LABORATORIO DI SCRITTURA ITALIANA

LABORATORIO DI SCRITTURA ITALIANA
Università degli Studi di Palermo
Facoltà di Lettere e Filosofia
INTRODUZIONE AL CORSO
Dagli anni’80 ad oggi molti studiosi si sono interessati al problema della lingua ed, in particolare della scrittura , nell’ambito scolastico ed in quello delle università. Significativi sono al riguardo gli apporti di eminenti teorici del campo, quali Tullio De Mauro e Raffaele De Simone.
Obiettivo comune di queste ricerche è quello di promuovere negli studenti, oltre al miglioramento delle competenze linguistiche ” la sicura conoscenza pratica, orale, scritta della comunicazione nella lingua nazionale” (Guida allo studente-Facoltà di Lettere e Filosofia-Pisa-ed.Plus-2002-p.32)-Modelli di scrittura, presentati con applicazione didattica, sono stati altresì affrontati dagli studi di Hayes. Al problema della scrittura, incentrando l’attenzione in particolare sulla tesi di laurea, volge la sua attenzione U.Eco ( U. Eco” Come si fa una tesi di laurea- Milano- Bompiani- 1980) E’ da menzionare in tempi recenti il manuale curato da F. Bruno e Tommaso Raso, ( Manuale dell’italiano professionale- Bologna Zanichelli 2002 ),”che si muove fra l’inquadramento teorico degli argomenti centrali nell’insegnamento della scrittura ( la coerenza, gli atti linguistici, i connettivi, la retorica) e un percorso didattico di riferimento passando per l’analisi di molteplici tipologie testuali” (D.Pietrangalla- L’italiano scritto- Manuale di didattica per laboratori di scrittura- ed. Rubettino – 2005-pag.11).
Questi principi intendo perseguire nello svolgimento del corso.
Si proporranno, infatti,molteplici analisi testuali per poi trasferirle, prevalentemente in forma argomentativa, nella produzione scritta.
A livello di strategia didattica privilegerò l’aspetto dialogico al fine di creare, ancora prima della produzione scritta, con gli studenti uno spazio parlante, in cui i testi non saranno letti, ma come opportunamente ammonisce R. Barhes, saranno interrogati.
L’ “interrogazione”ai testi, svolta in forma complementare da docente e studenti, sarà da considerare momento prodromico alla scrittura, che dovrà essere coesa, ma prevalentemente autonoma ed autentica. La libertà del pensiero e dell’interpretazione, sia pure supportata da idonee tecniche e da chiarezza di idee e da conseguente organicità logica, sarà un obiettivo irrinunciabile. La scrittura,oggi, infatti sul piano formativo non deve essere imbrigliata nelle strettoie di una “Appendix Probi,” ma deve comprendere un linguaggio plurivoco, confacente al mondo di oggi ,che è globalizzato. E se la borghesia , sino a qualche tempo fà, indulgeva a forme di scrittura stilata “sub specie rhethoricae” oggi, invece si tende a forme più immediate ed autentiche di comunicazione.
L’ educazione alla scrittura dovrà tendere a formare il giovane a pensare liberamente, avere una testa, che non sia colma di nozioni inutili, ma “una testa ben fatta”, come arguisce Edgar Morin.
Saper leggere i testi, saper leggere il reale produrrà nei giovani il senso critico, che sarà di poi tutto a vantaggio della produzione scritta.
La rivoluzione “copernicana”, cui oggi assistiamo nell’ambito della rivisitazione della lettura del reale e nell’area della comunicazione , deve trovare un suo possibile approdo anche attraverso una scrittura,
che educhi l’individuo all’autonomia di pensiero, alla libertà delle scelte.
Come opportunamente osserva D.Corno in “Vent’anni di scrittura tra teoria e pratica, a scuola e all’università” -” La pratica della scrittura implica scrivere “testi a partire dai testi”, come capita in più occasioni non solo della vita scolastica, ma soprattutto della vita quotidiana e professionale.”
Si definisce in tal modo il nesso scrittura-vita ( si ricordi la bella pagina di Svevo- La letturalizzazione della vita-)
La scrittura assume in tal modo una valenza cognitiva di primaria importanza e si rapporta ai processi metacognitivi. Scrive P. Boccoli in (Metacognizione ed educazione diretta da N. Cesa-Bianchi- Franco Angeli ed. Milano 1998 a pag. 199-200) ” Secondo l’approccio cognitivista, produrre un testo scritto , richiede un’attività complessa di problem solving
(soluzione del problema) finalizzata al raggiungimento di un obiettivo comunicativo : spiegare, raccontare, convincere. La complessità è dovuta al fatto che chi scrive deve tener simultaneamente conto di molteplici aspetti : in termini metacognitivi deve esercitarsi in più forme di controllo.”
In aggiunta al processo,indicato da Hayes e Flower ( pianificazione, trascrizione, revisione), lo studioso insiste sul fatto che nel modello di scrittura sussiste ” un’ esplicita caratterizzazione metacognitiva, che è data dalla funzione monitor, che controlla la relazione tra le tre fasi……….genera idee, stili di scrittura individuali…..garantisce l’unitarietà di scrittura.”
Complessità della conoscenza e metacognitività nel processo scrittorio
sono, quindi, da considerare componenti coessenziali e necessarie per una scrittura autonoma ed organica, non impaludata da orpelli retorici, che hanno inficiato tanta parte della nostra comunicazione letteraria e non,ma che oggi appaiono del tutto desueti, anzi nocivi.

ELEMENTI DI SCRITTURA

RIASSUNTO- PARAFRASI- NUCLEI TEMATICI
Il processo di sintesi è fondamentale nel laboratorio di scrittura perché consente di trattare e pianificare informazioni. Possiamo riferirci al riassunto di un brano di prosa e/o di un racconto o romanzo, alla comprensione di una lirica (parafrasi), all’enunciazione dei nuclei tematici di un testo di storia, filosofia e/o di critica. Nella sintesi devono essere presenti gli aspetti e le caratteristiche fondanti attraverso i quali si snoda il discorso da produrre in forma scritta. Nell’esposizione si deve tenere conto della rilevanza delle informazioni acquisite e della loro successione in ordine logico-compositivo. Alla coerenza logica deve corrispondere la linearità espressiva e l’organizzazione d’idee e concetti in una sintassi corretta. Facendo ricorso altresì ad un appropriato uso dei connettivi la forma espressiva deve essere, oltre che corretta, semplice ed immediata.
Testo argomentativo
Il testo argomentativo è per sua natura complesso in quanto comprende il concetto di problematizzazione. Il testo argomentativo, infatti, mira a dimostrare una tesi e deve essere sostenuto da validità di prove (materiale letterari, storici, critici di diversa tipologia etc……), riferibili all’oggetto della trattazione e selezionate con discernimento critico. L’uso di detti materiali, che diventano competenze conoscitive di chi scrive, devono essere riproposti nel tessuto espositivo con coerenza logica e con pertinenza di strumenti linguistici.
Nel testo argomentativo, infine, possiamo decifrare alcuni elementi fondamentali ed irrinunciabili: il punto di vista (focus), la tesi, gli argomenti, la contrargomentazione, la conclusione (coda), che deve rifarsi al punto di vista (focus), capo del corpus di scrittura.
È opportuno, prima della stesura definitiva, formalizzare una ragionata scaletta da seguire oculatamente nel processo scrittorio.

Articolo

La parola articolo deriva dal latino articulum (nodo, giuntura, articolazione). Nel linguaggio giornalistico la parola assume il significato di parte di un giornale o di una rivista dedicata ad un argomento specifico. Possiamo distinguere tanti tipi di articoli: l’articolo di giornale (detto talvolta anche pezzo in quanto facente parte di un insieme complesso), l’articolo centrale, posto in prima pagina, ma che può continuare all’interno e che contiene il fatto del giorno e che viene altresì denominato articolo di fondo evidenziato in epigrafe dal titolo, dall’occhiello e dal sottotitolo. L’articolo, che assume il secondo posto per rilevanza informativa, si chiama articolo di spalla ed in genere viene collocato a destra. Gli articoli di cronaca possono avere varia tipologia (politica, giudiziaria, economica, sportiva).
In ogni manuale giornalistico per la scrittura di un articolo si rimanda alla legge delle cinque W (who, what, when, where, why) che in inglese traducono le cinque domande. chi, che cosa, quando, dove, perché?
Questa norma si segue in genere pedissequamente quando si tratta di stendere un trafiletto di poche righe, mentre per un articolo di carattere argomentativo l’estensore può servirsi di forme più complesse di scrittura. Qualunque sia la tipologia dell’articolo, tuttavia, si raccomanda l’essenzialità nell’uso dei mezzi linguistici congiuntamente ad una linearità sintattica.
È più congeniale, infatti, all’articolo la paratassi al posto dell’ipotassi. I periodi brevi, come pure la chiarezza del linguaggio, rendono più agevole ed invitante la lettura.
Preminente preoccupazione, invero, dell’autore di un articolo dovrà essere rivolta allo specifico pubblico, cui il testo scritto è demandato.
Ne consegue che i connotatori di un articolo di quotidiano si differenziano dalle peculiarità di quello inserito in una rivista specializzata indirizzata a soggetti lettori evoluti nelle competenze e nella decodificazione testuale.
Il saggio breve
Cercando nel dizionario Devoti-Oli la parola “saggio” troviamo questa definizione: “Esposizione scritta che intende proporsi come il frutto dello studio e dell’approfondimento personale di un tema delimitato di carattere storico, biografico o critico con uno sviluppo massimo che può giungere sino alla monografia. ”
La puntuale definizione degli autori del noto vocabolario è rivolta nella fattispecie al saggio inteso in senso classico e che ha costituito le risultanze di ampie indagini critiche sviluppati da studiosi nello specifico delle loro aeree di competenze.
Fatta salva quest’accezione oggi dobbiamo considerare che anche nell’ambito scolastico ed in quello giornalistico si dà sempre maggiore spazio al concetto di saggio breve. Opportunamente annota Tullio De Mauro: “Osserviamo che il significato di saggio (quello riportato dai vocabolari) è distinto da quello di saggio come prova per l’accertamento della qualità e della proprietà di qualcosa e anche assaggio, prova dimostrativa (dare saggio di sé e simili)”..
Lo studioso precisa, inoltre, che oggi per saggio ci riferiamo piuttosto all’etimo tardo-latino” exagium” “peso”da collegare al verbo “exigere” ” pesare, esaminare
In effetti, seguendo l’interpretazione di De Mauro, possiamo affermare che il saggio, cui oggi è stato aggiunto l’aggettivo breve, nell’ottica didattica ed in quella di tipo giornalistica è un assaggio di un lavoro di dimensioni più ampie strumentale per valutare le abilità di discernimento di chi scrive su un argomento attraverso l’esame dei materiali, che ha a disposizione ovvero tramite la dimostrazione di una tesi personale, esposta con coerenza argomentativa.
Invero oggi, nella strategia di un’educazione alla scrittura, si privilegia nell’ambito dell’istruzione secondaria e persino nelle università la trattazione del saggio breve, che, con riguardo alla vita accademica, è per lo studente propositiva alla stesura della tesi conclusiva di laurea.
Consideriamo, pertanto, il saggio breve prodromico a forme d’indagine più evolute e conseguentemente instrumentum irrinunciabile per i processi scrittori, ma anche in questo caso non ne abbiamo definito compiutamente il concetto, in quanto al tempo odierno con saggio breve intendiamo anche qualcosa che, slegato dai vincoli accademici, si lega ai costumi, ai modi di vivere, agli aspetti valoriali della nostra società e all’esistenzialità dell’uomo contemporaneo.
L’autore in tal caso fa uso di una scrittura creativa, non vincolata da schematismi particolari, ed in genere alloca il suo scritto nelle colonne di un giornale d’alto livello. Lo testimonia Pier Paolo Pasolini, autore di appassionati saggi sul costume degli Italiani nel Corriere della Sera.
Tuttora il suo esempio è seguito dalle più illustri firme del giornalismo italiano ed europeo.
Nella storia europea il primo a trattare con sottile spirito critico, ma scevro da ogni accadessimo, temi filosofici, morali, della cultura del suo tempo è stato Michel de Montaigne, autore di una sua opera Essais (Saggi).
Pregresso quanto innanzi e, nel rispetto che ogni tipologia di saggio breve comporta nella sua fase ideativa ed in quella strutturale-compositiva, per esigenze didattiche puntualizziamo alcuni aspetti nodali del saggio breve e le sue fondamentali peculiarità.
La prima domanda che deve porsi l’estensore di un saggio breve è:
• Dove e perché si scrive il saggio breve (rapporto mittente- destinatario)
• Si tratta di una rivista specializzata?
• Di un giornale a larga diffusione nazionale?
• Di un giornale di provincia a diffusione locale?
• Di una consegna proposta in sede di esame di maturità?
• Di una consegna proposta nell’ambito di un’attività accademica e/o nel Laboratorio di scrittura italiana?
In tutti questi casi gli elementi costitutivi del saggio breve devono essere:
• Puntualizzazione dell’argomento
• Forma /modalità comunicativa (riferibile alla tipologia del saggio)
• Spazio disponibile (assolutamente necessario per i giornali ovvero se indicato nella consegna del saggio sottoposto all’estensore del medesimo)
• Tempo disponibile (viene indicato nella consegna)
• Documentazione disponibile (nel campo giornalistico può essere sostituito da elementi pragmatici (derivanti dalla lettura dei fatti ovvero dall’argomentazioni talora correlate da controargomentazioni dell’autore.)
Ci pare opportuno adesso soffermarci sulla stesura del saggio breve, oggi in uso nelle scuole secondarie, ritenuto di grande rilevanza negli esami di maturità e riproposto nell’ambito accademico ed in particolare nel Laboratorio di scrittura italiana.
Precipua importanza si attribuisce ai fini della stesura del saggio breve alla selezione del materiale a disposizione. Nel caso occorrente allo studente maturando il materiale viene fornito al momento della consegna, in quello riguardante lo studente universitario ci si riferisce ad un percorso di studi e di approfondimenti svolti nell’ambito del corso seguito.
In entrambi i casi è assolutamente necessario cogliere con discernimento critico il fulcro tematico ed i nuclei ideativo-concettuali funzionali alla tesi da dimostrare.
Per una sintassi compositiva organica nasce l’esigenza della scaletta, che aiuta a decidere quali siano le informazioni indispensabili, quali quelle secondarie e/o controargomentative.
La scaletta, inoltre, è funzionale all’ordine logico-cronologico, che deve informare il testo in forma coesa, dall’introduzione alla conclusione.
Il testo, infatti, deve comprendere:
• Introduzione (esposizione del problema di cui trattasi)
• La sua storia (il suo significato, il focus problematico)
• Dove ? Quando? ( Rapporto Tempo- Spazio in senso storico)
• Come? ( le modalità e le strategie critiche adottate per la dimostrazione della tesi proposta)
• Esemplificazione (exempla dedotti da materiali critici o da loci testuali pertinenti)
• Introduzione di un giudizio personale.
• Ricorso ai materiali già utilizzati a sostegno della propria tesi precorrenti la conclusione
• Conclusione : deve rifarsi all’introduzione con riguardo a:
• Alla collocazione nel tempo storico ( hic et nunc)
• Alla dimensione storica metatemporale (messaggio) [id temporis]
I registri linguistici, che si consigliano sempre chiari e lineari, devono essere correlati alla res argomentativa, che, qualora lo richieda, deve avvalersi di codici e sottocodici linguistici specifici
Il testo alla fine dovrà presentarsi
• Coerente con la traccia
• Coeso al suo interno e logicamente ordinato
• Completo dal punto di vista dell’argomentazione
• Formalmente corretto
• Adeguato dal punto di vista lessicale all’argomento trattato.
La trattazione di un saggio breve, anche se deve rispettare in linea di massima le norme suesposte, può avere nel suo sviluppo, in virtù variegata tipologia dell’argomento, una sua flessibilità e pluralità di modi espressivo-compositivi. Si parla, pertanto, di uno schema, cosiddetto flessibile, che si affianca allo schema rigido praticato in particolar modo nel mondo giornalistico. Ed è appunto, per chi voglia affacciarsi a questa dimensione comunicazionale, che riteniamo producente sottoppore tale tipologia, che si esplica nei termini che ci apprestiamo a chiarire e che ci conducono a questa intitolazione: il saggio breve in cinque capoversi.
Al fine di illustrare questo principio chiariamo che il saggio breve in cinque capoversi è un testo informativo/argomentativo a struttura rigida che può essere impiegato quale modello per testi più complessi. Nella sua forma tipica è costituito da cinque segmenti (capoversi) unitari dal punto linguistico,contenutistico, collegati tra loro da frasi-transizione e raccolti in tre sezioni: introduzione, corpo del testo e conclusione. Mentre l’introduzione e la conclusione sono costituite da un capoverso ciascuna, il corpo del testo ne raccoglie tre.
L’introduzione ha il compito fondamentale di presentare l’argomento, oggetto di trattazione, di chiarire quale sia il fine comunicativo dello scrivente e di anticipare la struttura del testo; i tre capoversi del corpo hanno il compito di sviluppare l’argomento in maniera conforme a quanto anticipato nell’introduzione, mentre la conclusione risponde al fine di riepilogare le conclusioni svolte nel corpo del testo.
Lo schema è il seguente:
• Introduzione (1 solo capoverso)
• Corpo del testo (3 capoversi)
• Conclusione (1 capoverso)
L’introduzione

L’introduzione risponde a più scopi, tra i quali quelli fondamentali sono:.
• a) introdurre il lettore nel testo, stimolandone l’attenzione
• b) indicare l’argomento di cui si parla
• c) chiarire, nel caso di un testo argomentativo, quale sia l’opinione sostenuta
• d)i fornire un’essenzialissima esposizione del testo (blueprint)
• e) introdurre i paragrafi successivi magari con una frase di transizione.
Il capoverso introduttivo si articola pertanto secondo questo schema.
Introduzione, tesa ad interessare il lettore
Presentazione dell’argomento
Presentazione del fine comunicativo
Esposizione della tesi
Presentazione schematica della struttura del testo
Aggancio ai paragrafi successivi.

