dante che comprende e trascende Tempo e Spazio  secondo i presupposti teleologici della dottrina cristiana, ma è un deus absconditus, come meditava Pascal, autore peraltro caro a Montale, “un dio presente nel cuore dell’uomo, non nella natura”.
Per questo forse anche la luce, che accompagna l’epifania di Clizia, viene sommersa dal buio dell’angoscia esistenziale.
Lo stesso viaggio della donna-angelo in Montale non prefigura, come in Dante, il termine ultimo della salvezza eterna, ma si perpetua col sacrificio nell’imminenza della distruzione e della morte.
Clizia è senz’altro la più grande espressione della fede nestoriana di Montale, Beatrice, invece, s’identifica essa stessa con la teologia e con la rivelazione divina, come possiamo notare attraverso la lettura dei vv.133-138 del canto XXXI del Purgatorio.
“ Volgi, Beatrice, volgi gli occhi santi”
era la sua canzon “al tuo fedele
che, per vederti, ha mosso passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele”.
Le tre virtù teologali cantano a Beatrice e queste sono le parole del loro canto: “Volgi, Beatrice, i tuoi occhi santificati dalla Grazia divina al tuo fedele che ha compiuto un viaggio così lungo”. Il termine fedele concorda perfettamente, osserva il Giacalone, con le parole dette da Lucia a Beatrice nel II canto dell’Inferno, v.98- “Or ha bisogno il tuo fedel di te”.
Beatrice ora dovrà svelare la “seconda bellezza”, che, secondo l’interpretazione di Mazzone, sarebbe la bellezza di Dio, che si riflette in Beatrice. Questa interpretazione concorda perfettamente con i versi successivi. (Purg.CantoXXXI- vv.139-141)
O  isplendor di viva luce eterna,
che palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in una cisterna,……………
Lo splendore della luce eterna, che fulge negli occhi di Beatrice, è tale che rende incapace anche il poeta, che abbia attinto alla fonte del Parnaso, di  trascrivere l’ineffabile che il divino suscita nell’animo.  Limite della poesia? Necessità di entrare nell’altro giogo del Parnaso, come il poeta dirà nel I canto del Paradiso?
Non c’è dubbio, però, che il ricordo di essere stato poeta crea una sospensione tra l’umano e il divino e ci fa altresì comprendere come Dante in fondo sia un poeta theologus.
Anche Montale possiamo definire poeta theologus, ma di una teologia negativa.
Il concetto del poeta theologus, con specifico riferimento a Dante ci è illustrato da  August Buck in- (Atti del Congresso internazionale di Studi Danteschi- op.cit. pag 266)
“Per l’esegesi figurale  o tipologica la realtà significa se stessa e nello stesso tempo raffigura una realtà superiore, cosicché figure ed eventi storici vengono bensì riconosciuti nella loro realtà, ma trovano una compiutezza nel loro significato nel regno delle verità eterne…………….. La poesia appare (a Dante)“quasi dvinum quoddam munus”.
 L’“invocatio”che Dante adopera nei punti salienti della sua opera, viene motivata dal fatto che i poeti devono rivolgersi“alle sostanze superiori”. Tali sono oltre a Dio e a Cristo anche Apollo e le Muse. A causa della sua origine divina il poeta può superare tutti; il nome del poeta è quello che più dura ed onora”
 E se Dante, giusta l’osservazione critica del Buck, ci ha  rivelato che nella poesia la raffigurazione di eventi non sono”riconosciuti nella loro realtà”, ma”trovano un significato nel regno delle verità eterne”, la sua grande lezione, persistendo, si protende sino all’orizzonte della cultura contemporanea.
Il giudizio di Buck concorda con quello di Montale nella considerazione della visione della poesia dantesca, intesa come dono, e, pertanto da custodire e tramandare nel tempo.
Il“quoddam divinum munus”, inoltre, attribuito da Buck all’ispirazione dantesca, ci conferma sull’aspetto categoriale del valore assoluto ed ontologico della parola poetica, che, mediante l’esempio dell’autore della Commedia, in ogni tempo si rivela illuminazione dell’Essere, cifra dell’Assoluto ed assume, sia pure attraverso le mutazioni delle variabili temporale-culturali, un significato miracolistico-religioso.
Parimenti Montale si rifà al carattere miracolistico del poema sacro “che fu dettato da Dio e il poeta non fu che lo scriba”, ma al contempo recepisce nel dono di Dante il precetto inalienabile alla poesia stessa: la sua funzione nel mondo di riedificazione morale e civile, nel rispetto della dignità dell’uomo. “Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi la riceve, questo è il migliore insegnamento che Dante ci ha lasciato”.
Il concentrico ammaestramento di Dante (la parola-luce-rivelazione ed il senso profondo di una poesia che attui il processo di rinnovamento etico e civile dell’uomo) è una costante nell’assiologia temporale del cielo della poesia e costituisce un aspetto nodale della produzione lirica montaliana.
Montale, ripiegato come  Dante nella solitudine e nella meditazione, scorge nella poesia la possibilità  di pervenire “al solco metafisico dell’esistenza” attraverso la sublimazione del visting angel, che identificandosi coll’essenza stessa della poesia, ha il compito di salvare l’umanità.
Così ci riferisce il poeta “S.M.P.R. Il secondo mestiere-prose e racconti con introduzione di Marco Forti- Mondadori- Milano-1966): “La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione”.
“Solitudine” ed “accumulazione”: due termini che definiscono modi valoriali della poetica di Montale, colma di silenzi ed al contempo straripante di tutte le ansie “accumulate” nella sofferta esperienza di vita e che inducono, altresì, il poeta alla riflessione, ad essere “theologus” del suo tempo, nella luce dell’assoluto della parola poetica,  simboleggiata da Clizia.
Sia Dante che Montale affidano alla poesia il compito di rinnovamento totale della società in cui vivono
Il Dante theologus si rivolge all’uomo del suo tempo, che ha smarrito “la dritta via” perché la temporalizzazione dei beni terreni aveva avuto il sopravvento sui valori celesti.
Nel“buio” (assenza del ben dell’intelletto) Dante, con la guida della ragione ed illuminato da Beatrice, percorrerà tutto l’itinerarium in mentem Dei e la sua esperienza personale si oggettiverà nella sua poesia e diventerà paradigma per tutta quanta l’Umanità.
Montale si rivolge ad un mondo, che, oltre ad aver perduto ogni fede nella trascendenza, (Dio è morto aveva sentenziato Nietzsche) era dominato dai mezzi di comunicazione e dal consumismo: “Mi fa impressione che una sorta di millanerismo si accompagni a un sempre più diffuso confort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo della civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, e smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione  hanno tentato, non senza successo  di annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione”.
Prosegue ancora Montale “ Il mondo è ancora in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per contraccolpo, una cultura che sia argine e riflessione. Possiamo collaborare tutti a questo futuro” (.S.M.P.R- Il secondo mestiere- op.cit. pag. 3034)
La lettura di questo brano ci fa comprendere il profondo significato della poesia montaliana, nata dalla solitaria meditazione di un uomo, che sotto le parvenze del benessere scorge “i lividi connotati della disperazione” della coeva società.
Manifesta, altresì, l’autore una preoccupazione mai sopita per il futuro delle arti e della poesia in particolare e si augura che la cultura possa essere “argine e riflessione”  e “contraccolpo” al carattere effimero della società di massa. L’ultima frase, che riportiamo dello scritto “Possiamo tutti collaborare a questo futuro” è un invito che il poeta rivolge a tutti gli uomini a non essere “ombre” e ad esprimere nel presente l’autenticità del loro essere. Dalla“cenere”, come nella già citata poesia Ho tanta fede in Te auspica la “rinascita”.
La“rinascita dell’uomo” non è forse anche il grande tema della poetica dantesca? Come pure si può intendere alla maniera dantesca  la continua attenzione di Montale, volta non a quell’uomo o a quell’avvenimento ma proprio“alla condizione umana in sé considerata”, non contingente, ma assoluta. Ce lo dice lo stesso Montale quando afferma “l’argomento della mia poesia (e credo di ogni poesia) -riteniamo che sia implicito il riferimento a Dante- è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento.”
Se queste parole ci spingono a considerare la metastoria e la metafisica di  Montale, non dobbiamo, però, mai dimenticare che il poeta non desiste mai di confrontarsi col reale e col suo problematicismo esistenziale.
Anche questo principio ci chiarisce lo stesso poeta: “Un poeta porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale ad interpretarla secondo gli schemi che gli sono propri”.
Montale, l’abbiamo notato nel corso del nostro discorso, non rinuncia mai al principio assoluto  di identità vita-poesia . E la stessa Clizia ne porta i segni.