Il corpo del testo
Il corpo del testo si articola, come abbiamo detto, in tre capoversi. Ogni capoverso, che costituisce l’unità informativo-testuale di base nel saggio breve, ha di norma la medesima struttura .
Una frase-chiave (topic sentence) che costituisce il nucleo informativo-argomentativo del testo e che spesso ne anticipa il messaggio (primo capoverso)
Più frasi in cui si forniscono al lettore informazioni, argomentazioni, controargomentazioni, a supporto della tesi enunciata. Ci troviamo al momento in cui la res argomentativa si sviluppa e prende forma e peso il textus. Di conseguenza per un processo scrittorio esauriente occorre strutturare in forma coesa due capoversi. In effetti abbiamo dato vita al corpo del testo e dobbiamo volgerci alla conclusione. E’ opportuno,allora, che alla fine del terzo capoverso si enunci una frase di transizione che conduce con coerenza logica alla conclusione.

La conclusione
In un testo informativo/argomentativo la conclusione include in genere:
Una ripresa dell’enunciato, con il quale si presentava l’oggetto del discorso
Una ripresa delle informazioni, argomentazioni, controargomentazioni, prove dedotte da materiali di studio e/o da fonti pragmatiche.
Un segmento conclusivo, che indichi il termine del discorso e che deve collegarsi all’introduzione del testo.

La recensione
Cercando la parola recensione nel Dizionario Devoto-Oli leggiamo: 1.Articolo di giornale o di rivista, inteso a illustrare e a giudicare criticamente uno scritto o uno spettacolo, una mostra, un concerto recente e di attualità. 2. In filologia la restituzione di un testo alla lezione, che si presume esatta attraverso la tradizione scritta .
Le sue accezioni sono completamente diverse, ma per proseguire il nostro discorso all’interno del Laboratorio di scrittura italiana, dobbiamo prendere in considerazione soltanto il primo significato del termine.
La parola recensione deriva dal latino “recensio-recensionis”, dal verbo” recensere” “esaminare”.
La recensione ha tipologia analoga a quella dell’articolo e serve ad illustrare e criticare un testo e/o un evento.
L’estensore di una recensione, nel momento di produrla, deve tener presenti queste componenti
a) dove e per chi si scrive la recensione
b) il soggetto da recensire (il focus del testo)
c) quali sono le caratteristiche interne, testuali, dell’argomento da recensire
d) in quale contenitore editoriale (quotidiano, riviste, tv) deve essere inserita la recensione
e) a quale pubblico si rivolge.
Le strategie di scrittura della recensione assumono tre diversificate denominazioni:
1. testo descrittivo
2. testo espositivo
3. testo argomentativo
Nel testo descrittivo vengono rappresentate le caratteristiche esterne di un romanzo, di un film e/o di un prodotto / evento senza proporre un giudizio personale o interpretativo.
Nel testo espositivo l’autore indulge a trattare le caratteristiche interne dell’opera (ad esempio, nel caso di un romanzo puntualizzerà i tratti salienti della trama, nel caso di un film le sequenze più significative, i fondamentali aspetti scenografici, la rappresentatività delle azioni nelle rappresentazioni teatrali e così via).
La stesura di un testo argomentativo,invece, oltre ad una precisa esposizione di dati/ eventi ,relati al testo e/o evento, deve comprendere un giudizio critico coerente alle sequenze espositive.
È d’uopo precisare che in ogni caso all’inizio di ogni recensione bisogna includere i dati materiali, che consentono l’identificazione del testo e/o dell’evento con estrema precisione. ( per es. nel caso di un libro si deve indicare. autore, titolo, editore, anno di pubblicazione, prezzo).
Per quanto attiene alla parte espositiva occorre che l’autore curi l’aspetto riassuntivo dell’argomento trattato colle stesse modalità indicate ed “infra” contestualizzate nel paragrafo : Riassunto-Parafrasi- Nuclei Tematici.
Se l’autore, infine, intende dare alla recensione anche un contenuto critico, con connotazione argomentativa, bisogna perseguire le stesse norme intrinseche al testo argomentativo ed al saggio breve, intercalando nelle singole unità narrative valutazioni ermeneutiche, che preparano il giudizio finale e che, come nel caso delle altre tipologie testuali, deve essere strutturato in forma coesa negli itinerari discorsivi dall’inizio alla conclusione.
PERCORSO N.1
Il primo percorso tratta “Il lavoro minorile ieri ed oggi”
La scelta dell’argomento ha una valenza plurivoca. Invero la tematica in oggetto presenta varie implicanze nell’ambito della saggistica ed in quello meramente letterario da Verga a Pirandello, a Dickens, a Zola.Inoltre può essere propositivo di una trattazione (saggio breve, testo argomentativo,recensione) a carattere socio-antropologico. La res argomentativa, inoltre, prendendo le mosse dal contesto storico dell’800, adduce al concetto di attualizzazione (uno dei principi cardini della metodologia che il corso intende perseguire) nel panorama della globalizzazione vigente nella società contemporanea,
Vengono prodotti infra documenti relati all’argomento proposto ed un testo poetico di Salvatore Quasimodo Lamento per il Sud.
La presenza del testo poetico è riferibile all’esigenza peculiare,che il corso si prefigge e che si traduce nell’esigenza oggi sentita più che mai, di interpretare i testi di carattere narrativo,storico, documentali, meramente letterari e poetici con processi oltre che cognitivi meta cognitivi riflettenti il concetto di complessità del sapere, enucleato da Edgard Morin, innanzi citato.
E’ fondamentale che il principio di complessità del sapere trovi il suo sviluppo, anzi oserei dire un suo proprio inveramento nel processo scrittorio.
A livello didattico è da precisare che testi narrativi e testi poetici devono essere decodificati ed interpretati con forme di strategie diversificate. Ad hoc vengono riportate infra per ragioni didattiche
1.Griglia di analisi di testi narrativi
2.Griglia di analisi si testi poetici
TRACCIA TEMATICA
Lo studente, utilizzando la documentazione prodotta e le sue conoscenze nell’ambito storico-culturale e nello specifico letterario, argomenti la trattazione proposta in forma si saggio breve e/o testo argomentativo e//o articolo, con riguardo alle strategie apprese durante lo svolgimento del corso.
DOCUMENTI
IL LAVORO MINORILE NELL”800
Il problema sociale del lavoro minorile venne affrontato dal Parlamento italiano, per la prima volta, intorno al 1880, da parte dei governi della Destra storica. Infatti, veniva proposto un progetto di legge per la riduzione dell’orario di lavoro dei minorenni (allora il lavoro dei minori era permesso e i ragazzi lavoravano sino a quattordici ore al giorno. Qui sotto riportiamo un frammento dell’Inchiesta in Sicilia di L.Franchetti – S.Sonnino, uno dei documenti che cercò di sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto gli uomini politici di quell’epoca, sul problema dello sfruttamento di bambini e adolescenti nell’Italia post¬unitaria; in particolare in questo brano viene posta l’attenzione sul lavoro dei ragazzi, i “carusi”, nelle miniere siciliane, una questione secolare per questa regione.« Il lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena del minerale in sacchi o ceste dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, fino al luogo dove all’aria aperta si fa la basterella delle casse dei diversi picconieri, prima di riempire il calcarone. È sempre il picconiere che pensa a provvedere i ragazzi necessari per eseguire il trasporto del minerale da lui scavato, fino a dove si formano le casse. Ogni picconiere impiega in media da 2 a 4 ragazzi. Questi ragazzi, detti carusi, s’impiegano dai 7 anni in su; il maggior numero conta dagli 8 agli i l anni. I fanciulli lavorano sotto terra da 8 a 10 ore al giorno dovendo fare un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalla galleria di escavazione fino alla basterella che viene formata all’aria aperta. I ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano da 11 a 12 ore. Il carico varia secondo l’età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute, e senza pericolo di storpiarsi. I più piccoli portano sulle spalle, incredibile a dirsi, un peso da 25 a 30 chili; e quelli di sedici a diciotto anni fino a 70 e 80 chili.

Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni è di lire 0,50, i più piccoli e deboli lire 0,35; i ragazzi più grandi, di sedici e diciotto anni, guadagnano circa lire 1,50, e talvolta anche lire 2 e 2,50. La vista dei fanciulli di tenera età, curvi e ansanti sotto i carichi di minerale, muoverebbe a pietà, anzi all’ira, perfino l’animo del più sviscerato adoratore delle armonie economiche.
Vedemmo una schiera di questi carusi che usciva dalla bocca di una galleria dove la temperatura era caldissima; faceva circa 40° Réaumur( 50 gradi centigradi). Nudi affatto, grondando sudore, e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, dopo essersi arrampicati su, in quella temperatura caldissima, per una salita di un centinaio di metri sotto terra, quei corpicini stanchi ed estenuati uscivano all’aria aperta, dove dovevano percorrere un’altra cinquantina di metri, esposti a un vento gelido. Altre schiere di fanciulli lavoravano all’aria aperta trasportando il minerale dalla bastarella al calcarone. Là dei lavoratori riempivano le ceste e le caricavano sui ragazzi, che correndo le traevano alla bocca del calcarone, dove un altro operaio li sorvegliava, gridando a questo, spingendo quello, dando ogni tanto una sferzata a chi si muoveva più lento.
LAVORO MINORILE NEL MONDO DI OGGI
È facile incontrarli in Brasile, in Nepal, nelle Filippine. Ancora più facile in India e nel Bangladesh.
Ma non è neppure difficile trovarli molto più vicino. A casa nostra. I bambini che lavorano in Italia sono circa 400 mila e, a dispetto dei luoghi comuni,non sono solo nascosti nel Sud più povero, ma anche nel Nord-Est più opulento, dove il primo comandamento è fare i soldi, altrimenti non sei nessuno.Potrebbero essercene nel capannone alla periferia della vostra città, nel retrobottega di un artigiano del centro, nella cucina del ristorante di prestigio, nello scantinato del palazzo di fronte.Prima Campania, seconda Sicilia, terza Puglia, quarta Lombardia. E’ questa la testa della classifica della vergogna, quella – per regioni – del lavoro minorile. Sono 227 mila i bambini che lavorano nel Sud, 141 mila quelli del Nord, stima la Cgil. Il numero delle bambine si avvicina molto a quello dei bambini: 175 mila contro 200 mila circa. Nel Mezzogiorno i bambini lavorano per conto terzi, nel Centro-Nord più che altro nelle microimprese familiari.
Ed è qui, paradossalmente, che sono più sfruttati: lavorano più ore e più spesso nelle fasce orarie cosiddette “insalubri”, prima delle sette dei mattino, dopo le otto di sera. Viceversa i bambini del Sud cominciano a lavorare più presto: i casi di minori che cominciano a lavorare a 7-8 anni si trovano in Campania e Puglia, non in Lombardia. “Lavoro e lavori minorili” è il titolo della prima inchiesta condotta in un Paese industrializzato sul lavoro minorile (i197 per cento del campione ha un’età tra gli 11 e i 14 anni). L’ha voluta fortemente la Cgil che vi ha dedicato un convegno tenutosi a Roma il 7 Novembre. Era stato Sergio Cofferati, un paio di anni fa, in occasione di un suo viaggio in India, a lanciare il primo allarme. “Guardate che i bambini lavoratori ci sono anche da noi”, disse. Ora sappiamo chi sono, dove sono e che cosa fanno. Aggiustano, controllano, assistono, lavano, puliscono, o comunque non svolgono mai mansioni particolari. Quattro su dieci guadagnano meno di 200 mila lire al mese. Soltanto il quattro per cento va sopra il milione, i baby ricchi. È un fenomeno della modernità, non dell’arretratezza. Molti hanno abbandonato la scuola, ma molti altri sono studenti-lavoratori in pantaloni corti. È il caso dei cinesi. Basta chiedere agli insegnanti: gli scolari – lavoratori sono quelli che si addormentano con la testa sul banco. E hanno tutti gli occhi a mandorla. Accade questo: la notte lavorano per are nelle cantine davanti alla macchina da cucire, non appena si addormentano il guardiano provvede a svegliarli. Se non è la miseria materiale (“devo aiutare papà e mamma”, dice buona parte dei 600 bambini interpellati dai ricercatori), la causa del lavoro minorile è la miseria culturale (“la scuola è tempo perso, i soldi mi servono per farmi il telefonino”, ribatte un secondo gruppo). Di chi è la colpa? La ricerca della Cgil individua tre colpevoli: la famiglia, il territorio, la scuola. (Da un lato i bambini che lavorano sono completamente schiacciati dal modello culturale imposto loro dalla famiglia -dice Anna Teselli – dall’altro non trovano aiuto nella scuola. Abbiamo incontrato direttori scolastici che ragionano in questo modo: quel bambino è meglio se va a lavorare, qui è soltanto di disturbo”. È la vecchia storia del bambino “troppo vivace”.

La necessità di lavoro deprofessionalizzato a costo quasi zero delle imprese del sommerso gioca un ruolo decisivo anche per il futuro dei bvambini-schiavi Che tipo di lavoratori saranno nei prossimi anni? E’ facile prevederlo: lavoratori marginali, precari, nuovamente sfruttati. Se non si interviene la loro vita sarà sempre un calvario. E’ un salto indietro di 250 anni. Non è il 2000, ma l’era della prima rivoluzione industriale in Inghilterra.Da un la to c’è il rutilante mondo della new economy, dall’altro la miniera. Non due paesi separati, ma gente che lavora pressocché gomito a gomito. Renato Soru a braccetto con Dickens e Verga. Comunque se non c’è miseria materiale, c’è miseria culturale. Dice Agostino Megale , presidente dell’Ires-Cgl.:Non si capisce come mai il Parlamento non abbia ancora approvato la legge che impone a tutti i prodotti il marchio dei diritti per certificare che non si è fatto ricorso al lavoro minorile.” I bambini si sono fermati in Senato.

TESTO POETICO

S. QUASIMODO

Da ” La Vita non è sogno”

LAMENTO PER IL SUD

La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Piú nessuno mi porterà nel Sud
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di, solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.

Griglia di analisi dei testi narrativi

A. INVENZIONE
A.1 -Trama,tempi, luoghi, contesto culturale
-come può essere riassunta brevemente la vicenda?
-in quale tempo, in quale luogo si svolge?
-quali aspetti di mentalità e di costume caratterizzano l’ambiente?
A2. Rapporto invenzione/realT
– la vicenda è verosimile? intende rispecchiare aspetti importanti di una società, di una situazione? se è inverosimile, quali riferimenti contiene alla realtà?
A3. Costruzione dei personaggi –
– in quali modi vengono presentate le caratteristiche psicologiche e sociali dei personaggi?
– quali personaggi sono visti “a tutto tondo” e quali “a piatto”?
A4. Rapporto autore/ narrazione
– a chi appartiene la “voce” che narra?
– come può essere definito il punto di vista narrativo?
– l’autore manifesta i suoi atteggiamenti e giudizi verso ciò che narra? in quali modi?
– c’è un rapporto fra il tempo dei fatti narrati e il momento in cui vengono narrati (prospettiva temporale)?
E DISPOSIZIONE
BI. Intreccio
– la narrazione segue l’ordine temporale della trama o vi introduce
manipolazioni?
– ci sono spostamenti significativi nei luoghi dell’azione?
B2. Ritratti narrativi
– come si distribuiscono descrizioni, analisi, scene, sommari, ellissi narrative? – ci sono variazioni significative nella velocità della narrazione?
B3. Il non detto e lo straniamento
– ci sono aspetti importanti della vicenda, o delle sue motivazioni, che vengono lasciati impliciti?
– ci sono effetti di straniamento?
C ELOCUZIONE
CI. Sintassi
– prevalgono periodi brevi o lunghi, semplici o complessi, la coordinazione o la subordinazione? con quale effetto?
C2. Lessico, figure retoriche
– prevalgono espressioni usuali o ricercate?
– ci sono metafore o altre figure retoriche significative?
C3. Varietà linguistiche
– il registro linguistico tende al formale o all’informale?
– ci sono effetti di lingua parlata? solo nelle battute di discorso diretto o anche nel discorso dell’autore?
– ci sono effetti di linguaggio “poetico”?
– sono presenti espressioni dialettali, o gergali, o dei linguaggi tecnici?
D. INTERPRETAZIONE E COMMENTO
Dl. Tematica e Intenzioni dell’autore
– il testo intende richiamare l’attenzione su questioni di interesse umano generale, al di là della vicenda?
– a quali scopi ha mirato sostanzialmente l’autore? (intrattenere e divertire; persuadere a un’idea, a un principio morale- far conoscere, denunciare, criticare situazioni sociali; esplorare aspetti della realtà umana; sperimentare nuove tecniche narrative; produrre un’opera bella come un fine in sé…)
D2. Contestualizzazione storica
– ricorrono nel testo indizi significativi della personalità dell’autore, della sua poetica, del contesto culturale e letterario in cui ha operato?
– ci sono elementi che caratterizzano l’originalità del testo rispetto alle consuete definizioni storico-letterarie?
D3. Attualizzazione
– per quali aspetti il testo può essere interessante e significativo per un lettore di oggi?