Ma come il poeta  tenta di penetrare “nella condizione umana” e  qual è l’orizzonte che s’affaccia alla sua vista e quale il suo concepimento di uomo e di poeta?  Ancora una volta sono le parole del poeta ci danno la risposta. “Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione (e prima aveva detto argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata) non poteva essere che quella della disarmonia”.
La disarmonia è la nota fondamentale dell’anima montaliana come l’armonia è l’essenza stessa della poesia dantesca, dove mondo fisico e metafisico coincidono.
Sull’armonia del cosmo c’illumina lo stesso Dante (Par. canto I vv. 76-84)
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
 
La novità del suono e ‘l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai sentito di cotanto acume.
L’incontro tra i moti celesti e l’armonia, che ne risulta, sono il simbolo di quell’incontro tra la creatura e il suo Creatore, che è la ragione ultima e fondamentale del viaggio del poeta.
L’arcana armonia e la luce  della rivelazione, che sfavilla nello sguardo di Beatrice, non possono che fare accrescere in Dante il “disio mai sentito di cotanto acume” di ascendere a“sito decreto”.
“La poesia dell’Inferno e del Purgatorio ora si eleva a poesia metafisica  e Beatrice si aggira con gli attributi indefinibili ed ineffabili del mondo celeste tra musica e tripudio di luce” (Pasquazzi- All’eterno del tempo-Firenze-1966)
Per Montale, invece, cantore della disarmonia e sofferente peregrino in questa terra, sempre lacerato dal dilemma esistenziale, tra scepsi e credenza, l’immagine della sua donna non può essere celebrata  nello sfavillio della luce e non può essere ritmata  dall’armonia dei suoni del creato.
La luce, che investe Clizia, è chiaroscurale, simbolo della stessa tragicità dell’esistenza, il suono stesso echeggia la crepitante desolazione del mondo o, se scende  dal cielo, è da questo“slegato” “ col respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali /di raccapriccio, ai greti arsi del sud………….”. versi che abbiamo commentato all’inizio del nostro discorso e che adesso ricordiamo per puntualizzare la mirabile unità nella diacronia dell’opera poetica montaliana, non solo sul piano formale, ma su quello della coerenza logica e dell’invenzione propriamente lirica.
L’ossimoricità, che sta alla base dei codici semici degli stessi stilemi formali fuoco-gelo-vita- morte fanno di Clizia una creatura sacrificale, che, per continuare a vivere, dovrà tuffarsi  in un mondo arido, corroso. Lo stesso sole  è un sole assurdo, un sole che abbacina e distrugge la stessa Clizia che si sublima nel suo sacrificio.
La poesia in Dante, invece, si fa tutt’uno con il principio dell’armonia teleologica, in cui, giusta la tesi del Pasquazzi, “si stigmatizza l’incontro tra la creatura e il suo Creatore.”
Sull’argomento esemplificative sono le parole  di Matelda ( Purg. Canto XXVIII- vv.139-144)
Quelli ch’ anticamente poetaro
l’età dell’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
 qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice
L “esto loco” è riferito ai fiumi Letè ed Eunoè: il primo il fiume della dimenticanza, il secondo il fiume della memoria del bene; entrambi rendono l’anima “pura e disposta  alle stelle”.
La stessa poesia, allora, è intesa come un momento prefigurale che preconizza la verità quale vago presentimento del verbo cristiano. La stessa concezione dell’anima innocente, che è ripresa da  Ovidio, (Met. I, 90 aurea prima aetas sine lege fidem rectumque celebrat”) possiamo interpretarla come suprema aspirazione dell’ “itinerarium Dantis in mentem Dei”.  Lo stato felice, inoltre, del mondo edenico “qui primavera sempre ed ogni frutto”; “ nettare è questo di che ciascun dice” e che è un’altra trasposizione ovidiana, ( Met. I vv. 107-111 ver aeternum flumen iam lactis, iam nectaris ibant),  assume un significato profondamente religioso attraverso il quale s’intravede  il senso ultimo della poesia: parola-luce (rivelazione della grazia), che già Matelda introduce e che sarà poi compiutamente svelata da Beatrice.
Del locus dantesco, che abbiamo citato, ha senz’altro memoria G.Pascoli, che ne “Il fanciullino” (1896),  afferma che al poeta è presupposto lo studio, che “deve rifarci ingenui come Dante davanti a Matelda”.
Lo studio per la poesia, aggiunge ancora il poeta “deve togliere gli artifizi e renderci la natura”, nella quale si scopre l’autenticità della vita che ripropone gli “uomini innocenti come Dante davanti a Beatrice”.
La notazione del Pascoli, appassionato studioso di  Dante, ci sembra di peculiare importanza perché, oltre a penetrare profondamente sull’essenza della poetica dantesca e ad  enucleare il rapporto intrinseco natura -poesia –innocenza dell’anima, ci offre un’ulteriore  testimonianza del perdurare del dictamen poetico di Dante nel tempo.
Un altro grande poeta del ’900 G.Ungaretti nella lirica Girovago (Allegria di naufragi 1919) ci rivela con rara essenzialità di cifrario linguistico-poetico la tensione al recupero dell’innocenza, ad una vita incontaminata primigenia, dalla quale possa sorgere la linfa della vita da tradursi in poesia.
Godere un solo
minuto di vita
 iniziale
 
Cerco un paese
 innocente
Anche Ungaretti come Pascoli sembra mirare all’“esto loco”, che Matelda svela a Dante  e che  accoglie l’anima innocente “qui fu innocente l’umana radice”
L’archetipo dantesco sarà rivissuto naturalmente dai poeti del ‘900 in rapporto alla  Weltanscauung del periodo e alla loro individuale condizione umana e spirituale.
Abbiamo accennato precedentemente al diverso modo di atteggiarsi dello spirito e del pensiero dell’uomo novecentesco, rispetto allo scolasticismo medievale, nei confronti del cosmo e della metafisica.
Il che, ha, altresì, implicanze sul rapporto uomo-natura, concepito nella sua esistenzialità temporale, come pure  nella sua proiezione metatemporale, e comporta, inoltre, l’instaurarsi di novità di forme estetiche connesse alle istanze ideologico-spirituali della  temperie storica.
Questo principio viene analizzato con perspicuità concettuale dal filosofo N. Abbagnano (N. Abbagnano-Introduzione all’ esistenzialismo-Taylor- ed- Torino 1957) che a pp.186-87 medita:
 “L’esistenza umana non è natura se non  perché ritorno alla natura. Esistere per l’uomo significa non già l’abbandonarsi alla naturalità, ma riconoscerla e porla in atto come forma originaria e finale”.
Aggiunge il pensatore “L’oggetto estetico è la possibilità effettiva della sensibilità pura.
.Essa è la natura stessa che si umanizza diventando la possibilità intrinseca dell’esistenza propriamente umana…………………….Come arte, la natura entra nel circolo vitale dell’esistenza e salda il suo destino a quello dell’uomo”.
Il giudizio di N.Abbagano,  riferito ad una natura, “che si umanizza” e che diventa “possibilità intrinseca dell’esistenza propriamente umana”e che “come arte entra nel ciclo vitale dell’esistenza”, ci spinge a ripercorrere colla mente le componenti probabilistico-esistenziali  del pensiero filosofico predominante nel panorama culturale del ‘900, e, che segna sotto l’aspetto ideologico, una netta separazione con il presupposto tomistico-aristotelico dell’Uno-Tutto imperante nell’universo dantesco.
Il ritorno alla natura primigenia come autentica forma d’ispirazione poetica, allora, come postula l’Abbagnano, è da rapportare all’assiologia temporale-esistenziale del poeta stesso e al suo destino nella sfera umana.
Dell’assunto teorico proposto dall’Abbagnano possiamo considerare exemplum tutta l’intensa e vasta produzione poetica di Montale.
Dante, invece, nell’edenico paesaggio, nel quale vive “l’innocente umana radice”, e che“sognaro quelli ch’anticamente poetaro”, raffigura il mondo della perfezione umana nel momento stesso in cui si attua la sua sublimazione verso l’Assoluto.  
La poesia rappresenta, quindi, per Dante il momento “dell’ultima felicitade” in questa terra ed è propositiva di quella ultraterrena.
Infatti Dante per giungere all’oltrecielo non disgiunge la vita attiva da quella contemplativa.
E proprio Matelda, prefigurazione di Beatrice, viene interpretata dal Porena “perfezione della vita attiva armonizzabile con quella contemplativa”.
L’anagramma stesso del nome Matelda “ad letam” offre la spiegazione per comprendere la funzione della donna, che è quella di ricondurre Dante a Beatrice (leta), come opina Enzo Quaglio. (Lectura Dantis Scaligera- op.cit.)
La poesia, dantesca, proprio nel momento in cui tende all’escatologia, inneggia all’armonia, che lega l’uomo alla natura.
Il salmo“Delectasti”(Salmo XCI Delectasti me, Domine, in factura tua et in operibus manuun tuarum exultabo”) che nel canto si snoda come inno liturgico di ringraziamento, c’illumina sulla condizione dell’uomo che ricrea la sua armonia   nell’universo.
Per questo Beatrice risplenderà nel lume dell’Eterno; Clizia, invece, nella disarmonia del mondo, cercherà di continuare a sopravvivere, ma, tra i frantumi del cosmo, lacerata dalle ferite subite nell’anima, si logora in una vita che sa di sangue e di morte.  Per continuare ad esistere sarà sorella all’“anguilla” e al “gallo cedrone”.
Il senso di cupo pessimismo, che configura l’immagine di Clizia, è determinato dallo stato d’animo del poeta, che col passare del tempo, si fa sempre più angoscioso.
Opina al riguardo il Marchese (A. Marchese- op. cit. pp.258-259) “ Nel dopoguerra inoltrato, così deludente per Montale, finisce il mito religioso di Iride e si offusca la fede nestoriano, ma la tormentata ricerca di Dio, non più mediata dalla figura cristica della donna.
Con il gallo cedrone e l’anguilla  Montale torna al motivo schopenhauriano  del Wille zu Leben: l’identificazione con l’animale ucciso ( una nuova e inconscia vittima sacrificale); è penosa e a stento copre la delusione esistenziale. “Sento nel petto la tua piaga, sotto/ un grumo d’ala; il mio pesante volo /tenta un muro e di noi solo rimane / qualche piuma sull’ilice brinata.- Gallo cedrone vv. 19-22); ma la vita continua nell’uovo ( la gemma / delle piante perenni vv. 14-15). Anche l’anguilla è ricondotta all’istinto produttivo, ai “paradisi artificiali di riproduzione”, negli  ardi fossati dell’Appennino, scintilla che indica il risorgere della vita (“tutto comincia”) quando sembra che tutto muoia ( quando tutto pere/ incarbonirsi, bronco seppellito, vv.24-25) E proprio nell’“iride  breve, gemella / di quella che incastonano i tuoi cigli/ e fai brillare intatta in mezzo ai figli/ dell’uomo, immersi nel fango, puoi tu/ non crederla sorella? vv. 26-30). Il “fango”, il  “magma”, il “limo”, prima metafora di un campo semantico che da Satura assumerà forme sempre più desublimate e sctaologiche- sono l’ineludibile grembo della vita, da cui emerge la  luce della donna-angelo (“incastonano i tuoi cigli”) riprende il motivo degli occhi preziosi dell’amata, non più  separata dallo sfondo terroso, arido e apparentemente infecondo  da cui scocca la scintilla dell’esistenza”.
Il discorso critico di Marchese ci fa meditare sulla parabola della poetica montaliana e ci spinge ancora una volta ad analizzarne alcuni motivi fondamentali da riferire o  contrapporre a quelli della musa di Dante. La limpidezza delle acque, l’armonia delle sempiterne rote accompagnano il viaggio di Dante, rischiarato  dal  lume rivelatore  di Beatrice.
Il cammino di Montale si consuma, invece, nella dolorante ed esilarante angoscia esistenziale.
Non certo l’antica innocenza, evocata da Matelda e che rappresenta il primitivo splendore dell’umanità, può vivere nell’animo di Montale e quindi nella sua poesia o nella figura-simbolo della medesima: Clizia.
Ma le sofferenze e la coscienza del dolore, la visione di un Dio, come dice Jacomuzzi, “eternamente assente ed invisibile” sollecitano il poeta a riflettere sul fatto che non può esserci salvezza nel mondo delle tenebre se non nella vita stessa, intesa come perpetua prigione infernale.
 Da questa il  poeta  tenta di evadere cercando proprio nella poesia una ragione all’esistenza e mirando all’Altro.
Ricordiamo, infatti, che, anche nelle forme più oscure del pessimismo, la tormentata ricerca di Dio si fa strada e forse ancora con maggiore impellenza nell’anima e nella mente del poeta.
Ed allora quali possono essere gli estremi correlativi oggettivi ed anche quelli che accompagnano Clizia  mutata in  anguilla se non “il fango” ed  il “magma”?.
Non potremo, in fondo, nel motivo di questa “fiumana” che trascina l’umanità ripensare alle “lacrime” che fuoriescono dal piede d’argilla del Veglio di Creta? (XIV canto dell’Inferno).
Le “lacrime”, invenzione di Dante non connotano forse il travaglio dell’Umanità decaduto dal primo stato di felicità  edenica?
E Montale, se non decaduto, non si sente impigliato sempre più nella grande maglia dell’Essere, in cui “ l’anello non tiene”?.
Dal “fango”, dal “magma”, lacrima sofferta della sua poesia, tuttavia scocca  quella scintilla che sembra promettere  la salvezza.
Iride-Clizia—anguilla –gallo cedrone-, nelle loro mutazioni segnano momenti significativi delle tappe dell’itinerario umano ed esistenziale di Montale.
Il poeta, infatti, non trascende all’Uno-tutto, come Dante.
 Anche nel momento, in cui sente l’esigenza dell’escatologia, ricorre alla cosiddetta “teologia della briciola”, che possiamo considerare il correlativo di un processo di lacerazione dell’“io”, nel momento stesso in cui Clizia perde tutti i  connotati del numinoso e dell’ultraterreno.
In Storia di tutti i giorni, scritta nel 1973 e compresa nella Silloge “Quaderno di quattro anni”, dice:
L’unica scienza che resti in piedi
l’escatologia
non è una scienza,  è un fatto
di tutti i giorni
Si tratta delle briciole che se vanno
senza essere sostituite.
Che importano le briciole va borbottando
l’aurispice,
è la torta che resta, anche se sbrecciata
se qua e là un po’ sgonfiata.
Questa  è la visione del  mondo montaliano diametralmente opposta a quella dantesca del poema sacro “nel quale si squaderna tutto l’universo”.
Ma sia nel “fango”che nella “briciola” continua a vivere l’idea di Clizia con l’esigenza insopprimibile del divino.
Si legga a riguardo la poesia Rebecca composta nel 1970 e compresa in Satura (II libro).
Gli addendi sono a posto, ineccepibili,
ma la somma?
Non c’era molt’acqua nell’uadi, forse qualche pozzanghera,
e nella mia cucina poca legna da ardere.
Eppure abbiamo tentato per noi, per tutti, nel fumo,
nel fango con qualche vivente bipide, o anche quadrupede.
Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola.
Solo la morte lo vince se chiedi l’intera porzione.
Nella lirica sono presenti le componenti che configurano il“continuum” del travaglio esistenziale di Montale: il suo existere  nel tempo, alla maniera di Heidegger e di Jasper, la sua estrema propensione ad occultarsi nell’infinitesimo per cogliere il divino.
Ma il divino è totale nel sorso e nella briciola/ solo la morte lo vince.
Ma anche dopo la morte, ci riferiamo a quella  figurale- poetica di Clizia, il divino ripullulerà quando tutto pare incarbonirsi come iride breve.
La ricerca di Dio in Montale, nel “sorso”e nella “briciola”, proprio perché fondata sulla teologia negativa, rappresenta la più alta testimonianza della religiosità e dell’ansia metafisica dell’uomo del ‘900,  mentre Dante trasferisce nella sua poesia tutta la“summa”dei valori escatologici del medioevo.
I due poeti esprimono liricamente l’anima del tempo in cui vissero; rimangono due figure distinte ed autentiche nel modo di intendere la vita e la poesia. L’incontro tra Dante e Montale, tuttavia, esiste nel momento stesso in cui entrambi fanno della poesia non solo la ragione del proprio esistere, ma scorgono in essa l’unico modo possibile di svelare attraverso l’ontologia della parola l’Essere e ciò che lo trascende.
Accostiamo, pertanto, Montale a Dante perché entrambi parlano all’uomo del loro tempo per disnebbiare la mente dalla cecità (ci permettiamo si prendere in prestito questo termine proprio da Montale nel brano che abbiamo citato con riferimento a Dante).
Ma in quanto uomini del loro tempo ed, in quanto genuini nelle forme della vita e della poesia, il mondo da loro rappresentato non può essere che profondamente diverso.
In Dante l’assoluto escatologico si trasferisce nell’assoluto della poesia, in Montale l’assoluto della sua poesia si identifica colla sua stessa esistenza di persona dramatis del Novecento.
Sin dall’inizio del suo peregrinare Dante, sorretto dai principi del tomismo-aristotelico, può intravedere nel buio della selva la luce, che si sprigiona sul colle, emanata dai “raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle”.
Il colle è quello della grazia, che Montale sa di non potere ascendere.
La figura del colle, anzi, non è mai presente nella poetica montaliana. Il paesaggio arido e desertico corrisponde alla reale situazione spirituale dell’animo del poeta, “gettato in un mondo” su cui incombe una crepitante desolazione.