Griglia di analisi dei testi poetici

A. Invenzione
A1 Tematica
la poesia ha un andamento prevalentemente narrativo, o descrittivo, o espressivo di stati d’animo? Se diversi di questi aspetti sono presenti, in quali rapporti stanno fra loro?
-quale spazio rispettivo hanno sentimenti, immagini, concetti? In quali rapporti stanno fra loro? -i motivi hanno un valore simbolico?
-è implicata, e come la dimensione temporale dell’esperienza?
A.2 Realtà ed immaginazione.
-la poesia si riferisce a situazioni verosimili o ad un mondo immaginario? o fonde il reale con l’immaginario?
A.3 Le immagini, definito ed indefinito.
-predomina una visione percettiva (visiva, uditiva etc.)
-prevale una chiara scansione delle immagini o un loro avvicendarsi irrazionalmente?
B. DISPOSIZIONE
-il tema della poesia è uno e semplice, o si articola in diversi aspetti e momenti? -si ha un tono uniforme o una varietà di toni espressivi?
-si può riconoscere che armonizza diversi temi e toni?
ELOCUZIONE
C.1 Sintassi
-prevalgono periodi lunghi o brevi?
– c’è una presenza notevole di frasi nominali?
C.2 Varietà linguistiche
-il lessico è usuale o ricercato?
-come si collocano le scelte linguistiche del poeta rispetto alla lingua poetica tradizionale e ai linguaggi dell’uso comune?
C3 Figure retoriche
-quale rilievo hanno le metafore e le figure retoriche? Sono figure usuali o particolarmente originali?
-le figure servono ad arricchire il l’espressione o costituiscono la sostanza stessa del discorso? -è possibile distinguere un senso letterale e uno figurato, oppure essi sono completamente fusi?
C.4 -si riconosce la ricerca di particolari effetti sonori ottenuti con l’allitterazione e con altre “figure di parole” o comunque con l’insistenza di timbri specifici?
D. METRICA
D.1 Schema metrico
-il metro è tradizionale o libero?- come si pone il poeta rispetto alla tradizione metrica?
E. INTERPRETAZIONE E COMMENTO
E.1 Interpretazione complessiva.
– tra gli aspetti considerati, quali appaiono dominanti e caratterizzanti?
– Quale intento espressivo fondamentale si può attribuire all’autore? (esprimere uno stato d’animo, creare un’opera bella fine a se stessa, sostenere una tesi ideale o morale, continuare o contestare una tradizione letteraria.
E.2 Contestualizzazione storica
-ricorrono nel testo indizi significativi della personalità dell’autore, della sua poetica, del contesto culturale e letterario in cui ha operato?
E.3 Attualizzazione
-per quali aspetti il testo può essere significativo ed interessante per il lettore di oggi?

PERCORSO N.2

-“Lingua” e “parola” nella comunicazione letteraria contemporanea-
-La lezione del dialogo del letterato interprete del mondo e di tutto quanto l’esistente –

In questo percorso sono presenti testi di Svevo, Calvino, Ungaretti ,Montale, Quasimodo, che testimoniano gli aspetti peculiari della “letterarietà”nell’era coeva. Reputando, inoltre, che “filosofia del linguaggio” e “tematiche letterarie” sono componenti collimanti nel panorama della cultura contentmporanea, si riportano,altresì, “loci” di Lacan, Foucault, Heidegger.
TRACCIA TEMATICA
Lo studente, attraverso le sue competenze ed utilizzando la documentazione prodotta,esprima,al riguardo, in forma argomentativa,la sua opinione sulla tematica proposta

DOCUMENTI

I. SVEVO

” La letturarizzazione della vita” “Con questa data comincia per me un’era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualcosa d’importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta: la descrizione da me fatta di una parte. Certe descrizioni accatastate,messe da parte per un medico che le prescrisse. La leggo e la rileggo e m’è facile di completarla di mettere tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Com’è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche quella parte che raccontai non ne è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? non colui che visse, ma colui che descrissi. Oh! l’unica parte importante è il raccoglimento. Quando tutti comprendono con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e a studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà qual è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno uguale all’altro di fronte agli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace solo di figurare quale un numero di tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora.”( I. Svevo- Dalle confessioni di un vegliadro-4 aprile 1928-)

I. CALVINO

“Questa letteratura del labirinto gnoseologioco-culturale ……ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che è oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. D’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, da perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno e l’altro i due atteggiamenti vogliono porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e dal gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita).Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. E’ la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”(I. CALVINO-” La sfida del labirinto”- in Menabò-1962.

S. QUASIMODO

Dal “Discorso sulla poesia” in appendice al “Falso e vero verde” Mondadori 1956

“La storia delle forme come storia “della parola” non esaurisce poi anche quando fosse compiuta, la storia dei poeti. Il poeta è un altro uomo che si aggiunge agli altri uomini nel campo della cultura, ed è importante per il suo “contenuto” (ecco la grave parola) oltre che per la sua voce.Il poeta non dice, ma riassume la propria anima e la propria conoscenza e fa “esistere” questi suoi segreti, costringendoli dall’anonimo alla persona. Quali sono dunque le parole di questi poeti tra le due guerre ? Hanno essi diritto alla patria contemporanea e sono maestri, o sono pellegrini, invece osservanti operazioni di stile, categorie letterarie spente? Nessuno ci ha detto questo, e i critici cifrati (molti tra le due guerre) hanno ripetuto schemi non specifici, similitudini più che immagini di uomini. La poesia è l’uomo e quelle carte enumerate dal “gusto” sono appena un’introduzione al dramma di una parte della storia d’Italia, appunti da svolgere. La logica della fantasia, come critica, non può affrontare la poesia, perché la poesia non misura buone invenzioni, non essendo impegno della menzogna, ma della verità……………………………………………………………….La nuova generazione, dal 1945, sempre per le sue ragioni storiche ……………. reagendo alle poetiche esistenti, s’è trovata improvvisamente senza maestri apparenti per poter continuare a scrivere poesia. Esclusa la tradizione umanistica, di cui ha riconosciuto la maturità, se non l’impassibilità, ha iniziato una condizione letteraria che non potrà che suscitare meraviglia in quanti si interessano alla sorte della cultura italiana. La ricerca di un nuovo linguaggio coincide, questa volta, con una ricerca impetuosa dell’uomo: in sostanza, la costruzione dell’uomo frodato dalla guerra, quel “rifare l’uomo” a cui accennavo appunto nel 1946……………………………………..La posizione del poeta non può essere passiva nella società: egli “modifica” il mondo, abbiamo detto. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione… .

S.QUASIMODO

Da” Erato ed Apollion-1932-36 “Al tuo lume naufrago” ..

Nasco al tuo lume naufrago
sere d’acque limpide.

Di serene foglie
arde l’aria sconsolata.

Sdradicato dai vivi,
cuore provvisorio,
sono limite vano.

Il tuo dono tremendo
di parole,Signore,
sconto assiduamente.

Destami dai morti
ognuno ha perso la sua terra
e la sua donna.

Tu m’hai guardato dentro
nell’oscurità delle viscere:
nessuno ha la mia disperazione nel suo cuore:

Sono un uomo solo,
un solo inferno.-

S. QUASIMODO

Da”La vita non è sogno” 1946/48- Dialogo

“At cantu commotae Erebi de sedibus imis
umbare ibant tenues simulacraque luce carentum,”
Siamo sporchi di guerra e Orfeo brulica/
d’insetti,è bucato dai pidocchi,
e tu sei morta. L’inverno, quel peso
di ghiaccio, l’acqua, l’aria di tempesta,
furono con te/ e il tuono di eco in eco
nelle tue notti di terra. Ed ora so
che ti dovevo più forte consenso,
ma il nostro tempo è stato furia e sangue:
altri già affondavano nel fango,
avevano le mani, gli occhi disfatti,
urlavano misericordia e amore.
Ma come è sempre tardi per amare;
perdonami,dunque. Ora grido anch’io
il tuo nome in quest’ora meridiana
pigra d’ali, di corde di cicale
tese dentro le scorze dei cipressi.
Più non sappiamo dov’è la la tua sponda;
c’era un varco segnato dai poeti,
presso fonti che fumano da frane
sull’altopiano.Ma in quel luogo io vidi
da ragazzo arbusti si bacche viola,
cani da gregge e uccelli d’aria cupa
e cavalli, misteriosi animali
che vanno dietro l’uomo a testa alta
I vivi hanno perduto per sempre
la strada dei morti e stanno in disparte.

Questo silenzio è ora più tremendo
di quello che divide la tua riva
.”Ombre venivano leggere” E qui
l’Olona scorre tranquillo, non albero
si muove dal suo pozzo di radici.
O non eri Euridice? Non eri Euridice!
Euridice è viva: Euridice! Euridice!

E tu sporco ancora di guerra,Orfeo,
come il tuo cavallo, senza la sferza,
alza il capo, non trema più la terra:
urla d’amore,vinci,se vuoi, il mondo.

G. Ungaretti

Ragioni di una poesia in “Gazzetta del popolo” 1930.

” Le mie prime preoccupazioni in quegli anni del dopoguerra-e non mancavamo circostanze a farmi premura-erano tutte tese a ritrovare un ordine anche, essendo il mio mestiere quello della poesia, nel campo, dove per vocazione mi trovo più direttamente compromesso. In quegli anni, non c’era chi negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno una poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno il meglio menzionato, che non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria, a me pareva, invece una àncora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti che cantano .Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello del Petrarca, o quello di Guittone, o quello di Tasso o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza, attraverso voci così numerose e diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata.

G. Ungaretti

Sulla poesia- intervista radiofonica -1951 Nel 1951 la Radio Italiana chiese agli scrittori più noti di presentarsi a una trasmissione in cui chiarire le ragioni della propria attività letteraria fingendo di intervistare se stessi. Riproduciamo due domande e le risposte che Ungaretti si diede in quell’occasione.
Domanda: Vuole dirci, caro Ungaretti, il suo pensiero nei riguardi degli scrittori che affermano la necessità inderogabile di stabilire un equilibrio fra espressione artistica e attività sociale?
Risposta : Non sono i fatti esterni che fanno lo scrittore: è lo scrittore che giudica mediante la propria opera tali fatti, dei quali se é vero scrittore, non può mai essere determinato. Certo, per natura, ogni uomo, e lo scrittore , è nella storia e non fuori della storia; ma se uno scrittore non riesce nella propria opera ad esprimerla, la storia, e a darle l’impronta della sua personalità,è uno scrittore secondario, del quale la storia non terrà conto.Uno scrittore, un poeta, è sempre, secondo me, engagé, impegnato a fare ritrovare all’uomo le fonti della vita morale, che le strutture sociali, di qualsiasi costruzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere e a disseccare. Domanda: Quale, dunque, per concludere lo sforzo perenne della poesia? Risposta: La poesia riafferma sempre, è la sua missione, l’integrità, l’autonomia della persona umana. Se essa giungesse un giorno a vincere la sua battaglia, se arrivasse finalmente a salvare l’anima umana, se un giorno nell’unità delle fedi, il primato dello spirito venisse da tutti ammesso come regola fondamentale di ogni società, la poesia avrebbe vinto la sua battaglia, e le difficoltà morali che hanno sempre tanto tragicamente diviso l”umanità,sarebbero finalmente sciolte.

G. Ungaretti

Da “Allegria” Commiato”- Locvizza- 2 ottobre 1916

Gentile
Ettore Serra
poesia/è il mondo,
l’umanità/la propria vita
fiorita dalla parola/la limpida meraviglia
di un delirante fermento.

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

Ancora “Da “Allegria” Italia”

Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti di innesti
maturato in una serra.

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia.

E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.

Da “Il porto sepolto”

“Fratelli”-Mariano- 15 luglio 1916

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
presente alla sua fragilità

Fratelli

E. Montale

Da S. M. P. R- Il secondo mestiere- Prose e racconti con introduzione di M. Forti-Mondadori- Milano 1966

“Mi fa impressione che una sorta di millanerismo si accompagni a un sempre più diffuso confort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo della civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, e smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato, non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione”… … .. . … .. . …… … … …… … … … … … … … …… … … … …… … …… … …… … … …… … … ……… . …….. Il mondo è ancora in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per fatiscente non produca, per contraccolpo, una cultura che sia argine e riflessione. Possiamo collaborare tutti a questo futuro” (. pag. 3034)

E. Montale

” E’ ancora possibile la poesia?Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le atti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima e poi diventa spasmodico dell’attuale, dell’immediato. [ ……. In tale passaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione… … … . .. … … … … ….. . … … … …… … …… . .. …… … .. . … ……………………Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non pub essere che affermativa. Se si intende per poesia la belletristíca (produzione letteraria dilettantesca, superficiale- dal francese belles lettres ) è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci riferiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia
(.Dal discorso tenuto nel 1975 all’Accademia di Svezia durante la consegna del premio Nobel.)

E. Montale-

La lingua di Dio –

Da Diario del 71

Se dio è il linguaggio, l’Uno che ne creò tanti altri/
per poi confonderli
come faremo a interpellarlo e come
credere che ha parlato e parler
per sempre indecifrabile e questo è
/meglio che nulla. Certo
meglio che nulla siamo
noi fermi alle balbuzie. E guai se un giorno
le voci si sciogliessero. Il linguaggio
sia il nulla o non lo sia,
ha le sue astuzie

. Da Satura II-1968-

INCESPICARE

Incespicare,incepparsi
è necessario
per destare la lingua
dal suo torpore.
Ma la balbuzie non basta
e se anche fa meno rumore
è guasta lei pure .Così
bisogna rassegnarsi
a un mezzo parlare. Una volta
qualcuno parlò per intero
e fu incomprensibile.Certo
credeva di essere l’ultimo
parlante. Invece è accaduto
che tutti ancora parlano
e il mondo
da allora è muto.

LACAN

“I contenuti dell’inconscio nella loro deludente ambiguità non offrono nessuna realtà più consistente, nel soggetto che l’immediato……….Si tratta qui di quell’Essere che appare solo per il lampo di un istante, nel vuoto del verbo essere, e ho detto che pone la sua questione per il soggetto. Che vuol dire?…………………Ciò che pensa così al mio posto è un altro io?………..La sua presenza non può essere compresa che a un grado, secondo dell’alterità, che già lo situa in posizione di mediazione in rapporto al mio sdoppiamento da me stesso come da un simile.Se ho già detto che l’inconscio è il discorso dell’altro con l’A maiuscola, è per indicare l’aldilà in cui il riconoscimento del desiderio si lega al desiderio di riconoscimento.In altri termini questo altro è l’ Altro che è invocato e persino nella mia menzogna come garante della verità in cui sussiste.Nel che si osserva che è con l’apparizione del linguaggio che emerge la dimensione della verità”. ( Lacan- Scritti-Parigi 1966- pp.511 sgg.)

.Foucault
( Le parole e le cose -Un’archeologia delle scienze umane- Parigi 1966- pp.407-409)

“L’ analisi linguistica è più una percezione che una spiegazione; è in altre parole costitutiva del suo stesso soggetto. Inoltre, ecco che attraverso quest’emergere della struttura ( in quanto rapporto invariante in un insieme di elementi) il rapporto tra scienze umane e matematica viene di nuovo a schiudersi secondo una dimensione interamente nuova………………………….L’importanza della linguistica e della sua applicazione alla coscienza dell’uomo fa riapparire, nella sua insistenza enigmatica, il problema dell’essere nel linguaggio, il quale è legato, come abbiamo visto, al problema della cultura……..Attraverso un cammino assai lungo e imprevisto, siamo ricondotti nel posto indicato da Nietszche e da Mallarmè, allorché il primo aveva chiesto: “Chi parla?” e l’altro aveva veduto scintillare la risposta nella Parola stessa.

Heidegger

“L’ essere dunque , come che cos’è l’essere. esso è esso stesso…….L’Essere è ogni oltre essente ed è tuttavia all’uomo più vicino di ogni essente , sia questa una roccia , un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’essere è ciò che ci è più vicino………………………………………………Ma come si rapporta l’essere all’esistenza (se pure la domanda può essere posta in questi termini)? L’Essere, esso stesso è questo rapportarsi, in quanto esso tiene stretta a sé l’ex-sistenza nella sua essenza esistenziale, cioè statica e la raccoglie in sé come alla dimora della verità dell’essere in mezzo all’essente. Ma, poiché, l’uomo ex-sistendo viene a stabilirsi in questo rapporto, in cui l’Essere destina se stesso; mentre egli sostiene l’essere estaticamente, ossia lo prende nella sua cura, egli ignora soprattutto ciò che gli è più vicino e si attiene a quel che è di là da esso. Egli crede addirittura che quello sia il più vicino. Invece più vicino di ciò che ch’è più vicino, per il comune modo di pensare, e più lontano di quel che è più lontano, è la vicinanza stessa, ossia la verità dell’essere.Questa vicinanza si realizza essenzialmente come lo stesso linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente quel linguaggio che noi, nel caso migliore ci rappresentiamo come l’unità di formazione si suoni ( o della parola scritta) melodia e ritmo, e significazione. Noi pensiamo quella formazione del suono e la sua immagine scritta come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come la sua anima, e il corrispondente significato come lo spirito del linguaggio. pensiamo, così, il linguaggio abitualmente in corrispondenza all’essenza dell’uomo, in quanto viene rappresentato come animal rationale, ossia come l’unità di corpo-anima-spirito. Ma come nell’humanitas dell’ homo animalis resta occultata l’ex-sistenza e con questa il rapporto della della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio nasconde l’essenza storica del suo essere, per la quale il linguaggio è la casa dell’Essere, fatta dall’Essere e di esso compenetrata. Onde la sua essenza deve essere pensata in corrispondenza all’Essere, ossia come questa corrispondenza stessa, cioè come la dimora dell’essenza umana.
da ( Heidegger- ” Che cos’è la mefisica” a cura di A. Carlini- Firenze- La Nuova Italia 1979 pp 103-106)

(Per maggiori chiarimenti sui principi fondamentali della filosofia del linguaggio si rimanda al testo “Verso l’ermeneutica” presente nel sito-sez.S.I.S.S.I.S)

PERCORSO N.3

La visita di Hitler in Italia nella primavera del1938– La narrazione dell’evento attraverso la comunicazione di tipo giornalistico di I. Montanelli e la sua trasfigurazione inventivo-lirica nel componimento poetico di E. Montale “Primavera hitleriana”

TRACCIA TEMATICA

Lo studente, attraverso la lettura comparata dei due testi proposti, argomenti sulle diverse modalità di scrittura e focalizzi le diversificate forme di linguaggio e di tecniche espressive, attraverso le quali i due autori, con riferimento al medesimo evento,attuano il loro processo scrittorio Si enuclei, altresì, la valenza del messaggio,proposto nei due scritti,cogliendone, eventualmente, analogie e differenze.