 Per poter scorgere Dio il poeta tenta  di arrampicarsi sul sicomoro.
Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
per vedere il Signore se mai passi,
Ahimè, non sono un rampicante ed anche
stando in punta di piedi non l’ho mai visto
( Come Zaccheo- composta nel 1970 e compresa nella Silloge “Diario del ’71 e del ’72”).
Il poeta, che dice di non aver mai visto Dio, è sempre mosso da un’incessante ricerca del divino. Dal vuoto e  dal nulla, alla maniera leopardiana, tende all’infinito, dal limite all’illimitato.
E l’infinito per un poeta non può che essere compreso nella parola poetica, luce-rivelazione, secondo la lezione ungarettiana. E nella luce-rivelazione non solo prenderà corpo la figura di Clizia, ma la “parola” stessa diventerà l’unica  possibile ontologia dell’Essere.
Siamo vicini al concetto espresso da Ungaretti, che nella metafora del sole rinviene la grazia, che per gli uomini si concretizza non nelle parole, ma nella parola assoluta, che è quella poetica e che si traduce come l’unico ed autentico atto conoscitivo dell’uomo  nel mondo.
Come Dante Montale intende conferire alla parola poetica il suo primario significato: riscoprire la cifra di Dio superando il mondo babelico del linguaggio, causa di confusione e di  incomprensione tra gli uomini.
Se dio è linguaggio, l’uno che ne creò tanti altri,
per poi confonderli
come faremo a interpellarlo e come
credere che ha parlato e parlerà
per sempre indecifrabile e questo è
 meglio che nulla. Certo
meglio che nulla siamo
 noi fermi alle balbuzie. E guai se un giorno
 le voci si sciogliessero. Il linguaggio,
sia il nulla o non  lo sia,
ha le sue astuzie.
(La lingua di Dio-1971- da Diario del ’71 e del ’72)
Si direbbe che Montale attraverso il concetto del dio-linguaggio voglia tendere ad esprimere l’ineffabile della poesia, rappresentato nella sua produzione poetica precedente dall’evento miracolistico di Clizia, circonfusa da  ombre e luci.
La scoperta del linguaggio coincide per Montale come per Dante colla  ricerca della verità. Ancora una volta Montale sembra ammonirci che le parole dei poeti, se non lo sono oggi, domani potrebbero essere parole di fede.
Alla falsità del linguaggio preferisce il silenzio, da considerare, certamente come il poeta ci ha detto in un brano, che abbiamo già ricordato come momento di“riflessione”ed “accumulazione” prodromico all’inverarsi della parola autentica della poesia.
Nell’attesa forse il poeta non potrà che balbettare qualche parola, ma dalla “balbuzie” potrà scaturire una parola autentica e non falsa, così come dai barlumi di luce che guizzano intorno alla figura di Clizia in modo informe  si potrà avanzare l’ipotesi della grazia e della ricerca del mondo metafisico. Comprendiamo, pertanto, che l’interrogativo posto da Montale, nel discorso pronunciato, in occasione del conferimento del premio Nobel, a Stoccolma nel 1975 “E’ ancora possibile la poesia?” è per noi messaggio di fede. Ma in che ? Certamente nella poesia, che ha come suo fulcro la condizione umana. Beatrice e Clizia, allora, non saranno solo figure-simbolo dei due poeti, ma potranno continuare a parlarci. Ne intuiremo il messaggio nel tempo ed al di là del tempo, anche se in contesti storico-spirituali diversi, perché la loro voce, pur distinguendosi nettamente, vibra all’unisono accordandosi in una  nota fondamentale, che è quella  propria ed autentica della poesia.

 

Il reale e l’immaginario-Il ri-uso del mito. L.Pirandello ” I Giganti della montagna”

Il reale e l’immaginario – Il ri – uso del mito – (L.Pirandello “I Giganti della montagna”)
Interpretazioni – definizioni del mito
Carro di Tespi
Dalla “Favola dl figlio cambiato” all’interno dei “Giganti della montagna” alla rappresentazione idilliaca della natura evocata tra realtà ed immaginazione.
Dalla “favola “e dal “mito” in Pirandello agli archetipi letterari: Teocrito – Virgilio
ITINERARI STRUTTURALI
Mito – Natura.
Dalla civilizzazione alla natura primigenia
Mito collettivo. (Implicazione storico- sociale)
Area di coscienza individuale (esperienze del vissuto)
SOGGETTIVA (delusioni – sogni)
Angoscia esistenziale
Tempo – Natura – Spazio-
– Immaginario-
Valori base – Natura
Religione – Arte
Spazio (interiore-esteriore)
Ricerca di ricostruire all’interno la Disarmonia (‘900)
Modo di rappresentare
Il mito RI – USO
Mito oggi Mondo rappresentato
Per analogia Simbolo
Segno (sistema di segni)
Linguaggio poetico
Universo – lirico – (onirico)
Lingua – Arte – Mito – Religione
L’uomo non è a contatto con le cose, ma interroga le cose.
Regressione (dalla res al simbolo)
Strumenti usati dall’uomo
Rappresentazione analogico-simbolica
Stato d’animo (area della coscienza individuale)
Timori – Sogni – Speranze – Delusioni
“ Non le cose, ma le opinioni, le fantasie che stanno intorno alle cose interessano ”.( Epitteto )
Mitologia: ha la sua ragione di essere, così come accanto al linguaggio concettuale esiste il linguaggio poetico.
Definizioni
Simbolo- (Cassirer):”Capacità di astrazione che l’uomo ha di fronte all’esperienza.”
Leo Marx.- “un simbolo culturale è un’immagine che veicola un significato particolare, pensiero e sentimento ad un largo numero di coloro che fruiscono di una cultura”. L’attenzione di Leo Marx si focalizza sull’immaginario collettivo.

Definizione di simbolo secondo gli studiosi di psicoanalisi.
Modo di rappresentazione diretta e figurata di un’idea, di un desiderio inconscio, di un conflitto.
Relazione fra simbolo e segno
Simbolo (definizione dizionario filosofico di A. Lalande) “ciò che rappresenta un’altra cosa in virtù di una rappresentazione analogica. Ogni segno concreto che evoca in virtù di un rapporto “naturale” qualcosa di assente o che non è possibile percepire sensorialmente o razionalmente.”
(N. Abbagnano) “Qualsiasi oggetto od evento usato come richiamo di oggetto ed evento.”
La funzione espressiva del linguaggio e quella semantica coincidono. Il soggetto percepisce gli oggetti esterni come partecipi di una totalità e coglie negli affetti il suo stesso stato d’animo.
Mito ieri e oggi
“Le allegorie sono, nel regno nel pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose”(Benjamin).
Mito
Dal greco – (parola-discorso).
Prima definizione – Platone – Repubblica 3,392 –“ tutti i racconti sugli dei, sugli esseri divini, sugli eroi e sulle discese al mondo”.
Con lo sviluppo della filosofia greca, che assegna al logos le prerogative del discorso, il mito viene relegato nella sfera del pre-razionale.

Mito nell’antichità
Un vero e proprio linguaggio – un sistema di segni che agiscono su piani semantici diversi e acquistano significato solo all’interno delle loro molteplici relazioni con l’intento di rappresentare le cose di una realtà antichissima talora primigenia, che si riflette sulla vicenda umana. In tal senso il mito può essere inteso come conoscenza.

Mito, linguaggio, letteratura
I miti di oggi
Si possono compendiare con “forme” di permanenza del mito entro l’apparato culturale delle società evolute, sue funzioni, rapporti con l’attività letteraria,analogia con le cose.
Il mito e le realtà
Il reale e l’immaginario
Il rapporto con il reale è sempre presente nel mito.
. Il reale ha avuto il sopravvento sull’ideale, sull’immaginario?
L’opera sembra volere lasciare aperto questo dilemma, e pur nella negatività del tragico epilogo, forse lancia un messaggio alle generazioni del primo novecento; la possibilità di recuperare nel reale l’immaginario, nell’esistenziale quotidiano la luce rivelatrice e consolatrice dell’arte. Allora Ilse non sarà morta e l’immaginario collettivo sarà la “voce” della poesia che vive nel tempo in una società di uomini, che non saranno più pastori erranti, ma che scopriranno la loro autenticità e il loro Essere, dopo avere spezzato la maschera che li avviluppa, ritornando al flusso incandescente della vita, che, come scrive lo stesso Pirandello nella Trappola, è all’origine della vita.Differenza tra i miti originari e i miti di oggi.
I miti originari procedono nel senso di un progressivo avvicinamento alle radici del reale (cfr. Dialoghi di Platone ) e si pongono come forze che reggono il mondo.
I miti di oggi risentono dell’angoscia esistenziale dell’uomo contemporaneo, della lacerazione tra l“io” e il “cosmo”, della dimensione del dubbio nell’ “esistere temporale e metatemporale ” e pertanto si configurano come un allontanamento intenzionale dalla realtà (cfr. Discorsi di Cotrone in “ Giganti della Montagna ”), un intenzionale occultamento (intenzionalità- vedi Husserl ed Heidegger) di quanto ci circonda, a cui si sostituisce una serie fittizia di immagini e di valori simbolici. (rappresentazioni della Villa in “Giganti della Montagna ”).
La permanenza del mito, dice Godelier, “ si iscrive di diritto nella storia ideologica delle società che li produce”; “la falsa coscienza” in questi casi si iscrive nel rapporto immaginario degli uomini con le loro condizioni esistenziali creando un diaframma culturale che non esiste; il che non è avvertito nei “miti primitivi” che sembrano derivare direttamente dall’esperienza del mondo naturale.
In “ Giganti della Montagna ”, invero, dalla contrapposizione al reale nasce l’immaginario, (a Cotrone non interessa la ragione, ma la fantasia, il sogno).
I sogni sembrano translucidare il reale, la cui angosciosa presenza si fa sentire nell’animo dei personaggi che anelano al sogno, all’illusione.
Emblema di un reale storico sono senz’altro i Giganti “nuovi ammassatori di ricchezze” che non comprendono l’arte.
Simbolo di un’ arte vissuta nel dolore e che chiede di esistere nella sua rappresentazione è Ilse. Ma il sogno- arte-verità-personaggio –Ilse- si frantuma e la sua stessa morte potrebbe configurarsi come la morte dell’arte.Il reale ha avuto il sopravvento sull’ideale, sull’immaginario?
L’opera sembra volere lasciare aperto questo dilemma, e pur nella negatività del tragico epilogo, forse lancia un messaggio alle generazioni del primo novecento; la possibilità di recuperare nel reale l’immaginario, nell’esistenziale quotidiano la luce rivelatrice e consolatrice dell’arte. Allora Ilse non sarà morta e l’immaginario collettivo sarà la “voce” della poesia che vive nel tempo in una società di uomini, che non saranno più pastori erranti, ma che scopriranno la loro autenticità e il loro Essere, dopo avere spezzato la maschera che li avviluppa, ritornando al flusso incandescente della vita, che, come scrive lo stesso Pirandello nella Trappola, è all’origine della vita.
Interpretazioni – definizioni del mito, (percorso storico).
La prima definizione nell’arte del mito è quella tentata da Aristotele – (mito, racconto mimetico che imita le azioni serie) – in cui si realizza l’attività poetica dell’epica e della tragedia. Per Aristotele l’attività poetica, fatta di miti, si muove sui piani del verosimile ed è superiore all’attività storica che rimane legata al particolare.
Con gli Alessandrini i miti si sviluppano, vengono reinventati e spesso servono a spiegare le cause remote in una situazione presente (funzione eziologica) o per abbellire il racconto (funzione estetica).
Il mito permane con Epicuro in Grecia e con Lucrezio in Roma, nonostante la presenza del materialismo storico, in quanto viene presentato come proiezione immaginaria della storia dell’uomo, dei suoi desideri e delle sue paure. Il reale (horror vacui) si configura anche per intenzionale distanza con l’immaginario. È questo il caso dei Giganti della Montagna.
Il linguaggio del mito per la sua stessa natura è polisemico, organizzato in agglomerati di immagini, disposti intorno ad una nozione (contesto reale/immaginario) o ad un personaggio come Cotrone nei “ Giganti della Montagna ” che si muove su diversi piani semantici e che dà vita a corrispondenze plurime di significati.
Si procede per metafore e per linguaggio analogico. Nell’Ottocento lo studio sul mito si pone su basi filologiche. Alla fine del secolo e nei primi del ‘900 il mito si fa sempre più vicino al reale e all’esistente dell’individuo. Il mito, infatti, viene contestualizzato nell’universo psichico-fisiologico di singoli individui, e le figure del mito,come nel caso di Cotrone, in “ Giganti della Montagna ”, rivivono come fantasmi nel mondo dei sogni del singolo oppure si muovono in una dimensione extraindividuale, connotando gli archetipi dell’inconscio collettivo (gli Scalognati della Villa detta “La Scalogna ” in “Giganti della Montagna”.
CARRO DI TESPI

CAMPI SEMANTICI
CARRETTO DI LEGNO
– tragedia (capelli rossi come sangue di tragedia) –
pag. 1240 rigo 10 CROTONE

“Nuda, sciocco! Su un carretto di legno coi seni all’aria e i capelli rossi come sangue di tragedia”.
Riferimenti CLASSICI = Carro di Tespi
( -M. Untersteneir- Le origini delle tragedia del tragico”-ed.Einaudi 1955 )
Secondo Untersteiner il mondo attraverso cui si muove la tragedia è un mondo dominato dall’angoscia derivante dalla contrapposizione del mondo umano con quello sovrumano. Nell’età classica il mondo degli dei è totalmente diverso da quello degli uomini ed è proprio all’apparire di questi contrasti che si afferma l’attività poetica di Tespi, che si data attorno al 547 a.C.- Questa come nel caso dei “Giganti della Montagna ”, emblematizza il contrasto dialettico dei miti appresi nell’età antica con i problemi della vita e dell’esistente. La necessità che muove Tespi a far rivivere e a divulgare nel popolo questa nuova realtà drammatica, che sospingeva l’uomo tra ideale e reale, tra vissuto ed immaginario, è la medesima che anima la figura di Ilse. Infatti, pur nella differenziazione di connotazioni storico-culturali epocalmente lontane, sia nel teatro di Tespi, che in Pirandello urge l’esigenza che l’arte viva come un grande problema radicato nell’esistenza.
Invero, così come il problema del pirandellismo creò polemiche al suo tempo, anche la storia di Tespi non ne fu aliena, se prestiamo attenzione alla narrazione che ci fa Plutarco ( Solon 29 ) e che ci riferisce che al tempo in cui Tespi e i suoi seguaci davano nuova vita alla “tragedia” nel popolo, senza che vi fossero le gare avvenute in tempo successivo, Solone assistette una volta allo spettacolo.
Alla fine Solone chiese a Tespi se non aveva vergogna a rappresentare così enormi finzioni davanti a un pubblico così vasto e Tespi rispose che non aveva nessuna vergogna e che la fantasia era necessaria a sostenere azioni inventate. L’aneddoto ci induce a riflettere sul significato del fantastico, dell’immaginario, che si origina dal reale stesso e che viene recepito dal pubblico, anche se spesso viene criticato dalle ragioni politico-istuzionali del tempo. Il che evidenzia, nel dramma di Tespi, come in quello di Pirandello, un diaframma tra l’Essere e l’Esistente, tra l’idea, rappresentata dal simbolo nella trasfigurazione fantastica e la necessarietà di “forme” cristallizzate nel vivere sociale, spesso assai distanti ovvero in contrapposizione con quella genuina e spontanea forza creatrice della Natura.
Sia per quanto riguarda Tespi che Pirandello possiamo affermare un concetto fondamentale riferibile all’assunto del nostro discorso sul reale e l’immaginario. La fantasia riveste di forme i miti a somiglianza umana. Così potremmo capire la figura di Ilse, l’idea personificata della tragedia, i cui stessi capelli sono rossi come sangue di tragedia. Un riferimento al Carro di Tespi lo troviamo in Orazio “Ars poetica” (w.275.sgg).
“Ignotum tragicae genus invenisse Camenae dicitur et plauistris vexisse poemata Thespis quae canerent agerentque peruncti faecibus ora”.
Si dice che Tespi abbia inventato il genere ignoto della tragica Camena e che abbia trasferito sui carri i poemi per cantarli e rappresentarli e tinti di mosto il viso.
Oltre al “vexisse plaustris” (trasferire sui carri) è importante rilevare che riferendosi a “poemata” Orazio dice “canerent agerentque”. Il che esplicita che i “poemata” non debbono essere soltanto cantati, ma rappresentati in quanto relazionabil con gli uomini e con il loro vissuto.
Dalla “Favola del figlio cambiato” all’interno dei “Giganti della Montagna” alla rappresentazione idilliaca della natura evocata tra realtà ed immaginazione.