DOCUMENTI

“Il treno del Fuhrer arrivò la sera 3 maggio 1938, alla stazione Ostiense la cui facciata, come quella degli edifici posti lungo il percorso dell’ospite, era stata ridipinta di fresco. La piazza davanti alla stazione fu ribattezzata, per la circostanza, con il nome di Adolfo Hitler. Schierati lungo i cinque chilometri fino al Quirinale centomila soldati formavano un cordone ininterrotto. Seimila antifascisti, o supposti tali, erano stati messi precauzionalmente in carcere, alcune centinaia di agenti bilingui del servizio di sicurezza tedesco erano stati sguinzagliati a Roma e nelle altre città ove Hitler si sarebbe recato, per garantirne la protezione. Visibilmente seccato, il Fiihrer dovette prendere posto sulla carrozza reale, trainata da sei cavalli, e scortata da corazzieri, che lo portò al Quirinale. Vi salì prima del Re, che se n’ebbe a male, e durante il tragitto – mentre il Colosseo, la via dei Trionfi, l’arco di Costantino avvampavano per le fiamme che si sprigionavano da grandi tripodi – scambiò con l’omino dalla doppia greca che gli stava accanto poche banali battute. Vittorio Emanuele III chiese tra l’altro quanti chiodi avessero gli scarponi della fanteria tedesca, e ciò non contribuì a migliorare l’opinione che Hitler aveva di lui. Per non aver un ruolo di comprimario nella sfilata, il Duce si era eclissato, dopo i saluti alla stazione, e riapparve solo più tardi. Con il Fúhrer era un seguito enorme, circa cinquecento gerarchi nazisti, e tra essi tutti i maggiori, Góring, Goebbels, Ribbentrop, Hess, Himmler. Al Quirinale Hitler fu alloggiato nell’appartamento del Principe di Piemonte, e provocò un certo trambusto, a mezzanotte, quando chiese di avere a sua disposizione una donna. Si accertò presto che voleva soltanto una cameriera che gli riassettasse il letto prima di coricarsi. Nell’antico palazzo, attorniato da aiutanti di campo e nobili, il dittatore tedesco si sentì a disagio. «C’era odore di catacombe», rimarcò Himmler che per quanto lo riguardava era più abituato a quello dei cimiteri. La visita del Fúhrer si protrasse per una intera settimana, fitta di incomprensioni e di acide punzecchiature tra i nazisti e la Casa reale, ma priva di incidenti di rilievo. I nazisti giudicarono concordemente che la Monarchia fosse un ingombrante relitto e il Re un vecchietto noioso circondato da arroganti fannulloni. Vi fu tra loro chi disse chiaramente che sul trono bisognava metterci il Duce, «il Re è troppo piccolo». Per umiliare Vittorio Emanuele III, Hítler si abbandonò, durante i pranzi ufficiali, a sperticati elogi del Duce, che «per me non è soltanto un amico ma è un maestro; non è soltanto uno statista italiano ma un capofila, anche nella nostra rivoluzione». A Centocelle Hitler passò in rivista cinquantamila soldati; nel golfo di Napoli, dalla ammiraglia Cavour, vide immergersi e riemergere nel volgere di meno di due minuti, con perfetta sincronia, novanta sommergibili. Poi vi fu una esercitazione aerea. La grandiosità della messinscena non ingannò i consiglieri militari del Fiihrer, che sapevano quali fossero le condizioni delle Forze Armate fasciste. Una vera spina fu per Hitler, fino all’ultimo, quella della presenza del Re e delle esigenze protocollari che essa comportava. Dopo l’Aida al San Carlo di Napoli era stato costretto a presentarsi alla folla in cilindro e frac, essendogli mancato il tempo di cambiarsi. Se la prese, furibondo, con il suo capo del cerimoniale Vicco von Búlow-Schnante. «Vi rendete conto che mi avete mandato in giro come il Presidente della Repubblica francese?» Quando finalmente poté congedarsi da Vittorio Emanuele III (che lo ricordò come «una specie di degenerato psico-fisiologico») e partire per Firenze solo con Mussolíní, Hítler trasse un grosso respiro di sollievo. Nella Galleria degli Uffizi andò in estasi davanti ai capolavori, e compromise tutti gli impegni previsti dal programma restandovi per quattro lunghe ore (Mussolini intanto sbuffava, impaziente). In viaggio verso Berlino Hitler si sfogò con il Segretario di Stato Weizsàcker: «Non potete immaginare quanto sia felice di tornare in Germania». II malcontento del Fiihrer aveva due cause: da un lato gli pareva inammissibile che Mussolini, per il quale professava una ammirazione sincera, tollerasse la coesistenza del fascismo con la Monarchia, e la subordinazione almeno formale a un fantoccio coronato; dall’altro era a mani vuote, nel senso che non aveva ottenuto quel patto di alleanza con l’Italia che era nei suoi progetti.Ciano temporeggiava,e Mussolini, sostanzialmente propenso all’idea, ne rinviava l’attuazione nell’attesa che essa diventasse popolare. . «Sto lavorando per renderla tale» disse qualche tempo dopo al genero. Assorbito il trauma dell’Anschluss, il Duce non aveva ancora proceduto a una definitiva scelta di campo ma, con accostamenti vistosi e arretramenti impercettibili, si avvicinava sempre di più al punto di non ritorno, quello in cui la sua politica estera sarebbe stata senza reali alternative. I rapporti con l’Inghilterra procedevano attraverso bonacce e tempeste ricorrenti, quelli con la Francia erano ormai sul brutto stabile: «È un popolo rovinato dal¬1’alcool, dalla sifilide e dal giornalismo», sentenziava il Duce. La Germania appariva temibile e affascinante, il suo Regime un modello cui ispirarsi e un concorrente con cui competere. Ma egli ancora ignorava che il terribile capo di quel Regime aveva deciso intanto che dovesse suonare l’ora della Cecoslovacchia. ” ( da- Indro Montanelli- Storia d’Ialia-ed.Corriere della Sera-Milano 2003-)

EUGENIO MONTALE

Da “Silvae”

LA PRIMAVERA HITLERIANA

“Né quella ch’a veder lo sol si gira
DANTE (?) a Giovanni Quirini

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio…
Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono gi
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…… ——————–
( per il commento alla lirica vedi “infra” al sito nella seziome “Percorsi letterari”- “Da Beatrice a Clizia”)———————————————————————

SCHEDA DI LAVORO
LABORATORIO DI SCRITTURA ITALIANA

Prof. Salvatore Coico

Anno acc………………………………………………………………………………………………………………….

Studente…………………………………………………………………………………………..

Corso di laurea laurea…………………………………………………………………………………………………

Matricola…………………………………………………………………………………………………………………..

PROVA SCRITTA
Lo studente, utilizzando le competenze acquisite tramite la partecipazione al corso, tracci un testo argomentativo e/o una recensione. L’argomento può essere compreso tra quelli trattati nel Laboratorio oppure può essere indicato a scelta dallo studente.
Spazio massimo: 30 righe ———Tempo a disposizione: 90 minuti

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PERCORSO N.3 -LABORATORIO DI SCRITTURA ITALIANA

Salvatore Coico-Laboratorio di scrittura italiana- Intrduzione-Percorso n.3

La visita di Hitler in Italia nella primavera del1938– La narrazione dell’evento attraverso la comunicazione di tipo giornalistico di I. Montanelli e la sua trasfigurazione inventivo-lirica nel componimento poetico di E. Montale “Primavera hitleriana”

Lo studente, attraverso la lettura comparata dei due testi proposti, argomenti sulle diverse modalità di scrittura e focalizzi le diversificate forme di linguaggio e di tecniche espressive, attraverso le quali i due autori, con riferimento al medesimo evento,attuano il loro processo scrittorio Si enuclei, altresì, la valenza del messaggio,proposto nei due scritti,cogliendone, eventualmente, analogie e differenze.

“Il treno del Fuhrer arrivò la sera 3 maggio 1938, alla stazione Ostiense la cui facciata, come quella degli edifici posti lungo il percorso dell’ospite, era stata ridipinta di fresco. La piazza davanti alla stazione fu ribattezzata, per la circostanza, con il nome di Adolfo Hitler. Schierati lungo i cinque chilometri fino al Quirinale centomila soldati formavano un cordone ininterrotto. Seimila antifascisti, o supposti tali, erano stati messi precauzionalmente in carcere, alcune centinaia di agenti bilingui del servizio di sicurezza tedesco erano stati sguinzagliati a Roma e nelle altre città ove Hitler si sarebbe recato, per garantirne la protezione. Visibilmente seccato, il Fiihrer dovette prendere posto sulla carrozza reale, trainata da sei cavalli, e scortata da corazzieri, che lo portò al Quirinale. Vi salì prima del Re, che se n’ebbe a male, e durante il tragitto – mentre il Colosseo, la via dei Trionfi, l’arco di Costantino avvampavano per le fiamme che si sprigionavano da grandi tripodi – scambiò con l’omino dalla doppia greca che gli stava accanto poche banali battute. Vittorio Emanuele III chiese tra l’altro quanti chiodi avessero gli scarponi della fanteria tedesca, e ciò non contribuì a migliorare l’opinione che Hitler aveva di lui. Per non aver un ruolo di comprimario nella sfilata, il Duce si era eclissato, dopo i saluti alla stazione, e riapparve solo più tardi. Con il Fúhrer era un seguito enorme, circa cinquecento gerarchi nazisti, e tra essi tutti i maggiori, Góring, Goebbels, Ribbentrop, Hess, Himmler. Al Quirinale Hitler fu alloggiato nell’appartamento del Principe di Piemonte, e provocò un certo trambusto, a mezzanotte, quando chiese di avere a sua disposizione una donna. Si accertò presto che voleva soltanto una cameriera che gli riassettasse il letto prima di coricarsi. Nell’antico palazzo, attorniato da aiutanti di campo e nobili, il dittatore tedesco si sentì a disagio. «C’era odore di catacombe», rimarcò Himmler che per quanto lo riguardava era più abituato a quello dei cimiteri. La visita del Fúhrer si protrasse per una intera settimana, fitta di incomprensioni e di acide punzecchiature tra i nazisti e la Casa reale, ma priva di incidenti di rilievo. I nazisti giudicarono concordemente che la Monarchia fosse un ingombrante relitto e il Re un vecchietto noioso circondato da arroganti fannulloni. Vi fu tra loro chi disse chiaramente che sul trono bisognava metterci il Duce, «il Re è troppo piccolo». Per umiliare Vittorio Emanuele III, Hítler si abbandonò, durante i pranzi ufficiali, a sperticati elogi del Duce, che «per me non è soltanto un amico ma è un maestro; non è soltanto uno statista italiano ma un capofila, anche nella nostra rivoluzione». A Centocelle Hitler passò in rivista cinquantamila soldati; nel golfo di Napoli, dalla ammiraglia Cavour, vide immergersi e riemergere nel volgere di meno di due minuti, con perfetta sincronia, novanta sommergibili. Poi vi fu una esercitazione aerea. La grandiosità della messinscena non ingannò i consiglieri militari del Fiihrer, che sapevano quali fossero le condizioni delle Forze Armate fasciste. Una vera spina fu per Hitler, fino all’ultimo, quella della presenza del Re e delle esigenze protocollari che essa comportava. Dopo l’Aida al San Carlo di Napoli era stato costretto a presentarsi alla folla in cilindro e frac, essendogli mancato il tempo di cambiarsi. Se la prese, furibondo, con il suo capo del cerimoniale Vicco von Búlow-Schnante. «Vi rendete conto che mi avete mandato in giro come il Presidente della Repubblica francese?» Quando finalmente poté congedarsi da Vittorio Emanuele III (che lo ricordò come «una specie di degenerato psico-fisiologico») e partire per Firenze solo con Mussolíní, Hítler trasse un grosso respiro di sollievo. Nella Galleria degli Uffizi andò in estasi davanti ai capolavori, e compromise tutti gli impegni previsti dal programma restandovi per quattro lunghe ore (Mussolini intanto sbuffava, impaziente). In viaggio verso Berlino Hitler si sfogò con il Segretario di Stato Weizsàcker: «Non potete immaginare quanto sia felice di tornare in Germania». II malcontento del Fiihrer aveva due cause: da un lato gli pareva inammissibile che Mussolini, per il quale professava una ammirazione sincera, tollerasse la coesistenza del fascismo con la Monarchia, e la subordinazione almeno formale a un fantoccio coronato; dall’altro era a mani vuote, nel senso che non aveva ottenuto quel patto di alleanza con l’Italia che era nei suoi progetti.Ciano temporeggiava,e Mussolini, sostanzialmente propenso all’idea, ne rinviava l’attuazione nell’attesa che essa diventasse popolare. . «Sto lavorando per renderla tale» disse qualche tempo dopo al genero. Assorbito il trauma dell’Anschluss, il Duce non aveva ancora proceduto a una definitiva scelta di campo ma, con accostamenti vistosi e arretramenti impercettibili, si avvicinava sempre di più al punto di non ritorno, quello in cui la sua politica estera sarebbe stata senza reali alternative. I rapporti con l’Inghilterra procedevano attraverso bonacce e tempeste ricorrenti, quelli con la Francia erano ormai sul brutto stabile: «È un popolo rovinato dal­1’alcool, dalla sifilide e dal giornalismo», sentenziava il Duce. La Germania appariva temibile e affascinante, il suo Regime un modello cui ispirarsi e un concorrente con cui competere. Ma egli ancora ignorava che il terribile capo di quel Regime aveva deciso intanto che dovesse suonare l’ora della Cecoslovacchia. ” ( da- Indro Montanelli- Storia d’Ialia-ed.Corriere della Sera-Milano 2003-)

EUGENIO MONTALE

Da “Silvae”

LA PRIMAVERA HITLERIANA

“Né quella ch’a veder lo sol si gira

DANTE (?) a Giovanni Quirini

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite

turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette

stende a terra una coltre su cui scricchia

come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona

ora il gelo notturno che capiva

nelle cave segrete della stagione morta,

negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale

tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso

e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,

si sono chiuse le vetrine, povere

e inoffensive benché armate anch’esse

di cannoni e giocattoli di guerra,

ha sprangato il beccaio che infiorava

di bacche il muso dei capretti uccisi,

la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue

s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,

di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere

le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele

romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente

l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii

forti come un battesimo nella lugubre attesa

dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando

sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi

gli angeli di Tobia, i sette, la semina

dell’avvenire) e gli eliotropi nati

dalle tue mani – tutto arso e succhiato

da un polline che stride come il fuoco

e ha punte di sinibbio…

Oh la piagata

primavera è pur festa se raggela

in morte questa morte! Guarda ancora

in alto, Clizia, è la tua sorte, tu

che il non mutato amor mutata serbi,

fino a che il cieco sole che in te porti

si abbàcini nell’Altro e si distrugga

in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi

che salutano i mostri nella sera

della loro tregenda, si confondono già

col suono che slegato dal cielo, scende, vince –

col respiro di un’alba che domani per tutti

si riaffacci, bianca ma senz’ali

di raccapriccio, ai greti arsi del sud…… ——————–

( per il commento alla lirica vedi “infra” al sito nella seziome “Percorsi letterari”- “Da Beatrice a Clizia”)———————————————————————

SCHEDA DI LAVORO

LABORATORIO DI SCRITTURA ITALIANA

Prof. Salvatore Coico

Anno acc………………………………………………………………………………………………………………….

Studente…………………………………………………………………………………………..

Corso di laurea laurea…………………………………………………………………………………………………

Matricola…………………………………………………………………………………………………………………..

PROVA SCRITTA

Lo studente, utilizzando le competenze acquisite tramite la partecipazione al corso, tracci un testo argomentativo e/o una recensione. L’argomento può essere compreso tra quelli trattati nel Laboratorio oppure può essere indicato a scelta dallo studente.

Spazio massimo: 30 righe ———Tempo a disposizione: 90 minuti

LABORTORIO DI SCRITTURA ITALIANA-Introduzione- PERCORSI 1 e 2

Salvatore Coico-Laboratorio di scrittura italiana- Intrduzione-Percorso n.1-Percorso n.2

LABORATORIO DI SCRITTURA ITALIANA

Università degli Studi di Palermo

Facoltà di Lettere e Filosofia

INTRODUZIONE AL CORSO

Dagli anni’80 ad oggi molti studiosi si sono interessati al problema della lingua ed, in particolare della scrittura , nell’ambito scolastico ed in quello delle università. Significativi sono al riguardo gli apporti di eminenti teorici del campo, quali Tullio De Mauro e Raffaele De Simone.

Obiettivo comune di queste ricerche è quello di promuovere negli studenti, oltre al miglioramento delle competenze linguistiche ” la sicura conoscenza pratica, orale, scritta della comunicazione nella lingua nazionale” (Guida allo studente-Facoltà di Lettere e Filosofia-Pisa-ed.Plus-2002-p.32)-Modelli di scrittura, presentati con applicazione didattica, sono stati altresì affrontati dagli studi di Hayes Al problema della scrittura, incentrando l’attenzione in particolare sulla tesi di laurea, volge la sua attenzione U.Eco ( U. Eco” Come si fa una tesi di laurea- Milano- Bompiani- 1980) E’ da menzionare in tempi recenti il manuale curato da F. Bruno e Tommaso Raso, ( Manuale dell’italiano professionale- Bologna Zanichelli 2002 ),”che si muove fra l’inquadramento teorico degli argomenti centrali nell’insegnamento della scrittura ( la coerenza, gli atti linguistici, i connettivi, la retorica) e un percorso didattico di riferimento passando per l’analisi di molteplici tipologie testuali” (D.Pietrangalla- L’italiano scritto- Manuale di didattica per laboratori di scrittura- ed. Rubettino – 2005-pag.11).

Questi principi intendo perseguire nello svolgimento del corso.

Si proporranno, infatti,molteplici analisi testuali per poi traferirle, prevalentemente in forma argomentativa, nella produzione scritta.

A livello di strategia didattica privilegerò l’aspetto dialogico al fine di creare, ancora prima della produzione scritta, con gli studenti uno spazio parlante, in cui i testi non sarnno letti, ma come opportunamente ammonisce R. Barhes, saranno interrogati.

L’ “interrogazione”ai testi, svolta in forma complementare da docente e studenti, sarà da considerare momento prodromico alla scrittura, che dovrà essere coesa, ma prevalentemente autonoma ed autentica. La libertà del pensiero e dell’interpretazione, sia pure supportata da idonee tecniche e da chiarezza di idee e da conseguente organicità logica, sarà un obiettivo irrinunciabile. La scrittura,oggi, infatti sul piano formativo non deve essere imbrigliata nelle strettoie di una “Appendix Probi,” ma deve comprendere un linguaggio plurivoco, confacente al mondo di oggi ,che è globalizzato. E se la borghesia , sino a qualche tempo fà, indulgeva a forme di scrittura stilata “sub specie rhethoricae” oggi, invece si tende a forme più immediate ed autentiche di comunicazione.

L’ educazione alla scrittura dovrà tendere a formare il giovane a pensare liberamente, avere una testa, che non sia colma di nozioni inutili, ma “una testa ben fatta”, come arguisce Edgar Morin.

Saper leggere i testi, saper leggere il reale produrrà nei giovani il senso critico, che sarà di poi tutto a vantaggio della produzione scritta.

La rivoluzione “copernicana”, cui oggi assistiamo nell’ambito della rivisitazione della lettura del reale e nell’area della comunicazione , deve trovare un suo possibile approdo anche attraverso una scrittura,

che educhi l’individuo all’autonomia di pensiero, alla libertà delle scelte.

Come opportunamente osserva D.Corno in “Vent’anni di scrittura tra teoria e pratica, a scuola e all’università” -” La pratica della scrittura implica scrivere “testi a partire dai testi”, come capita in più occasioni non solo della vita scolastica, ma soprattutto della vita quotidiana e professionale.”

Si definisce in tal modo il nesso scrittura-vita ( si ricordi la bella pagina di Svevo- La letturalizzazione della vita-)

La scrittura assume in tal modo una valenza cognitiva di primaria importanza e si rapporta ai processi metacognitivi. Scrive P. Boccoli in ( Metacognizione ed educazione diretta da N. Cesa-Bianchi- Franco Angeli ed. Milano 1998 a pag. 199-200) ” Secondo l’approccio cognitivista, produrre un testo scritto , richiede un’attività complessa di problem solving ( soluzione del problema) finalizzata al

raggiungimento di un obiettivo comunicativo : spiegare, raccontare, convincere. La complessità è dovuta al fatto che chi scrive deve tener simultaneamente conto di molteplici aspetti : in termini metacognitivi deve esercitarsi in più forme di controllo.”

In aggiunta al processo,indicato da Hayes e Flower ( pianificazione, trascrizione, revisione), lo studioso insiste sul fatto che nel modello di scrittura sussiste ” un’ esplicita caratterizzazione metacognitiva, che è data dalla funzione monitor, che controlla la relazione tra le tre fasi……….genera idee, stili di scrittura individuali…..garantisce l’unitarietà di scrittura.”

Complessità della conoscenza e metacognitività nel processo scrittorio

sono, quindi, da considerare componenti coessenziali e necessarie per una scrittura autonoma ed organica, non impaludata da orpelli retorici, che hanno inficiato tanta parte della nostra comunicazione letteraria e non,ma che oggi appaiono del tutto desueti, anzi nocivi.

ELEMENTI DI SCRITTURA

RIASSUNTO- PARAFRASI- NUCLEI TEMATICI

Il processo di sintesi è fondamentale nel laboratorio di scrittura perché consente di trattare e pianificare informazioni. Possiamo riferirci al riassunto di un brano di prosa e/o di un racconto o romanzo, alla comprensione di una lirica (parafrasi), all’enunciazione dei nuclei tematici di un testo di storia, filosofia e/o di critica. Nella sintesi devono essere presenti gli aspetti e le caratteristiche fondanti attraverso i quali si snoda il discorso da produrre in forma scritta. Nell’esposizione si deve tenere conto della rilevanza delle informazioni acquisite e della loro successione in ordine logico-compositivo. Alla coerenza logica deve corrispondere la linearità espressiva e l’organizzazione d’idee e concetti in una sintassi corretta. Facendo ricorso altresì ad un appropriato uso dei connettivi la forma espressiva deve essere, oltre che corretta, semplice ed immediata.

Testo argomentativo

Il testo argomentativo è per sua natura complesso in quanto comprende il concetto di problematizzazione. Il testo argomentativo, infatti, mira a dimostrare una tesi e deve essere sostenuto da validità di prove (materiale letterari, storici, critici di diversa tipologia etc……), riferibili all’oggetto della trattazione e selezionate con discernimento critico. L’uso di detti materiali, che diventano competenze conoscitive di chi scrive, devono essere riproposti nel tessuto espositivo con coerenza logica e con pertinenza di strumenti linguistici.

Nel testo argomentativo, infine, possiamo decifrare alcuni elementi fondamentali ed irrinunciabili: il punto di vista (focus), la tesi, gli argomenti, la contrargomentazione, la conclusione (coda), che deve rifarsi al punto di vista (focus), capo del corpus di scrittura.

È opportuno, prima della stesura definitiva, formalizzare una ragionata scaletta da seguire oculatamente nel processo scrittorio.

Articolo

La parola articolo deriva dal latino articulum (nodo, giuntura, articolazione). Nel linguaggio giornalistico la parola assume il significato di parte di un giornale o di una rivista dedicata ad un argomento specifico. Possiamo distinguere tanti tipi di articoli: l’articolo di giornale (detto talvolta anche pezzo in quanto facente parte di un insieme complesso), l’articolo centrale, posto in prima pagina, ma che può continuare all’interno e che contiene il fatto del giorno e che viene altresì denominato articolo di fondo evidenziato in epigrafe dal titolo, dall’occhiello e dal sottotitolo. L’articolo, che assume il secondo posto per rilevanza informativa, si chiama articolo di spalla ed in genere viene collocato a destra. Gli articoli di cronaca possono avere varia tipologia (politica, giudiziaria, economica, sportiva).

In ogni manuale giornalistico per la scrittura di un articolo si rimanda alla legge delle cinque W (who, what, when, where, why) che in inglese traducono le cinque domande. chi, che cosa, quando, dove, perché?

Questa norma si segue in genere pedissequamente quando si tratta di stendere un trafiletto di poche righe, mentre per un articolo di carattere argomentativo l’estensore può servirsi di forme più complesse di scrittura. Qualunque sia la tipologia dell’articolo, tuttavia, si raccomanda l’essenzialità nell’uso dei mezzi linguistici congiuntamente ad una linearità sintattica.

È più congeniale, infatti, all’articolo la paratassi al posto dell’ipotassi. I periodi brevi, come pure la chiarezza del linguaggio, rendono più agevole ed invitante la lettura.

Preminente preoccupazione, invero, dell’autore di un articolo dovrà essere rivolta allo specifico pubblico, cui il testo scritto è demandato.

Ne consegue che i connotatori di un articolo di quotidiano si differenziano dalle peculiarità di quello inserito in una rivista specializzata indirizzata a soggetti lettori evoluti nelle competenze e nella decodificazione testuale.

Il saggio breve

Cercando nel dizionario Devoti-Oli la parola “saggio” troviamo questa definizione: “Esposizione scritta che intende proporsi come il frutto dello studio e dell’approfondimento personale di un tema delimitato di carattere storico, biografico o critico con uno sviluppo massimo che può giungere sino alla monografia. “

La puntuale definizione degli autori del noto vocabolario è rivolta nella fattispecie al saggio inteso in senso classico e che ha costituito le risultanze di ampie indagini critiche sviluppati da studiosi nello specifico delle loro aeree di competenze.

Fatta salva quest’accezione oggi dobbiamo considerare che anche nell’ambito scolastico ed in quello giornalistico si dà sempre maggiore spazio al concetto di saggio breve. Opportunamente annota Tullio De Mauro: Osserviamo che il significato di saggio (quello riportato dai vocabolari) è distinto da quello di saggio come prova per l’accertamento della qualità e della proprietà di qualcosa e anche assaggio, prova dimostrativa (dare saggio di sé e simili).

Lo studioso precisa, inoltre, che oggi per saggio ci riferiamo piuttosto all’etimo tardo-latino” exagium” “peso”da collegare al verbo “exigere” ” pesare, esaminare

In effetti, seguendo l’interpretazione di De Mauro, possiamo affermare che il saggio, cui oggi è stato aggiunto l’aggettivo breve, nell’ottica didattica ed in quella di tipo giornalistica è un assaggio di un lavoro di dimensioni più ampie strumentale per valutare le abilità di discernimento di chi scrive su un argomento attraverso l’esame dei materiali, che ha a disposizione ovvero tramite la dimostrazione di una tesi personale, esposta con coerenza argomentativa.

Invero oggi, nella strategia di un’educazione alla scrittura, si privilegia nell’ambito dell’istruzione secondaria e persino nelle università la trattazione del saggio breve, che, con riguardo alla vita accademica, è per lo studente prepositiva alla stesura della tesi conclusiva di laurea.

Consideriamo, pertanto, il saggio breve prodromico a forme d’indagine più evolute e conseguentemente instrumentum irrunciabile per i processi scrittori, ma anche in questo caso non ne abbiamo definito compiutamente il concetto, in quanto al tempo odierno con saggio breve intendiamo anche qualcosa che, slegato dai vincoli accademici, si lega ai costumi, ai modi di vivere, agli aspetti valoriali della nostra società e all’esistenzialità dell’uomo contemporaneo.

L’autore in tal caso fa uso di una scrittura creativa, non vincolata da schematismi particolari, ed in genere alloca il suo scritto nelle colonne di un giornale d’alto livello. Lo testimonia Pier Paolo Pasolini, autore di appassionati saggi sul costume degli Italiani nel Corriere della Sera.

Tuttora il suo esempio è seguito dalle più illustri firme del giornalismo italiano ed europeo.

Nella storia europea il primo a trattare con sottile spirito critico, ma scevro da ogni accadessimo, temi filosofici, morali, della cultura del suo tempo è stato Michel de Montaigne, autore di una sua opera Essais (Saggi).

Pregresso quanti innanzi e, nel rispetto che ogni tipologia di saggio breve comporta nella sua fase ideativa ed in quella strutturale-compositiva, per esigenze didattiche puntualizziamo alcuni aspetti nodali del saggio breve e le sue fondamentali peculiarità.

La prima domanda che deve porsi l’estensore di un saggio breve è:

Dove e perché si scrive il saggio breve (rapporto mittente- destinatario) Si tratta di una rivista specializzata? Di un giornale a larga diffusione nazionale? Di un giornale di provincia a diffusione locale? Di una consegna proposta in sede di esame di maturità? Di una consegna proposta nell’ambito di un’attività accademica e/o nel Laboratorio di scrittura italiana?

In tutti questi casi gli elementi costitutivi del saggio breve devono essere:

Puntualizzazione dell’argomento Forma /modalità comunicativa (riferibile alla tipologia del saggio) Spazio disponibile (assolutamente necessario per i giornali ovvero se indicato nella consegna del saggio sottoposto all’estensore del medesimo) Tempo disponibile (viene indicato nella consegna) Documentazione disponibile (nel campo giornalistico può essere sostituito da elementi pragmatici (derivanti dalla lettura dei fatti ovvero dall’argomentazioni talora correlate da controargomentazioni dell’autore.)

Ci pare opportuno adesso soffermarci sulla stesura del saggio breve, oggi in uso nelle scuole secondarie, ritenuto di grande rilevanza negli esami di maturità e riproposto nell’ambito accademico ed in particolare nel Laboratorio di scrittura italiana.

Precipua importanza si attribuisce ai fini della stesura del saggio breve alla selezione del materiale a disposizione. Nel caso occorrente allo studente maturando il materiale viene fornito al momento della consegna, in quello riguardante lo studente universitario ci si riferisce ad un percorso di studi e di approfondimenti svolti nell’ambito del corso seguito.

In entrambi i casi è assolutamente necessario cogliere con discernimento critico il fulcro tematico ed i nuclei ideativi-concettuali funzionali alla tesi da dimostrare.

Per una sintassi compositiva organica nasce l’esigenza della scaletta, che aiuta a decidere quali siano le informazioni indispensabili, quali quelle secondarie e/o controargomentative.

La scaletta, inoltre, è funzionale all’ordine logico-cronologico, che deve informare il testo in forma coesa, dall’introduzione alla conclusione.

Il testo, infatti, deve comprendere:

· Introduzione (esposizione del problema di cui trattasi)

· La sua storia (il suo significato, il focus problematico)

· Dove ? Quando? ( Rapporto Tempo- Spazio in senso storico)

· Come? ( le modalità e le strategie critiche adottate per la dimostrazione della tesi proposta)

· Esemplificazione (exempla dedotti da materiali critici o da loci testuali pertinenti)

· Introduzione di un giudizio personale.

· Ricorso ai materiali già utilizzati a sostegno della propria tesi precorrenti la conclusione

· Conclusione : deve rifarsi all’introduzione con riguardo a:

· Alla collocazione nel tempo storico (id temporis)

· Alla dimensione storica metatemporale (messaggio) hic et nunc.

I registri linguistici, che si consigliano sempre chiari e lineari, devono essere correlati alla res argomentativa, che, qualora lo richieda, deve avvalersi di codici e sottocodici linguistici specifici

Il testo alla fine dovrà presentarsi

· Coerente con la traccia

· Coeso al suo interno e logicamente ordinato

· Completo dal punto di vista dell’argomentazione

· Formalmente corretto

· Adeguato dal punto di vista lessicale all’argomento trattato.

La trattazione di un saggio breve, anche deve rispettare in linea di massima le norme suesposte, può avere nel suo sviluppo, anche per la variegata tipologia dell’argomento, una sua flessibilità e pluralità di modi espressivo-compositivi. Si parla, pertanto, di uno schema, cosiddetto flessibile, che si affianca allo schema rigido praticato in particolar modo nel mondo giornalistico. Ed è appunto, per chi voglia affacciarsi a questa dimensione comunicazionale, che riteniamo producente sottoppore tale tipologia, che si esplica nei termini che ci apprestiamo a chiarire e che ci conducono a questa intitolazione: il saggio breve in cinque capoversi.

Al fine di illustrare questo principio chiariamo che il saggio breve in cinque capoversi è un testo informativo/argomentativo a struttura rigida che può essere impiegato quale modello per testi più complessi. Nella sua forma tipica è costituito da cinque segmenti (capoversi) unitari dal punto linguistico,contenutistico, collegati tra loro da frasi-transizione e raccolti in tre sezioni: introduzione, corpo del testo e conclusione. Mentre l’introduzione e la conclusione sono costituite da un capoverso ciascuna, il corpo del testo ne raccoglie tre.

L’introduzione ha il compito fondamentale di presentare l’argomento, oggetto di trattazione, di chiarire quale sia il fine comunicativo dello scrivente e di anticipare la struttura del testo; i tre capoversi del corpo hanno il compito di sviluppare l’argomento in maniera conforme a quanto anticipato nell’introduzione , mentre la conclusione risponde al fine di riepilogare le conclusioni svolte nel corpo del testo.

Lo schema è il seguente:

Introduzione (1 solo capoverso) Corpo del testo (3 capoversi) Conclusione (1 capoverso)

L’introduzione

L’introduzione risponde a più scopi, tra i quali quelli fondamentali sono:

· quello di introdurre il lettore nel testo, stimolandone l’attenzione

· quello di indicare l’argomento di cui si parla

· quello di chiarire, nel caso di un testo argomentativo, quale sia l’opinione sostenuta

· quello di fornire un’essenzialissima esposizione del testo (blueprint)

· quello di introdurre i paragrafi successivi magari con una frase di transizione.

Il capoverso introduttivo si articola pertanto secondo questo schema.

Introduzione, tesa ad interessare il lettore

Presentazione dell’argomento

Presentazione del fine comunicativo

Esposizione della tesi

Presentazione schematica della struttura del testo

Aggancio ai paragrafi successivi.

Il corpo del testo

Il corpo del testo si articola, come abbiamo detto, in tre capoversi. Ogni capoverso, che costituisce l’unità informativo-testuale di base nel saggio breve, ha di norma la medesima struttura .