“La favola del figlio cambiato” si presenta come finzione artistica, come “favola” appunto che sublima la storia in una dimensione lirica, evocata da un paesaggio solare, nel quale l’uomo scopre la sua autenticità e le radici del suo Essere. Invero il richiamo alla “Favola del figlio cambiato” all’interno dei “Giganti della Montagna” ha con l’opera una connessione intrinseca che oltrepassa i valori formali di una semplice citazione intertestuale dell’opera pirandelliana. Se, infatti, è nella rivisitazione della natura incontaminata, nel suo perenne fluire e divenire che Pirandello celebra la ritrovata bellezza del mondo, il senso del mistero, del dialogo, della vicenda dell’uomo in quanto uomo, possiamo dedurre che l’autore nell’ultimo momento della sua produzione non poteva che affidarsi ad un realismo magico, profondamente sentito dagli uomini, che con personale coerenza partecipano della creazione della storia, del flusso incandescente di vita che è all’origine del mondo. Pertanto reale ed immaginario si librano nella concezione estetica. L’autore volge il suo sguardo attento ed appassionato al dramma umano che coinvolge nella storia i suoi personaggi, creature di dolore, che chiedono il loro riscatto o nella sublimazione del “mito” di tipo simbolico-allegorico o nella determinata volontà di “essere” se non nella vita, nella rappresentazione scenica ad opera dell’arte, che in quanto prioritaria alla vita stessa nell’autore spesso si traduce in un atto di fede nella fantasia, che può essere soltanto rapportato al mondo della poesia. Invero, leggendo “I GIGANTI DELLA MONTAGNA”, sembra che Pirandello si sia posto si sia posto questa domanda. La fantasia dovrà miserabilmente naufragare davanti ai mostri dell’industria, della scienza e cedere al terribile volto dell’inumano? Pirandello, allora, tende a ricostruire nel segno dell’arte la frammentarietà dell’Essere, e la “maschera umana” spezzata attraverso la poesia non immemore, però, della tragicità dell’esistenza umana. Opportunamente, infatti, opina il De Castris. “E’ questa precisamente questa, l’ideale conclusione della storia di Pirandello nel fallimento della sua candida illusione d’una consolazione, d’un capovolgimento mistico della tragedia dell’uomo; è il segno autentico del suo destino di poeta”. Pirandello intuisce che al limite della fuga mistica e della consolazione ermetica, si sarebbe forse salvata la poesia, non l’umanità nella sua ricerca; si scavava anzi il baratro tra l’umanità imbarbarita e irregimentata del suo tempo (i servi fanatici della vita) e l’isolamento aristocratico dell’arte (i servi fanatici dell’arte). Pirandello, invero, voleva affermare un’arte che, per quanto sconsolata fosse la visione del mondo; non aveva mai dimenticato la fatica dell’uomo, il senso della ricerca di un mondo migliore, la pena del “suo involontario soggiorno nella terra”. Ed è proprio per dare un senso ed al contempo una volontà all’esistenza che Pirandello cerca di trasferirsi in un mondo, che ci appare dominato da un volontarismo mistico, in cui sembra inverarsi un miracolo, che non consiste nella rappresentazione reale del vissuto dei personaggi, ma nella forza creatrice della fantasia, per cui quei personaggi sono “nati vivi”. Si comprende allora come reale e immaginario si identificano nella poiesi artistica. Favola, realtà, sogno, illusione, disillusione intessono la trama della Welthascauung di Pirandello uomo e poeta. Lo stesso Cotrone nell’opera che stiamo trattando ci appare sospeso al limite tra la favola e la realtà. “Le cose che ci stanno attorno parlano. Gli angeli possono come niente cadere in mezzo a noi, e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore”. Le parole di Cotrone ci ammoniscono a considerare la poesia come l’unico miracolo del mondo e ci fanno meditare che la sua conquista non può avvenire se non tornando alle fresche sorgenti della vita che rampollano nel grembo della terra. Non è questo, forse, il significato simbolico-lirico che anima la Favola del figlio cambiato, di cui ora ci apprestiamo a discutere? Considereremo pertanto, la favola come nucleo ideativo-poetico dei “Giganti della Montagna” e comprenderemo il motivo per cui la rappresentazione dell’opera (l’opera di un poeta) “un prodigio che si appaghi di sé, senza chiedere niente a nessuno”. (Cotrone) rappresenta il destino e la vita di Ilse.
La favola del figlio cambiato –
– Elementi figurali – scenici – simbolo poetico.
– Paesaggio lirico e linguaggio poetico.
La prima scena è costituita dal telone nero. Domina la figura della madre, che chiama a testimoni del suo dramma le donne, che sono investite dal vento e “si torcono e gridano e lamentano”. Alla fine della prima parte svoltasi tutta sul fondo nero, il riflettore ad un tratto si spegne al grido disperato della madre. Elementi surrealistici vengono misti a componenti del teatro del grottesco, mentre la tensione lirico-drammatica, vibrante del dolore materno si fa sempre più intensa e si ripropone più accentuatamente nella seconda fase, dove luci e colori scarni, elementari invadono la scena: il colore freddo e quasi incolore della pietra rustica del camino, il verde chiaro della cassapanca e il panno rosso; “tutto il resto è nero”. Del tutto realistica ci appare la rappresentazione della terza parte dell’opera ambientata in uno spazio ben definito.: un caffè del posto. L’ambiente è fatto regredire criticamente e ironicamente ad un livello naturalistico, ad una zona sottoborghese, su cui spiccano i due fantocci grotteschi e disumani, le maschere nude di Figlio di re e della regina. Ma proprio nelle ultime due parti della Favola la scena resta in ombra e tutto si incentra sul testo. Scompare il realismo e prevale l’immaginario; il mondo incantato e magico della Sicilia ha La prima scena è costituita dal telone nero. Domina la figura della madre, che chiama a testimoni del suo dramma le donne, che sono investite dal vento e “si torcono e gridano e lamentano”. Alla fine della prima parte svoltasi tutta sul fondo nero, il riflettore ad un tratto si spegne al grido disperato della madre. Elementi surrealistici vengono misti a componenti del teatro del grottesco, mentre la tensione lirico-drammatica, vibrante del dolore materno si fa sempre più intensa e si ripropone più accentuatamente nella seconda fase, dove luci e colori scarni, elementari invadono la scena: il colore freddo e quasi incolore della pietra rustica del camino, il verde chiaro della cassapanca e il panno rosso; “tutto il resto è nero”. Del tutto realistica ci appare la rappresentazione della terza parte dell’opera ambientata in uno spazio ben definito.: un caffè del posto. L’ambiente è fatto regredire criticamente e ironicamente ad un livello naturalistico, ad una zona sottoborghese, su cui spiccano i due fantocci grotteschi e disumani, le maschere nude di Figlio di re e della regina. Ma proprio nelle ultime due parti della Favola la scena resta in ombra e tutto si incentra sul testo. Scompare il realismo e prevale l’immaginario; il mondo incantato e magico della Sicilia h La prima scena è costituita dal telone nero. Domina la figura della madre, che chiama a testimoni del suo dramma le donne, che sono investite dal vento e “si torcono e gridano e lamentano”. Alla fine della prima parte svoltasi tutta sul fondo nero, il riflettore ad un tratto si spegne al grido disperato della madre. Elementi surrealistici vengono misti a componenti del teatro del grottesco, mentre la tensione lirico-drammatica, vibrante del dolore materno si fa sempre più intensa e si ripropone più accentuatamente nella seconda fase, dove luci e colori scarni, elementari invadono la scena: il colore freddo e quasi incolore della pietra rustica del camino, il verde chiaro della cassapanca e il panno rosso; “tutto il resto è nero”. Del tutto realistica ci appare la rappresentazione della terza parte dell’opera ambientata in uno spazio ben definito.: un caffè del posto. L’ambiente è fatto regredire criticamente e ironicamente ad un livello naturalistico, ad una zona sottoborghese, su cui spiccano i due fantocci grotteschi e disumani, le maschere nude di Figlio di re e della regina. Ma proprio nelle ultime due parti della Favola la scena resta in ombra e tutto si incentra sul testo. Scompare il realismo e prevale l’immaginario; il mondo incantato e magico della Sicilia ha fatto scoprire al principe la sua vera identità. Le scene finali, dopo un avvio figurativo, si snodano su un nucleo lirico-fantastico, che oltre a delineare l’inebriante paesaggio solare, riconduce il giovane alla conquista di una dimensione di umanità vera. E’ questo il messaggio di Pirandello, che attraverso il mondo fantastico della poesia trascende dal reale all’immaginario e questo immaginario, però, non si presenta come fittizio artifizio, ma anzi è al contempo la ragione stessa della poesia e la rivelazionedella veridicità dell’esistenza. Il paesaggio, infatti, come è rappresentato, non è elemento meramente naturalistico, ma assume una significazione assai profonda di “luce” dell’anima e soprattutto di verità. Così infatti esclamerà il principe: “Io ora la so/ la mia verità/ Ero piccolo qua/ con questa madre/ nato a questo sole/ povero, ma che importa? Con questo amore di madre/ e questo cielo e questo mare/ e la salute e la gioia/ di vivere la mia, la “mia” vera vita per me”. E’ assai significativo il ripetersi dell’aggettivo “mia” correlato a” vita” e rinforzato alla fine col pronome “per me”. La magia del paesaggio mediterraneo ha fatto rifluire nel principe la linfa vitale e la stessa tensione surreale si carica di una simbologia lirica, che è l’unica a comprendere la “vita vera”
Analogo è il modo, con cui Cotrone rappresenta “i fantasmi” creati nel “suo mondo” per figurarsi una realtà, nella quale gli è possibile continuare a vivere.