Una frase-chiave (topic sentence) che costituisce il nucleo informativo-argomentativo del testo e che spesso ne anticipa il messaggio (primo capoverso)

Più frasi in cui si forniscono al lettore informazioni, argomentazioni, controargomentazioni, a supporto della tesi enunciata. Ci troviamo al momento in cui la res argomentativa si sviluppa e prende forma e peso il textus. Di conseguenza per un processo scrittorio esauriente occorre strutturare in forma coesa due capoversi. In effetti abbiamo dato vita al corpo del testo e dobbiamo volgerci alla conclusione. E’ opportuno,allora, che alla fine del terzo capoverso si enunci una frase di transizione che conduce con coerenza logica alla conclusione.

La conclusione

In un testo informativo/argomentativo la conclusione include in genere:

Una ripresa dell’enunciato, con il quale si presentava l’oggetto del discorso

Una ripresa delle informazioni, argomentazioni, controargomentazioni, prove dedotte da materiali di studio e/o da fonti pragmatiche.

Un segmento conclusivo, che indichi il termine del discorso e che deve collegarsi all’introduzione del testo.

La recensione

Cercando la parola recensione nel Dizionario Devoto-Oli leggiamo: 1.Articolo di giornale o di rivista, inteso a illustrare e a giudicare criticamente uno scritto o uno spettacolo, una mostra, un concerto recente e di attualità. 2. In filologia la restituzione di un testo alla lezione, che si presume esatta attraverso la tradizione scritta .

Le sue accezioni sono completamente diverse, ma per proseguire il nostro discorso all’interno del Laboratorio di scrittura italiana, dobbiamo prendere in considerazione soltanto il primo significato del termine.

La parola recensione deriva dal latino “recensio-recensionis”, dal verbo” recensere” “esaminare”.

La recensione ha tipologia analoga a quella dell’articolo e serve ad illustrare e criticare un testo e/o un evento.

L’estensore di una recensione, nel momento di produrla, deve tener presenti queste componenti

a) dove e per chi si scrive la recensione

b) il soggetto da recensire (il focus del testo)

c) quali sono le caratteristiche interne, testuali, dell’argomento da recensire

d) in quale contenitore editoriale (quotidiano, riviste, tv) deve essere inserita la recensione

e) a quale pubblico si rivolge.

Le strategie di scrittura della recensione assumono tre diversificate denominazioni:

1. testo descrittivo

2. testo espositivo

3. testo argomentativo

Nel testo descrittivo vengono rappresentate le caratteristiche esterne di un romanzo, di un film e/o di un prodotto / evento senza proporre un giudizio personale o interpretativo.

Nel testo espositivo l’autore indulge a trattare le caratteristiche interne dell’opera (ad esempio, nel caso di un romanzo puntualizzerà i tratti salienti della trama, nel caso di un film le sequenze più significative, i fondamentali aspetti scenografici, la rappresentatività delle azioni nelle rappresentazioni teatrali e così via).

La stesura di un testo argomentativo,invece, oltre ad una precisa esposizione di dati/ eventi ,relati al testo e/o evento, deve comprendere un giudizio critico coerente alle sequenze espositive.

È d’uopo precisare che in ogni caso all’inizio di ogni recensione bisogna includere i dati materiali, che consentono l’identificazione del testo e/o dell’evento con estrema precisione. ( per es. nel caso di un libro si deve indicare. autore, titolo, editore, anno di pubblicazione, prezzo).

Per quanto attiene alla parte espositiva occorre che l’autore curi l’aspetto riassuntivo dell’argomento trattato colle stesse modalità indicate ed “infra” contestualizzate nel paragrafo : Riassunto-Parafrasi- Nuclei Tematici.

Se l’autore, infine, intende dare alla recensione anche un contenuto critico, con connotazione argomentativa, bisogna perseguire le stesse norme intrinseche al testo argomentativo ed al saggio breve, intercalando nelle singole unità narrative valutazioni ermeneutiche, che preparano il giudizio finale e che, come nel caso delle altre tipologie testuali, deve essere strutturato in forma coesa negli itinerari discorsivi dall’inizio alla conclusione.

IL LAVORO MINORILE NELL”800

Il problema sociale del lavoro minorile venne affrontato dal Parlamento italiano, per la prima volta, intorno al 1880, da parte dei governi della Destra storica. Infatti, veniva proposto un progetto di legge per la riduzione dell’orario di lavoro dei minorenni (allora il lavoro dei minori era permesso e i ragazzi lavoravano sino a quattordici ore al giorno. Qui sotto riportiamo un frammento dell’Inchiesta in Sicilia di L.Franchetti – S.Sonnino, uno dei documenti che cercò di sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto gli uomini politici di quell’epoca, sul problema dello sfruttamento di bambini e adolescenti nell’Italia post­unitaria; in particolare in questo brano viene posta l’attenzione sul lavoro dei ragazzi, i “carusi”, nelle miniere siciliane, una questione secolare per questa regione.« Il lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena del minerale in sacchi o ceste dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, fino al luogo dove all’aria aperta si fa la basterella delle casse dei diversi picconieri, prima di riempire il calcarone. È sempre il picconiere che pensa a provvedere i ragazzi necessari per eseguire il trasporto del minerale da lui scavato, fino a dove si formano le casse. Ogni picconiere impiega in media da 2 a 4 ragazzi. Questi ragazzi, detti carusi, s’impiegano dai 7 anni in su; il maggior numero conta dagli 8 agli i l anni. I fanciulli lavorano sotto terra da 8 a 10 ore al giorno dovendo fare un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalla galleria di escavazione fino alla basterella che viene formata all’aria aperta. I ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano da 11 a 12 ore. Il carico varia secondo l’età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute, e senza pericolo di storpiarsi. I più piccoli portano sulle spalle, incredibile a dirsi, un peso da 25 a 30 chili; e quelli di sedici a diciotto anni fino a 70 e 80 chili.

Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni è di lire 0,50, i più piccoli e deboli lire 0,35; i ragazzi più grandi, di sedici e diciotto anni, guadagnano circa lire 1,50, e talvolta anche lire 2 e 2,50. La vista dei fanciulli di tenera età, curvi e ansanti sotto i carichi di minerale, muoverebbe a pietà, anzi all’ira, perfino l’animo del più sviscerato adoratore delle armonie economiche.

Vedemmo una schiera di questi carusi che usciva dalla bocca di una galleria dove la temperatura era caldissima; faceva circa 40° Réaumur( 50 gradi centigradi). Nudi affatto, grondando sudore, e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, dopo essersi arrampicati su, in quella temperatura caldissima, per una salita di un centinaio di metri sotto terra, quei corpicini stanchi ed estenuati uscivano all’aria aperta, dove dovevano percorrere un’altra cinquantina di metri, esposti a un vento gelido. Altre schiere di fanciulli lavoravano all’aria aperta trasportando il minerale dalla bastarella al calcarone. Là dei lavoratori riempivano le ceste e le caricavano sui ragazzi, che correndo le traevano alla bocca del calcarone, dove un altro operaio li sorvegliava, gridando a questo, spingendo quello, dando ogni tanto una sferzata a chi si muoveva più lento.

LAVORO MINORILE NEL MONDO DI OGGI

È facile incontrarli in Brasile, in Nepal, nelle Filippine. Ancora più facile in India e nel Bangladesh.

Ma non è neppure difficile trovarli molto più vicino. A casa nostra. I bambini che lavorano in Italia sono circa 400 mila e, a dispetto dei luoghi comuni,non sono solo nascosti nel Sud più povero, ma anche nel Nord-Est più opulento, dove il primo comandamento è fare i soldi, altrimenti non sei nessuno.Potrebbero essercene nel capannone alla periferia della vostra città, nel retrobottega di un artigiano del centro, nella cucina del ristorante di prestigio, nello scantinato del palazzo di fronte.Prima Campania, seconda Sicilia, terza Puglia, quarta Lombardia. E’ questa la testa della classifica della vergogna, quella – per regioni – del lavoro minorile. Sono 227 mila i bambini che lavorano nel Sud, 141 mila quelli del Nord, stima la Cgil. Il numero delle bambine si avvicina molto a quello dei bambini: 175 mila contro 200 mila circa. Nel Mezzogiorno i bambini lavorano per conto terzi, nel Centro-Nord più che altro nelle microimprese familiari.

Ed è qui, paradossalmente, che sono più sfruttati: lavorano più ore e più spesso nelle fasce orarie cosiddette “insalubri”, prima delle sette dei mattino, dopo le otto di sera. Viceversa i bambini del Sud cominciano a lavorare più presto: i casi di minori che cominciano a lavorare a 7-8 anni si trovano in Campania e Puglia, non in Lombardia. “Lavoro e lavori minorili” è il titolo della prima inchiesta condotta in un Paese industrializzato sul lavoro minorile (i197 per cento del campione ha un’età tra gli 11 e i 14 anni). L’ha voluta fortemente la Cgil che vi ha dedicato un convegno tenutosi a Roma il 7 Novembre. Era stato Sergio Cofferati, un paio di anni fa, in occasione di un suo viaggio in India, a lanciare il primo allarme. “Guardate che i bambini lavoratori ci sono anche da noi”, disse. Ora sappiamo chi sono, dove sono e che cosa fanno. Aggiustano, controllano, assistono, lavano, puliscono, o comunque non svolgono mai mansioni particolari. Quattro su dieci guadagnano meno di 200 mila lire al mese. Soltanto il quattro per cento va sopra il milione, i baby ricchi. È un fenomeno della modernità, non dell’arretratezza. Molti hanno abbandonato la scuola, ma molti altri sono studenti-lavoratori in pantaloni corti. È il caso dei cinesi. Basta chiedere agli insegnanti: gli scolari – lavoratori sono quelli che si addormentano con la testa sul banco. E hanno tutti gli occhi a mandorla. Accade questo: la notte lavorano per are nelle cantine davanti alla macchina da cucire, non appena si addormentano il guardiano provvede a svegliarli. Se non è la miseria materiale (“devo aiutare papà e mamma”, dice buona parte dei 600 bambini interpellati dai ricercatori), la causa del lavoro minorile è la miseria culturale (“la scuola è tempo perso, i soldi mi servono per farmi il telefonino”, ribatte un secondo gruppo). Di chi è la colpa? La ricerca della Cgil individua tre colpevoli: la famiglia, il territorio, la scuola. (Da un lato i bambini che lavorano sono completamente schiacciati dal modello culturale imposto loro dalla famiglia -dice Anna Teselli – dall’altro non trovano aiuto nella scuola. Abbiamo incontrato direttori scolastici che ragionano in questo modo: quel bambino è meglio se va a lavorare, qui è soltanto di disturbo”. È la vecchia storia del bambino “troppo vivace”.

La necessità di lavoro deprofessionalizzato a costo quasi zero delle imprese del sommerso gioca un ruolo decisivo anche per il futuro dei bvambini-schiavi Che tipo di lavoratori saranno nei prossimi anni? E’ facile prevederlo: lavoratori marginali, precari, nuovamente sfruttati. Se non si interviene la loro vita sarà sempre un calvario. E’ un salto indietro di 250 anni. Non è il 2000, ma l’era della prima rivoluzione industriale in Inghilterra.Da un la to c’è il rutilante mondo della new economy, dall’altro la miniera. Non due paesi separati, ma gente che lavora pressocché gomito a gomito. Renato Soru a braccetto con Dickens e Verga. Comunque se non c’è miseria materiale, c’è miseria culturale. Dice Agostino Megale , presidente dell’Ires-Cgl.:Non si capisce come mai il Parlamento non abbia ancora approvato la legge che impone a tutti i prodotti il marchio dei diritti per certificare che non si è fatto ricorso al lavoro minorile.” I bambini si sono fermati in Senato.

TESTO POETICO

S. QUASIMODO

Da ” La Vita non è sogno”

LAMENTO PER IL SUD

La luna rossa, il vento, il tuo colore

di donna del Nord, la distesa di neve…

Il mio cuore è ormai su queste praterie,

in queste acque annuvolate dalle nebbie

Ho dimenticato il mare, la grave

conchiglia soffiata dai pastori siciliani,

le cantilene dei carri lungo le strade

dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,

ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru

nell’aria dei verdi altipiani

per le terre e i fiumi della Lombardia.

Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.

Piú nessuno mi porterà nel Sud

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti

in riva alle paludi di malaria,

è stanco di, solitudine, stanco di catene,

è stanco nella sua bocca

delle bestemmie di tutte le razze

che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,

che hanno bevuto il sangue del suo cuore.

Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,

costringono i cavalli sotto coltri di stelle,

mangiano fiori d’acacia lungo le piste

nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.

Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d’inverno

è ancora nostra, e qui ripeto a te

il mio assurdo contrappunto

di dolcezze e di furori,

un lamento d’amore senza amore.

Griglia di analisi dei testi narrativi

A. INVENZIONE

A.1 -Trama,tempi, luoghi, contesto culturale

-come può essere riassunta brevemente la vicenda?

-in quale tempo, in quale luogo si svolge?

-quali aspetti di mentalità e di costume caratterizzano l’ambiente?

A2. Rapporto invenzione/realtà

– la vicenda è verosimile? intende rispecchiare aspetti importanti di una società, di una situazione? se è inverosimile, quali riferimenti contiene alla realtà?

A3. Costruzione dei personaggi –

– in quali modi vengono presentate le caratteristiche psicologiche e sociali dei personaggi?

– quali personaggi sono visti “a tutto tondo” e quali “a piatto”?

A4. Rapporto autore/ narrazione

– a chi appartiene la “voce” che narra?

– come può essere definito il punto di vista narrativo?

– l’autore manifesta i suoi atteggiamenti e giudizi verso ciò che narra? in quali modi?

– c’è un rapporto fra il tempo dei fatti narrati e il momento in cui vengono narrati (prospettiva temporale)?

E DISPOSIZIONE

BI. Intreccio

– la narrazione segue l’ordine temporale della trama o vi introduce

manipolazioni?

– ci sono spostamenti significativi nei luoghi dell’azione?

B2. Ritratti narrativi

– come si distribuiscono descrizioni, analisi, scene, sommari, ellissi narrative? – ci sono variazioni significative nella velocità della narrazione?

B3. Il non detto e lo straniamento

– ci sono aspetti importanti della vicenda, o delle sue motivazioni, che vengono lasciati impliciti?

– ci sono effetti di straniamento?

C ELOCUZIONE

CI. Sintassi

– prevalgono periodi brevi o lunghi, semplici o complessi, la coordinazione o la subordinazione? con quale effetto?

C2. Lessico, figure retoriche

– prevalgono espressioni usuali o ricercate?

– ci sono metafore o altre figure retoriche significative?

C3. Varietà linguistiche

– il registro linguistico tende al formale o all’informale?

– ci sono effetti di lingua parlata? solo nelle battute di discorso diretto o anche nel discorso dell’autore?

– ci sono effetti di linguaggio “poetico”?

– sono presenti espressioni dialettali, o gergali, o dei linguaggi tecnici?

D. INTERPRETAZIONE E COMMENTO

Dl. Tematica e Intenzioni dell’autore

– il testo intende richiamare l’attenzione su questioni di interesse umano generale, al di là della vicenda?

– a quali scopi ha mirato sostanzialmente l’autore? (intrattenere e divertire; persuadere a un’idea, a un principio morale- far conoscere, denunciare, criticare situazioni sociali; esplorare aspetti della realtà umana; sperimentare nuove tecniche narrative; produrre un’opera bella come un fine in sé…)

D2. Contestualizzazione storica

– ricorrono nel testo indizi significativi della personalità dell’autore, della sua poetica, del contesto culturale e letterario in cui ha operato?

– ci sono elementi che caratterizzano l’originalità del testo rispetto alle consuete definizioni storico-letterarie?

D3. Attualizzazione

– per quali aspetti il testo può essere interessante e significativo per un lettore di oggi?

Griglia di analisi dei testi poetici

A. Invenzione

A1 Tematica

la poesia ha un andamento prevalentemente narrativo, o descrittivo, o espressivo di stati d’animo? Se diversi di questi aspetti sono presenti, in quali rapporti stanno fra loro?

-quale spazio rispettivo hanno sentimenti, immagini, concetti? In quali rapporti stanno fra loro? -i motivi hanno un valore simbolico?

-è implicata, e come la dimensione temporale dell’esperienza?

A.2 Realtà ed immaginazione.

-la poesia si riferisce a situazioni verosimili o ad un mondo immaginario? o fonde il reale con l’immaginario?

A.3 Le immagini, definito ed indefinito.

-predomina una visione percettiva (visiva, uditiva etc.)

-prevale una chiara scansione delle immagini o un loro avvicendarsi irrazionalmente?

B. DISPOSIZIONE

-il tema della poesia è uno e semplice, o si articola in diversi aspetti e momenti? -si ha un tono uniforme o una varietà di toni espressivi?

-si può riconoscere che armonizza diversi temi e toni?

ELOCUZIONE

C.1 Sintassi

-prevalgono periodi lunghi o brevi?

– c’è una presenza notevole di frasi nominali?

C.2 Varietà linguistiche

-il lessico è usuale o ricercato?

-come si collocano le scelte linguistiche del poeta rispetto alla lingua poetica tradizionale e ai linguaggi dell’uso comune?

C3 Figure retoriche

-quale rilievo hanno le metafore e le figure retoriche? Sono figure usuali o particolarmente originali?

-le figure servono ad arricchire il l’espressione o costituiscono la sostanza stessa del discorso? -è possibile distinguere un senso letterale e uno figurato, oppure essi sono completamente fusi?

C.4 -si riconosce la ricerca di particolari effetti sonori ottenuti con l’allitterazione e con altre “figure di parole” o comunque con l’insistenza di timbri specifici?

D. METRICA

D.1 Schema metrico

-il metro è tradizionale o libero?- come si pone il poeta rispetto alla tradizione metrica?

E. INTERPRETAZIONE E COMMENTO

E.1 Interpretazione complessiva.

– tra gli aspetti considerati, quali appaiono dominanti e caratterizzanti?

– Quale intento espressivo fondamentale si può attribuire all’autore? (esprimere uno stato d’animo, creare un’opera bella fine a se stessa, sostenere una tesi ideale o morale, continuare o contestare una tradizione letteraria.

E.2 Contestualizzazione storica

-ricorrono nel testo indizi significativi della personalità dell’autore, della sua poetica, del contesto culturale e letterario in cui ha operato?

E.3 Attualizzazione

-per quali aspetti il testo può essere significativo ed interessante per il lettore di oggi?

PERCORSO N.2

-“Lingua” e “parola” nella comunicazione letteraria contemporanea-

-La lezione del dialogo del letterato interprete del mondo e di tutto quanto l’esistente –

In questo percorso sono presenti testi di Svevo, Calvino, Ungaretti ,Montale, Quasimodo, che testimoniano gli aspetti peculiari della “letterarietà”nell’era coeva. Reputando, inoltre, che “filosofia del linguaggio” e “tematiche letterarie” sono componenti collimanti nel panorama della cultura contentmporanea, si riportano,altresì, “loci” di Lacan, Foucault, Heidegger.

Lo studente, attraverso le sue competenze ed utilizzando la documentazione prodotta,esprima,al riguardo, in forma argomentativa,la sua opinione.

I. SVEVO

” La letturarizzazione della vita” “Con questa data comincia per me un’era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualcosa d’importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta: la descrizione da me fatta di una parte. Certe descrizioni accatastate,messe da parte per un medico che le prescrisse. La leggo e la rileggo e m’è facile di completarla di mettere tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Com’è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche quella parte che raccontai non ne è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? non colui che visse, ma colui che descrissi. Oh! l’unica parte importante è il raccoglimento. Quando tutti comprendono con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e a studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà qual è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno uguale all’altro di fronte agli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace solo di figurare quale un numero di tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora.”( I. Svevo- Dalle confessioni di un vegliadro-4 aprile 1928-)

I. CALVINO

“Questa letteratura del labirinto gnoseologioco-culturale ……ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che è oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. D’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, da perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno e l’altro i due atteggiamenti vogliono porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e dal gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita).Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. E’ la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”(I. CALVINO-” La sfida del labirinto”- in Menabò-1962.

S. QUASIMODO

Dal “Discorso sulla poesia” in appendice al “Falso e vero verde” Mondadori 1956

“La storia delle forme come storia “della parola” non esaurisce poi anche quando fosse compiuta, la storia dei poeti. Il poeta è un altro uomo che si aggiunge agli altri uomini nel campo della cultura, ed è importante per il suo “contenuto” (ecco la grave parola) oltre che per la sua voce.Il poeta non dice, ma riassume la propria anima e la propria conoscenza e fa “esistere” questi suoi segreti, costringendoli dall’anonimo alla persona. Quali sono dunque le parole di questi poeti tra le due guerre ? Hanno essi diritto alla patria contemporanea e sono maestri, o sono pellegrini, invece osservanti operazioni di stile, categorie letterarie spente? Nessuno ci ha detto questo, e i critici cifrati (molti tra le due guerre) hanno ripetuto schemi non specifici, similitudini più che immagini di uomini. La poesia è l’uomo e quelle carte enumerate dal “gusto” sono appena un’introduzione al dramma di una parte della storia d’Italia, appunti da svolgere. La logica della fantasia, come critica, non può affrontare la poesia, perché la poesia non misura buone invenzioni, non essendo impegno della menzogna, ma della verità……………………………………………………………….La nuova generazione, dal 1945, sempre per le sue ragioni storiche ……………. reagendo alle poetiche esistenti, s’è trovata improvvisamente senza maestri apparenti per poter continuare a scrivere poesia. Esclusa la tradizione umanistica, di cui ha riconosciuto la maturità, se non l’impassibilità, ha iniziato una condizione letteraria che non potrà che suscitare meraviglia in quanti si interessano alla sorte della cultura italiana. La ricerca di un nuovo linguaggio coincide, questa volta, con una ricerca impetuosa dell’uomo: in sostanza, la costruzione dell’uomo frodato dalla guerra, quel “rifare l’uomo” a cui accennavo appunto nel 1946……………………………………..La posizione del poeta non può essere passiva nella società: egli “modifica” il mondo, abbiamo detto. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell’uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione… .

S.QUASIMODO

Da” Erato ed Apollion-1932-36 “Al tuo lume naufrago” ..

Nasco al tuo lume naufrago

sere d’acque limpide.

Di serene foglie

arde l’aria sconsolata.

Sdradicato dai vivi,

cuore provvisorio,

sono limite vano.

Il tuo dono tremendo

di parole,Signore,

sconto assiduamente.

Destami dai morti

ognuno ha perso la sua terra

e la sua donna.

Tu m’hai guardato dentro

nell’oscurità delle viscere:

nessuno ha la mia disperazione nel suo cuore:

Sono un uomo solo,

un solo inferno.-

S. QUASIMODO

Da”La vita non è sogno” 1946/48- Dialogo

“At cantu commotae Erebi de sedibus imis

umbare ibant tenues simulacraque luce carentum,”

Siamo sporchi di guerra e Orfeo brulica/

d’insetti,è bucato dai pidocchi,

e tu sei morta. L’inverno, quel peso

di ghiaccio, l’acqua, l’aria di tempesta,

furono con te/ e il tuono di eco in eco

nelle tue notti di terra. Ed ora so

che ti dovevo più forte consenso,

ma il nostro tempo è stato furia e sangue:

altri già affondavano nel fango,

avevano le mani, gli occhi disfatti,

urlavano misericordia e amore.

Ma come è sempre tardi per amare;

perdonami,dunque. Ora grido anch’io

il tuo nome in quest’ora meridiana

pigra d’ali, di corde di cicale

tese dentro le scorze dei cipressi.

Più non sappiamo dov’è la la tua sponda;

c’era un varco segnato dai poeti,

presso fonti che fumano da frane

sull’altopiano.Ma in quel luogo io vidi

da ragazzo arbusti si bacche viola,

cani da gregge e uccelli d’aria cupa

e cavalli, misteriosi animali

che vanno dietro l’uomo a testa alta

I vivi hanno perduto per sempre

la strada dei morti e stanno in disparte.

Questo silenzio è ora più tremendo

di quello che divide la tua riva

.”Ombre venivano leggere” E qui

l’Olona scorre tranquillo, non albero

si muove dal suo pozzo di radici.

O non eri Euridice? Non eri Euridice!

Euridice è viva: Euridice! Euridice!

E tu sporco ancora di guerra,Orfeo,

come il tuo cavallo, senza la sferza,

alza il capo, non trema più la terra:

urla d’amore,vinci,se vuoi, il mondo.

G.Ungaretti

Ragioni di una poesia in “Gazzetta del popolo” 1930.

” Le mie prime preoccupazioni in quegli anni del dopoguerra-e non mancavamo circostanze a farmi premura-erano tutte tese a ritrovare un ordine anche, essendo il mio mestiere quello della poesia, nel campo, dove per vocazione mi trovo più direttamente compromesso. In quegli anni, non c’era chi negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno una poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno il meglio menzionato, che non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria, a me pareva, invece una àncora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti che cantano .Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello del Petrarca, o quello di Guittone, o quello di Tasso o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza, attraverso voci così numerose e diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata.

G. Ungaretti

Sulla poesia- intervista radiofonica -1951 Nel 1951 la Radio Italiana chiese agli scrittori più noti di presentarsi a una trasmissione in cui chiarire le ragioni della propria attività letteraria fingendo di intervistare se stessi. Riproduciamo due domande e le risposte che Ungaretti si diede in quell’occasione.

Domanda: Vuole dirci, caro Ungaretti, il suo pensiero nei riguardi degli scrittori che affermano la necessità inderogabile di stabilire un equilibrio fra espressione artistica e attività sociale?

Risposta : Non sono i fatti esterni che fanno lo scrittore: è lo scrittore che giudica mediante la propria opera tali fatti, dei quali se é vero scrittore, non può mai essere determinato. Certo, per natura, ogni uomo, e lo scrittore , è nella storia e non fuori della storia; ma se uno scrittore non riesce nella propria opera ad esprimerla, la storia, e a darle l’impronta della sua personalità,è uno scrittore secondario, del quale la storia non terrà conto.Uno scrittore, un poeta, è sempre, secondo me, engagé, impegnato a fare ritrovare all’uomo le fonti della vita morale, che le strutture sociali, di qualsiasi costruzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere e a disseccare. Domanda: Quale, dunque, per concludere lo sforzo perenne della poesia? Risposta: La poesia riafferma sempre, è la sua missione, l’integrità, l’autonomia della persona umana. Se essa giungesse un giorno a vincere la sua battaglia, se arrivasse finalmente a salvare l’anima umana, se un giorno nell’unità delle fedi, il primato dello spirito venisse da tutti ammesso come regola fondamentale di ogni società, la poesia avrebbe vinto la sua battaglia, e le difficoltà morali che hanno sempre tanto tragicamente diviso l”umanità,sarebbero finalmente sciolte.

G. Ungaretti

Da “Allegria” Commiato”- Locvizza- 2 ottobre 1916

Gentile

Ettore Serra

poesia/è il mondo,

l’umanità/la propria vita

fiorita dalla parola/la limpida meraviglia

di un delirante fermento.

Quando trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso

Ancora “Da “Allegria” Italia”

Sono un poeta

un grido unanime

sono un grumo di sogni

Sono un frutto

d’innumerevoli contrasti di innesti

maturato in una serra.

Ma il tuo popolo è portato

dalla stessa terra

che mi porta

Italia.

E in questa uniforme

di tuo soldato

mi riposo

come fosse la culla

di mio padre.

Da “Il porto sepolto”

“Fratelli”-Mariano- 15 luglio 1916

Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

presente alla sua fragilità

Fratelli

E. Montale

Da S. M. P. R- Il secondo mestiere- Prose e racconti con introduzione di M. Forti-Mondadori- Milano 1966

“Mi fa impressione che una sorta di millanerismo si accompagni a un sempre più diffuso confort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo della civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, e smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato, non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione”… … .. . … .. . …… … … …… … … … … … … … …… … … … …… … …… … …… … … …… … … ……… . …….. Il mondo è ancora in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per fatiscente non produca, per contraccolpo, una cultura che sia argine e riflessione. Possiamo collaborare tutti a questo futuro” (. pag. 3034)

E. Montale

” E’ ancora possibile la poesia?Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le atti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano “datate” e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima e poi diventa spasmodico dell’attuale, dell’immediato. [ ……. In tale passaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione… … … . .. … … … … ….. . … … … …… … …… . .. …… … .. . … ……………………Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non pub essere che affermativa. Se si intende per poesia la belletristíca (produzione letteraria dilettantesca, superficiale- dal francese belles lettres ) è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci riferiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia

(.Dal discorso tenuto nel 1975 all’Accademia di Svezia durante la consegna del premio Nobel.)

E. Montale-

La lingua di Dio –

Da Diario del 71

Se dio è il linguaggio, l’Uno che ne creò tanti altri/

per poi confonderli

come faremo a interpellarlo e come

credere che ha parlato e parlerà

per sempre indecifrabile e questo è

/meglio che nulla. Certo

meglio che nulla siamo

noi fermi alle balbuzie. E guai se un giorno

le voci si sciogliessero. Il linguaggio

sia il nulla o non lo sia,

ha le sue astuzie

. Da Satura II-1968-

INCESPICARE

Incespicare,incepparsi

è necessario

per destare la lingua

dal suo torpore.

Ma la balbuzie non basta

e se anche fa meno rumore

è guasta lei pure .Così

bisogna rassegnarsi

a un mezzo parlare. Una volta

qualcuno parlò per intero

e fu incomprensibile.Certo

credeva di essere l’ultimo

parlante. Invece è accaduto

che tutti ancora parlano

e il mondo

da allora è muto.

LACAN

“I contenuti dell’inconscio nella loro deludente ambiguità non offrono nessuna realtà più consistente, nel soggetto che l’immediato……….Si tratta qui di quell’Essere che appare solo per il lampo di un istante, nel vuoto del verbo essere, e ho detto che pone la sua questione per il soggetto. Che vuol dire?…………………Ciò che pensa così al mio posto è un altro io?………..La sua presenza non può essere compresa che a un grado, secondo dell’alterità, che già lo situa in posizione di mediazione in rapporto al mio sdoppiamento da me stesso come da un simile.Se ho già detto che l’inconscio è il discorso dell’altro con l’A maiuscola, è per indicare l’aldilà in cui il riconoscimento del desiderio si lega al desiderio di riconoscimento.In altri termini questo altro è l’ Altro che è invocato e persino nella mia menzogna come garante della verità in cui sussiste.Nel che si osserva che è con l’apparizione del linguaggio che emerge la dimensione della verità”. ( Lacan- Scritti-Parigi 1966- pp.511 sgg.)

.Foucault

( Le parole e le cose -Un’archeologia delle scienze umane- Parigi 1966- pp.407-409)

“L’ analisi linguistica è più una percezione che una spiegazione; è in altre parole costitutiva del suo stesso soggetto. Inoltre, ecco che attraverso quest’emergere della struttura ( in quanto rapporto invariante in un insieme di elementi) il rapporto tra scienze umane e matematica viene di nuovo a schiudersi secondo una dimensione interamente nuova………………………….L’importanza della linguistica e della sua applicazione alla coscienza dell’uomo fa riapparire, nella sua insistenza enigmatica, il problema dell’essere nel linguaggio, il quale è legato, come abbiamo visto, al problema della cultura……..Attraverso un cammino assai lungo e imprevisto, siamo ricondotti nel posto indicato da Nietszche e da Mallarmè, allorché il primo aveva chiesto: “Chi parla?” e l’altro aveva veduto scintillare la risposta nella Parola stessa.

Heidegger

“L’ essere dunque , come che cos’è l’essere. esso è esso stesso…….L’Essere è ogni oltre essente ed è tuttavia all’uomo più vicino di ogni essente , sia questa una roccia , un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’essere è ciò che ci è più vicino………………………………………………Ma come si rapporta l’essere all’esistenza (se pure la domanda può essere posta in questi termini)? L’Essere, esso stesso è questo rapportarsi, in quanto esso tiene stretta a sé l’ex-sistenza nella sua essenza esistenziale, cioè statica e la raccoglie in sé come alla dimora della verità dell’essere in mezzo all’essente. Ma, poiché, l’uomo ex-sistendo viene a stabilirsi in questo rapporto, in cui l’Essere destina se stesso; mentre egli sostiene l’essere estaticamente, ossia lo prende nella sua cura, egli ignora soprattutto ciò che gli è più vicino e si attiene a quel che è di là da esso. Egli crede addirittura che quello sia il più vicino. Invece più vicino di ciò che ch’è più vicino, per il comune modo di pensare, e più lontano di quel che è più lontano, è la vicinanza stessa, ossia la verità dell’essere.Questa vicinanza si realizza essenzialmente come lo stesso linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente quel linguaggio che noi, nel caso migliore ci rappresentiamo come l’unità di formazione si suoni ( o della parola scritta) melodia e ritmo, e significazione. Noi pensiamo quella formazione del suono e la sua immagine scritta come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come la sua anima, e il corrispondente significato come lo spirito del linguaggio. pensiamo, così, il linguaggio abitualmente in corrispondenza all’essenza dell’uomo, in quanto viene rappresentato come animal rationale, ossia come l’unità di corpo-anima-spirito. Ma come nell’humanitas dell’ homo animalis resta occultata l’ex-sistenza e con questa il rapporto della della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio nasconde l’essenza storica del suo essere, per la quale il linguaggio è la casa dell’Essere, fatta dall’Essere e di esso compenetrata. Onde la sua essenza deve essere pensata in corrispondenza all’Essere, ossia come questa corrispondenza stessa, cioè come la dimora dell’essenza umana.

da ( Heidegger- ” Che cos’è la mefisica” a cura di A. Carlini- Firenze- La Nuova Italia 1979 pp 103-106)

(Per maggiori chiarimenti sui principi fondamentali della filosofia del linguaggio si rimanda al testo “Verso l’ermeneutica”

Il binomio orazione-vita in M.Tullio Cicerone

Il binomio orazione-vita in Cicerone

Per comprendere il mondo ciceroniano  e la sua connotazione ora retorica,ora filosofica,ora  politica, dobbiamo ambientare l’autore nella temperie, in cui visse e della quale è stato al contempo animatore ed appassionato interprete.

La critica recente (Rostagni,Alfonsi) ha concepito nell’eclettismo ciceroniano un’unità di sentimento e di azione coincidenti con l’uomo Cicerone e con il Cicerone retore.

Invero nel Cicerone oratore possiamo notare tutta quanta la genesi e lo sviluppo della sua personalità in rapporto alla vita del suo tempo.

Cicerone nel  De Republica  aveva detto: Is enim fueram. Nec hoc nos patria genuit  aut  educavit.

Ciceronvive  la conflittualità del suo tempo e la ripropone nella sua coscienza di letterato e di filosofo.

La facultas dicendi  nel nostro autore compendia il suo modus sentiendi  nel vivere la storia del suo tempo e, per dirla alla maniera lucreziana, in hoc patrai tempore iniquo.

L’orazione in Cicerone nasce sì dalla realtà storica, ma al contempo si sostanzia delle forme più vitali della cultura dell’eclettismo imperante al tempo. L’eclettismo  nelle opere ciceroniane, oltre che in perfetta sincrasi tra cultura greca e cultura romana, rivive altresì attraverso la grande lezione  filosofica,additata da Panezio e Posidonio.