E come nei “Giganti della Montagna” l’aspetto favolistico immaginario si può interpretare interrelandolo con il reale e/o in contrapposizione a questo.
La solarità della natura come nel caso della Favola del Figlio cambiato, ovvero la luminosità di fantasmi, le voci maliose e misteriose di entità sovrumane, i sogni, la musica, tutto che è negli uomini, gli incanti che Cotrone vede “sorgere da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che restano scomposti negli occhi dal troppo sole dell’isola”, sono da considerare il paradigma dell’arte pirandelliana e la condizione chiaroscurale espressa nei Giganti Ombra/Sole emblematizza chiaramente la problematica esistenziale di Pirandello: la ricerca di una verità-rivelazione – luce che tuttavia non dimentica – l’ombra – buio – dubbio e assai spesso falsità – “maschera” del vivere stesso. In tal senso sia le parole del principe come quelle di Cotrone possono essere interpretate anche in chiave sociologico-antropologica. Si può infatti concepire nei segni linguistici dei due personaggi una contrapposizione alle forme sociali e all’ipocrisia di convenienza che possono essere dissolte soltanto nella quiete inebriante di una natura piena di sole. Per questo opportunamente congettura il Lugnani che la favola collocata tra i due miti precedenti e i Giganti della Montagna è destinata a simboleggiare nell’ultimo tronco della vita del poeta, la dimensione di un lirico volontarismo, che, aggiungiamo noi, vorrebbe inoltre significare il ritorno alla forma primigenia e vera della vita.
Dalla “favola” e dal “mito” in Pirandello agli archetipi letterari: Teocrito – Virgilio

Che il mondo della natura con la sua solarità sia il fulcro ideale-poetico su cui si evolve l’ultima poetica pirandelliana è stato oggetto della nostra precedente argomentazione. A tal punto appare opportuno rifarci agli archetipi letterarari che trovano rispondenza nella produzione pirandelliana, con riferimento in ispecie al “mito” e all’idillio. Come Pirandello, infatti, anche Teocrito trae ispirazione per la sua poesia bucolica da un paesaggio mediterraneo. Invero, entro una cornice agreste in cui si effonde il senso panico della natura, vivono i personaggi teocritei. Nelle Talisie (id. VII), infatti, come nella favola pirandelliana alla fine prevale la dimensione lirico-simbolica del paesaggio. La cornice agreste nell’ardore e nel rigoglio fecondo dell’estate di un paesaggio mediterraneo si armonizza con il discorso poetico di Licida e Simichida, imperniato sulla tradizione bucolica. Reale ed immaginario, come nell’opera pirandelliana si intersecano e la libertà fantastica riesce a trasfigurare la materia erudita, pur presente nell’idillio in una creazione puramente artistica. In questa ottica si inserisce anche la ritualità pagana, da cui si origina l’intitolazione dell’idillio. Talisie – deriva dal verbo greco “thallo” – fiorire, essere rigoglioso ed è un termine connotante la festa del raccolto in onore di Demetra e sembra acquistare un senso profondo della religione della natura.
È proprio dal tripudio della natura, che Teocrito come Pirandello, sia pure con itinerari ideologico-estetici naturalmente del tutto diversi, approda al trionfo della poesia. Il mondo della natura, inteso come gioia di vivere, ebbrezza dell’anima si armonizza col canto pastorale. Gli stessi Licida e Simichida, anche se assumono la maschera della simulazione bucolica, non aliena da erudizione, sembrano volersi nell’idillio trasferire nelle regioni superiori di una poesia, che identificandosi con la vivezza di una natura primigenia e feconda, tende ad approdare al vero. Nel contesto delle Talisie, infatti, è esplicito il richiamo al mondo della natura, che si contrappone a quello della città. Significativa è invero, l’apostrofe che Licida fa a Simichida (vv.21-25): “dove trai sul mezzogiorno i piedi, quando anche la lucertola dorme nei muriccioli e neppure le allodole capellute amiche delle tombe vanno girovagando?”.
Si delinea chiaramente in questo brano il contrasto tra città-campagna e l’avversione per dirla con locuzione pirandelliana, per questi antichi “giganti della montagna”, ammassatori di ricchezza e costruttori che Simichida stesso dice di disprezzare (w.45 sgg.) “poiché a me è fortemente antipatico un architetto il quale dice di voler costruire un edificio in cima dell’Orodomonte”. Simichida, invece, rifugge dal mondo opulento della città e si appresta a celebrare le Talisie e in quell’aria trasognata di festa agreste intende intonare con Licida il canto dei pastori. Natura e canto dell’anima tra realtà ed immaginazione, diventano i connotatori di un modo autentico di sentire la vita; la lirica trasposizione del reale nell’immaginario sarà l’origine dell’ispirazione poetica e la conquista del vero. In tal senso possiamo interpretare i w. 42-43, con cui Licida, rivolgendosi a Simichida dice “Il mio bastone ti dono poiché sei tutto formato sulla verità”.
Il bastone donato da Licida a Simichida ha senz’altro il simbolo dell’investitura poetica e la motivazione “poiché sei tutto formato sulla verità” emblematizza la significazione di una poesia, la cui centralità si fonda sulla natura stessa alimentatrice e rivelatrice del “vero”. Si coglie, pertanto, un’analogia con i presupposti estetici espressi da Pirandello nella “Favola del figlio cambiato” ed in “I Giganti della montagna”. L’identità poesia-vita e la concezione di un’arte prioritaria alla vita stessa e riconducente all’autenticità e all’origine dell’Essere, sono alla base della poetica teocritea come di quella pirandelliana.
Possiamo addurre ad esemplificazione comparativa le parole del principe nella “Favola del figlio cambiato”, quando proprio l’incanto della natura gli infonde “gioia e salute” e poi gli rivela la “vera vita”, così come le suggestioni di Cotrone che inventa la realtà nel momento stesso in cui “l’anima resta grande come l’aria, piena di sole”. L’interscambio tra fisica e metafisica, tra reale ed immaginario, l’interconnessione tra tempo e spazio dentro di noi e fuori di noi sono in Teocrito come in Pirandello i momenti fondanti ed ispiratori della poesia, che è protesa, come dirà Heidegger, alla ricerca dell’Essere.
Un altro aspetto che mi pare di potere rapportare ad una tematica pirandelliana si può desumere dalla lettura dei w. 45 e sgg. Il poeta, infatti, subito dopo avere detto che non aveva a cuore quei costruttori che vogliono costruire case come montagne, deride “i poveri uccelli” che “gracchiando pretendono di gareggiare con il cantore di Chio”. Il poeta mostra pieno rispetto per Omero, ma in pari tempo rifiuta di seguirlo perché sarebbe un’impresa impossibile. Il che riconduce alle annotazioni di Stefano Pirandello, che su suggerimenti del genitore morente, critica parimenti i “servi fanatici della vita” e i “servi fanatici dell’arte” che si appagano dei propri sogni senza trasmetterli agli uomini.
La stessa Ilse, in fondo, è il simbolo di un sogno inappagato identificabile con la sua stessa esistenza. Pur se nel contesto teocriteo non possiamo notare assolutamente la tragedia esistenziale del personaggio pirandelliano, possiamo, tuttavia, recepire un messaggio che è comune ai due autori tanto distanti nel tempo: le difficoltà dei poeti a comunicare con gli uomini, affaccendati a costruire beni materiali e la necessità di adattare la poesia, non su modelli preesistenti, anche se di indiscusso valore, ma di viverla nel reale e nell’esistente per trasfigurarla nell’allegoria simbolica, che è propria dell’arte teocritea, sia pure nei limiti di una letterarietà di tradizione bucolica. Reale ed immaginario intessono la complessa problematica pirandelliana con ampie implicazioni di tematiche tragico-esistenziali.

Virgilio
Collegato al mondo teocriteo è senz’altro l’idillio virgiliano. Anche nell’idillio virgiliano rivive un’atmosfera trasognata che tende a ttrasferirsi in un mondo irreale, immaginario. In effetti, come in Teocrito e in Pirandello, il paesaggio virgiliano più che una realtà geografica è l’espressione di uno stato d’animo e la stessa contemplazione della natura diventa una proiezione nel mondo della storia. Nella contemperazione tra reale ed ideale, tra materia storica e immaginazione è importante sottolineare i nuovi orizzonti spirituali che l’età augustea aveva proposto: una nuova visione dell’uomo nei confronti del cosmo, una nuova interpretazione dello stoicismo e dell’epicureismo che implicavano una profonda e pensosa significazione religiosa del rapporto uomo-storia, uomo-natura. Si comprende allora come Virgilio abbia elaborato il ri-uso del mito per adottarlo alle esigenze più profonde del suo sentire di uomo e di poeta. Parimenti, ma con tendenze ideologiche ed esiti artistici necessariamente differenti e riferibili a mondi culturalmente e storicamente assai distanti, Pirandello nel ri-uso del mito nella Favola del Figlio Cambiato e nei Giganti della Montagna, compendierà trasfigurando il reale nell’immaginario tutto l’itinerario del suo vissuto relazionandolo con la possibilità di una concezione poetica, che dia un senso al non senso, un Essere al non Essere.
Quella di Pirandello, invero, anche nel momento conclusivo della sua opera si presenta all’uomo come un dilemma che appare irrisolto. Ilse muore dileggiata e soppressa dai servi che non comprendono la sua poesia, mentre Virgilio ci parla di un Nume presente, che ammonisce l’uomo al “labor” e al culto di una nuova società che raccordava l’uomo con la natura. “Deus nobis otia fecit”, così dice Virgilio nella prima egloga e, il “deus”, si identifica con il “theòs eurghetès” esiodeo, che muove il lavoro dei campi, ma che al contempo riconduce l’uomo ad uno stato di primigenia felicità immergendolo nel mondo autentico della natura.
Il “deus” è certo assente nell’opera pirandelliana, ovvero il Tigher suppone, può essere intravisto nel momento della ricerca interiore del Pirandello; ma l’immanentismo di elementi sovrannaturali, fantastici, compresenti nel mondo naturale ed in quello interiore dell’uomo vibra e nelle parole virgiliane come in quelle pirandelliane; in fondo, entrambi gli autori ricercano nell’arte l’essenza del vivere stesso in momenti di dubbi e perplessità. Il Virgilio, che visse “sotto gli dei falsi e bugiardi” protende verso un “numen” che parla all’uomo e che suggerisce proprio con le voci e i suoni stessi della natura una nuova concezione del mondo, che il dio ci offre come “otium”, che sublimato nell’ideale immaginario, riteniamo di intendere con una connotazione contemplativa filosofica di tipo catestematico. Come Virgilio anche Pirandello, tenta pertanto nel rifugio nella natura non solo un momento di evasione, ma l’ascolto del palpito vivo, incessante, inarrestabile che affratella tutti gli uomini, che circola nel cosmo e che ci riconduce alla “nostra vera vita”. Il cammino dei due poeti ha per logiche esistenziali e per percorsi formativo, storico-culturali esiti artistici e problematiche diverse, ma un elemento accomuna i due poeti: il pathos della natura, la capacità di intuirne la sua forza misteriosa e genuina e il suo contrapporsi con l’esistente reale storico.
Ci appare significativo a tal punto a livello esemplificativo citare l’anafora contenuta nella I egloga “nos patriae fines et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus” che contrapponiamo in forma antinomica, quasi a delineare il limite tra reale ed immaginario con le parole seguenti: “tu Tityre, lentus in umbra/ formosam resonare doces Amaryllide silvas”.
I primi versi si riferiscono ad una realtà storica vissuta dal poeta: l’abbandono delle terre (dulcia arva) e dei confini della patria. Ma subito incalza l’immaginario che viene sublimato sul mondo puro e incontaminato della natura in una dimensione simbolico-lirica, analoga per qualche aspetto a quella pirandelliana.
Infatti nell’antinomia “tu lentus in umbra” notiamo l’atteggiamento elegiaco, pensoso di chi intende vivere assaporandola questa intensità del vivere autentico, che prende le stesse connotazioni del mondo naturale. Il “lentus” può essere inteso come atteggiamento pensoso e può essere speculare al verso “silvestrem tenui meditaris avenam”. Anche il verbo “meditaris” dal greco “meletao” indica un lento paziente esercizio, che è da intendere altresì come ripiegamento dell’animo in se stesso, mentre “tenui avena” semantizza lo zufolo dei pastori e rimanda al concetto di una poesia primigenie, che definisce il vago indistinto (Senhschdt) del sentimento nel suo svelarsi e nel suo effondersi con l’anima della natura. Il fatto, poi, che Virgilio non abbia collocato l’egloga in uno spazio determinato e reale (anche qui l’antitesi: “arva” / “fines” erano circoscrivibili in un’identità definibile / ma “in umbra” ci fa capire come Virgilio volgendosi alle zone della poesia, abbia voluto elevarsi su un piano irreale, fantastico, immaginario, da correlare allo stato psicologico del poeta. È significativo che la parola “umbra” viene ricordata nell’ultimo verso “maioresque cadunt de moenibus umbrae” e fa incombere nell’animo del poeta, che aveva lamentato nei vv. 70-71 “impius haec tam culta novalia miles habebit barbarus has segetes”, mistizie (umbrae) ancora più dense (maiores), in quanto gli sarà negata la gioia della vita bucolica. Come nei versi succitati la parola “umbra” si identifica con lo stato d’animo, ma mentre questi ultimi sono interrelati con un reale storico e pertanto ci appaiono più drammatici ed incombenti, come viene sottolineato anche al verbo “cadunt” e sono soggetto stesso dell’angoscia del poeta, nel campo semantico riferito a Titiro “Tu lentus in umbra” c’è da rivelare che l’“umbra” è da considerare come un “locus” tanto ameno quanto immaginario nel quale è possibile elevare la voce poetica e farla evocare dalle selve.
Alla parola “umbra” si giustappone formosam riferita ad Amarillide e a “silvas”. I due accusativi sostenuti dalla funzione verbale “doces resonare” acquistano una semantica non solo grammaticale, ma figurale-espressiva di particolare rilievo e che sono da rapportare anche ad alcune connotazioni idilliche del paesaggio, “inventato” nella trama dell’immaginario di Cotrone nei “Giganti della Montagna”.
In particolar modo diciamo che “doces resonare” è un “apax” nella letteratura latina. Infatti qui il poeta con “doces” (tu insegni) affida al poeta il grande compito di insegnare anche alle selve di risonare del nome della bella Amarillide. Segno, questo, che la voce dell’anima del poeta è quella stessa della natura, con la quale si confonde e vive in unisono realizzando così non solo il canto poetico, ma con la magia, propria, della poesia comunicando con le cose. Da un momento silenzioso “in umbra” il poeta fa vibrare la sua voce nelle cose e con le cose, egli stesso, insegna alle selve, a “resonare”; particolare significato assume il verbo “resonare” di forma intensiva – (ripetere il suono) – quasi che la natura stessa ripeta la sua “voce” di sempre negletta dagli uomini intenti solo al particolare e all’utile quotidiano, ed ora rivisitata e destata dal canto del poeta. A livello figurale, poi, possiamo osservare le contrapposizioni tra Umbra – resonare – formasam – Amarillide. Infatti, se giusta la tesi del Calogero, possiamo decodificare puntualmente un testo, attraverso la semantica etimologica: all’opacità dell’umbra, si contrappone Amarillide, che con derivazione dal greco “amarusso”,vuol dire effondere luce,mentre “ formosam,” con derivazione metatetica dal greco ”morfè” vuol significare anche bellezza – armonia -.
Ci accorgiamo, allora, che oltre ad un’innovativa concezione dell’arte, non ignota a Pirandello e che si propone come “susseguente la voce possente della natura” appaiono i simboli ombra – (buio – dubbio) luce (rivelazione) presenti anche in Pirandello dei Giganti della Montagna avvolti in un panismo lirico, che per l’agrigentino assume le connotazioni di un’allegorica rappresentazione dell’uomo e del mondo nella sua ultima produzione.
A livello esemplificativo e con particolare riguardo alle figure Ombra – Luce, riportiamo alcune frasi di Cotrone contestualizzate nell’opera citata. Quando Ilse, infatti chiede a Cotrone “lei inventa la verità?”. Cotrone così risponde – “tutte quelle verità che la coscienza rifiuta, le faccio venire innanzi dal secreto dei sensi….. Mi provo ora qua a dissolverli in fantasmi OMBRE che passano….Mi impegno di sfumare sotto diffusi chiarori anche la realtà di fuori, versando come in fiocchi di nubi colorati, l’anima dentro la notte di sogni”. Più innanzi dirà che l’anima resta piena di sole e di nuvole.

FIGURAZIONE OMBRA – LUCE
E’ chiaro che nell’allegoria pirandelliana sono presenti plurime connotazioni semantiche riferibili a diverse forme del sentire e che il linguaggio pirandelliano polisemico presenta talora toni drammatici ed angoscianti non presenti nell’idillio virgiliano, improntato alla compostezza e al nitore di stampo classico, ma una profonda relazione possiamo coglierla tra il poeta latino e quello agrigentino: la tensione lirica librata tra reale e immaginario nell’indagare nella “fabula” della natura le ragioni mitico-esistenziali del nostro vivere e del suo tradursi nel regno dell’arte..