La grande tradizione  del pensiero filosofico-culturale del mondo greco, congiunto a quello romano,  induce il nostro autore  a guardare la realtà politica, non limitandosi a descriverne la contingenza,ma trasferendo la res huius temporis  in più ampio orizzonte comprendente  quei valori etici ed universali, che sono propri dell’eclettismo.

Nell’ evoluzione del pensiero filosofico di Cicerone, invero, coesiste la presenza di concezioni aristoteliche e platoniche, che vengono accolte e  rivisitate dall’eclettismo.(Protretticus- De Republica).

L’iter ideologico-culturale, che anima tutta quanta l’esistenza del nostro autore, non poteva non germinare il fulcro della sua ars oratoria.

Infatti gli stessi ideali, proposti nell’anima e nella mente di Cicerone dalla sua cultura filosodico-letteraria, si enucleano nella sua produzione oratoria oltre che nella substantia rei sive argumenti, anche nel modus dicendi,  nel numerus, nella concinnitas.  

E’,pertanto, alla luce dell’eminente personalità ciceroniana che possiamo comprendere i caratteri della sua ars oratoria.

Come nel Cicerone filosofo abbiamo la presenza di componenti della filosofia classica in una reductio ad unum adducente alla cultura dell’eclettismo ( si pensi alle opere De Republica e De legibus), parimenti anche nelle orazioni queste istanze sono il focus del suo argomentare.

Che prediligesse  l’oratoria alle armi lo afferma lo stesso Cicerone appena diciottenne “cedant  arma togae”.

Il conseguimento di tale principio  si era alimentato nell’oratore anche a seguito dell’esperienza dallo stesso vissuta durante il periodo della guerra sociale. L’ideale oratorio,inoltre, di Cicerone si allontana da quello enniano, che si limitava a quello del bonus orator  e si amplia di una significazione più complessa  in quanto l’arpinate predilige definire l’oratore:vir boni dicendi peritus.

Il che ci fa comprendere la cifra innovativa dello stile oratorio del nostro, che aveva frequentato  le personalità più rappresentative del tempo, quali  Licinio Crasso  e Q. Mario Scevola ,augure console nel 117 a.c, considerati i massimi iuris periti.

L’amicizia con Lelio, genero di Q.M.Scevola, la frequentazione del Circolo degli Scipioni inducono  Cicerone ad approfondire le meditazioni filosofiche.

Ne è exemplum  l’opera Sommnium Scipionis. E’da ricordare,inoltre,che il pensiero filosofico di Cicerone,congiunto all’estetica dell’ars oratoria si rifletterà in modo pregnante negli autori epigoni ed in particolare nell’opera del Petrarca  (Africa).

Lo stesso Cicerone nel De oratore ci dice che sente nelle orazioni l’esigenza di attingere a quell’intima filosofia, che è base del universale del diritto.

Il pensiero filosofico diventa,pertanto, nel nostro autore fondante della poiesi oratoria  in un perfetto sincretismo ideologico, in cui confluiscono con le componenti della cultura ellenica, gli ideali della grande Roma e l’esaltazione della res publica.

Così si esprime Cicerone  nell’Epistula ad Quintum:  Ai Greci dobbiamo tutte le arti liberali.

 L’eclettismo ciceroniano,però, non poteva limitarsi ad una contemplazione statica del passato.

 Nel nostro urgeva l’esigenza impellente di vivere intensamente il contingente,  in una reductio ad unum,  colla ricerca appassionata e costante di rinvenire nel reale storico i moniti e gli slanci spirituali del mondo ellenico,da far rivivere in perfetto equilibrio colle istanze, fortemente propugnate dallo stesso e finalizzate alla costituzione della res pubblica tutta intenta pro bono communi.  Il  connubio tra la cultura greca e quella romana influì decisamente nell’ars oratoria cicerioniana.

Ce lo attesta lo stesso autore nel De Officiis (1,1) : Sempre per conto mio congiunsi al Greco il Latino,né solo nella filosofia,ma anche nell’eloquenza.

Nell’oratoria,invero,Cicerone, come nel suo pensiero filosofico, mira ad unire elementi della cultura greca a quella latina in perfetta concomitanza con gli ideali promossi dal Circolo degli Scipioni.

Grande influenza ebbe,inoltre,per il nostro la lezione di Apollonio  Rodio.

 La scuola retorica di Apollonio Rodio, la cui corrente si ispirava ai principi dello stoicismo mediano e nuovo di Panezio e Posidonio ,nei termini stilistici seguiva la cifra  stilistica della subtilitas dicendi

Non fu per l’oratore neppure ignoto il grande ammaestramento di Platone..

Lo stesso Cicerone confessa nel De oratore (3,12) di essere venuto fuori non dalle fucine dei retori,ma dagli ambulacri dell’Accademia,in cui si impressero le orme di Platone

fateor me oratorem,si modo sim aut etiam quicumque sim,non ex rethorum officinis,sed ex Accademiae spatiis extetisse: illa enim sunt  cunicula  multicium variorumque   sermonum in quibus Platonis primum impressa sunt vestigia. Sed huius et aliorum philosophorum disputationibus et exagitatus maxime orator est et adiutus.Omnis enim ubertas et quasi silva dicendi ducta ab ilis est.

Il giovane Cicerone,durante il suo soggiorno a Rodi nel’78, non solo maturò la sua propensione per l’arte di una parola, atta a semantizzare  gli stilemi della cosiddetta eloquentia rodia,ma intese rinvenire nella parola stessa la substantia valoriale degli orizzonti filosofico-culturali, che gli venivano in larga misura propinati da Panezio.

Nella Rethorica ad Herennium ,pubblicata tra l’86 e l’82 a.Chr., si nota, proprio nel campo dell’oratoria,quel felice interscambio tra la  cultura letteraria latina e la filosofia greca, principio questo,peraltro,come abbiamo visto, ribadito nel De Officiis.

E’ opportuno ricordare  che negli anni, in cui Cicerone principia il suo noviziato oratorio, dominava nella retorica l’indirizzo asiano.

 Dice il Paratore: “Normalmente si suole parlare per l’età di Cicerone di tre indirizzi: l’asiano,l’atticista,il rodiese,il quale ultimo avrebbe costituito una via di mezzo fra gli altri due.

Cicerone rivendica l’autorevolezza della scuola rodiese con l’intento di magnificare anche il suo maestro Apollonio,da lui ascoltato prima a Roma e poi a Rodi

Il Paratore tuttavia non concorda sul principio della retorica rodiese, concepita come una via di mezzo tra l’oratoria degli asiani e quella degli atticisti.

Secondo il giudizio dello studioso i retori greci non avevano mai attribuito grande importanza alla scuola rodiese,né d’altra parte Apollonio Rodio e gli altri maestri  rodiesi potevano conoscere l’atticismo,che, secondo sempre la congetturazione critica del Paratore,non poteva coesistere coll’asianesimo, che era sorto a Roma ad opera dell’oratore Carisio,che si proponeva come imitatore di Lisia. Il termine asiaticus, che incontriamo nel Brutus e nell’Orator di Cicerone,fu coniato dagli autori atticisti,i quali rimproveravano ai fautori dell’opposto indirizzo di non voler seguire il purismo linguistico arcaicistico.

 In particolare confutavano il fatto che gli autori avevano contaminato la purezza del dialetto attico l’isxinotes tou logou di matrice lisiana con l’introduzione di termini ionici cioè”asiani”.

Nell’età ciceroniana  con Eschilo di Cnido ed Eschine di Mileto l’asianesimo  si orientò verso la scelta di vocaboli poetici prevalentemente ampollosi che favorivano anche un periodare più ampio e complesso.

Della corrente dell’asianesimo ,sorta a Roma, il più illustre rappresentante fu Q.Ortalo, che aveva iniziato la carriera forense nel ’95.

 Con Ortalo, rappresentante del partito oligarchico,si trovò a competere Cicerone nel periodo della dittatura di Silla e nel decennio post-silliano.

Ortalo è stato avversario di Cicerone nel processo di Quinzio e Roscio Amerino ed in quello ancora più rilevante contro Verre nonché sulla controversia riguardo della lex Manilia(legge promulgata dal tribuno C.Manilio e avversata da Ortalo, colla quale si legiferava che fosse dato a Pompeio un comando straordinario  per porre termine alla guerra mitridatica).

In seguito Ortalo si legò di salda amicizia  con Cicerone; fu al suo fianco nei processi di Murena,Rabirio,Silla,L.Flacco,Emilio Scauro.

Intensi,pertanto,furono i rapporti tra Ortalo e Cicerone anche per comunanza di intenti nell’ambito socio-.politico; tra i due,però, rimaneva un’incolmabile distanza nella tecnica dell’arte oratoria.

L’eloquenza gonfia ed ampollosa di Ortalo ormai cedeva il passo a quella più robusta ed euritmica di Cicerone.

Ortalo muore nel 50 a.Chr. e Cicerone ne lamentò la morte nel Brutus e gli dedicò il suo Protrettico alla filosofia: l’Ortensius.

L’entrata  di Cicerone nell’arringo forense avviene nel 61 con  l’orazione Pro Roscio Amerino.

Opina al riguardo il Rostagni:”In questa il giovane oratore difendeva non senza rischio un tale  Roscio diI Ameria accusato di parricidio da Crisogono favorito di Silla. Pur usando nello svolgimento della causa, nelle allusioni le dovute cautele,egli non manca di innalzare una sua nobile accorata protesta contro gli autori di quel tempo,che sembravano aver spento negli uomini ogni senso di umanità,e,che, di più avevano fatto avrebbero fatto sparire dal mondo ogni libertà.

Leggiamo nell’orazione

Vestrum nemo est quin intelligat popolum Romanum,qui quondam in hostes lemissimus extimabatur,hoc tempore domestica crudelitate laborare.Hanc tollite ex civitate iudices,hanc pati nolite diutius in hac republica versari:quare non modo id habet in se mali quod tot cives atrocissime sustulit, verum etiam hoc minibus lenissimis ademit misericordiam consuetudine incommodorum. Nam, cum omnibus horis aliquid atrociter fieri videmus aut audimus,etiam qui natura mitissimi sumus, assidui tate molestiarum sensum omnem humanitatis ex animis amittimus

( nessuno c’è di voi che non comprenda  come il popolo romano,ritenuto una volta mitissimo  verso i nemici, sia si giorni nostri malato d’una crudeltà quasi domestica. Questa, o giudici, espellete dalla  società,questa non lasciate che più imperversi nel nostro stato: poiché non solo ha in sé ciò di male, s’aver tolto di messo nel modo più atroce tanti cittadini,ma anche di aver soppresso nel cuori dei più miti la misericordia per via all’abitudine alle violenze.

Infatti,quando a tutte le ore noi vediamo o sentiamo avvenire qualcosa di atroce,anche se di matura siamo mitissimi,per la frequenza dei misfatti, nell’animo nostro perdiamo ogni senso di umanità.- trad. A.Rostagn)

Nell’orazione Pro Roscio Amerimo, pertanto,possiamo individuare tutti i germi della poliedrica species  culturale dell’autore,impegnato con vibrante forza etico-spirituale a leggere il reale storico, di cui è appassionato interprete e talora vittima.

Sentendo il bisogno di perfezionare le sue doti oratorie in seguito Cicerone si reca ad Atene e poi a Rodi, dove incontra Apollonio Rodio,forse anche per sfuggire alle’ira di Silla.

Da questo secondo noviziato si vuol far cominciare il processo di trasformazione dell’oratoria ciceroniana.

Nel 77 il nostro ritorna a Roma e sposa la ricca Terenzia.

L’anno successivo inizia per Cicerone l’avvio al cursus honorum  e viene eletto questore. Nel 75 partì per la Sicilia per la quale ricoprì la carica di questore dell’isola.

Nel 70 i Siculi, memori della grande opera svolta da Cicerone nella loro terra, gli affidarono il compito di intentare la causa di concussione e di mal governo contro Verre.

Per Cicerone fu un vero trionfo; dopo la prima veemente orazione(actio prima in Verrem) l’antagonista Q. Ortensio Ortalo rinunciò alla difesa.

         Il nostro,tuttavia, proseguì con l’actio secunda,che,suddivisa in cinque orazioni,denunciava il malgoverno di Verre;nel periodo,in cui era stato pretore urbano(de pretura urbana),in quello,nel quale  fungeva da giudice in Sicilia(de iurisdictione SIicilensi). Le altre orazioni  documentano le malefatte di Verre a proposito degli imbrogli sulle leggi frumentarie (de fumento)  ed un’altra (de signis) sulla depredazione degli oggetti artistici.

Quest’ultima orazione assume una particolare importanza in quanto ci fornisce preziose notizie relative ai tesori artistici esistenti  in quel tempo in Sicilia.

Conclude l’actio secunda l’orazione (de suppliciis) che riferisce della crudeltà delle pene iniquamente inflitte da Verre.

Il trionfo di Cicerone fu immenso;non solo  l’oratore antagonista rinunciò alla difesa,ma lo stesso Verre,prima ancora che venisse pronunciata l’indubitabile sentenza, preferì andare in volontario esilio. Le Verrine sono un exemplum non solo di eccellenza oratoria,ma al contempo rappresentano un documentum, in cui l’elocutio ciceroniana non  rimane fine a se stessa,ma si allarga a più ampi orizzonti culturali,nella lettura del contingente storico e nella proposizione dei rimedia, atti a promuovere quei fini universali,di cui l’eclettico oratore è strenuo propugnatore,pro bono patriae  et pro concordia civium.

La singolarità delle Verrine è tale che a tutt’oggi sono considerate attuali nel contenuto e propositive nel messaggio tramandato id et hic temporis.

Dice il Rostagni, riguardo alle orazioni,che avrebbero dovuto costituire l’actio secunda delle Verine:

“Le altre,che formano o avrebbero dovuto formare l’actio secunda furono pubblicate in seguito-piuttosto libri che orazioni- poiché Verre, sgominato, non attese che Cicerone esaurisse tutte le ragioni e le prove accumulate intorno alla sua attività criminosa, e se n’andò in volontario esilio: De pretura urbana , De iurisdicione Siciliensi,,De frumentis ,De signis, De suppliciis; le quali rispettivamente trattano,delle malefatte di Verre, quando era stato pretore urbano, com’è indicato dai titoli, del modo come aveva amministrato la  giustizia in Sicilia, delle ruberie che vi aveva esercitato di oggetti d’arte, delle pene e atti illegali inflitti ai cittadini rimani.

 In complesso le Verrine- oltre ad essere assai importanti come fonte della storia della Sicilia dell’amministrazione provinciale,ecc.- costituiscono un capolavoro oratorio per la serrata robustezza della dimostrazione , per lo zelo dei sentimenti e dei principi morali e sociali da cui l’autore appare animato.

 Infine esse  assurgono alla significazione di una generale requisitoria-molto opportuna in quel momento storico-contro il sistema delle malversazioni nelle provincie”.

Segue un periodo di intensa attività per il nostro e nel campo dell’oratoria ed in quello dell’attività politica. Nel 69,infatti,viene eletto console e nel 63 pretore.

In seguito Cicerone continua ad esercitare l’avvocatura ; fra le orazioni di quel periodo ci sono rimaste pro Fronteio, pro A.Cecina-

           Nel 68 inizia la corrispondenza con Tito  Pomponio,al quale era stato attribuito l’epiteto di Attico per il suo culto nei confronti  della civiltà filosofico-letteraria di Atene.

Il carteggio  fra Cicerone e Tito Pomponio fu scoperto  dal Petrarca nel 1345 in un codice veronese ora perduto, ma di cui si conserva una copia nel Laurenziano 49,18

Pomponio  Attico e Cicerone attingono entrambi alla cultura ellenica, ma la traducono nel loro vissuto in forme esistenziali diversificate.

     Pomponio accoglie la lezione epicurea,che ammonisce “vivi appartato” astenendosi  dagli affari e dalla vita pubblica.  

        Per Cicerone,invece,giusto il giudizio critico del Rostagni,”dottrina e conoscenza costituivano soltanto un mezzo allo scopo supremo del benessere sociale, per primeggiare,per integrare la propria personalità oratoria e politica, per rendersi utile allo Stato”.

Adduciamo a chiarimento di questo assunto un brano dell’Epistula ad Atticum(2,7),scritta nell’aprile del 59 a.C.,nel periodo del primo triumvirato costituito da Pompeio,Cesare,Crasso.

Neque ego inter me atque te quicquam interesse unquam duxi praeter voluntatem institutae vitae, quod me ambitio quaedam ad honorum studium,te autem minime reprehendenda ratio ad honestum studium duxit (1,17,5)

( Fra me e te non ho mai pensato che esistesse altra differenza fuor della vita prescelta; poiché una certa ambizione mi ha tratto a cercare gli onori, te altre idee,tutt’altroche riprovevoli ri hanno condotto ad una nobile forza di ozio-trad.A.Rostagni).

L’eclettismo culturale del nostro,invero,non solo configura il suo abito mentale,ma si traduce anche con vigoroso impeto morale in azione politica in tutto l’arco della sua vita.

Lo stesso Cicerone in una sua opera giovanile De invenzione puntualizza il binomio oratoria-politica, che perseguirà in tutto l’arco della sua vita.

Nel  De inventione  leggiamo:

Ac me quidem  diu cogitantem ratio ipsa in hanc potissimam sententiam ducit,ut exitimem sapientiam sine eloquentia parum prodesse civitatibus, eloquentiam vero sine sapientia nimium obesse plerumque,prodesse nunquam.Quare,si quis omissis rectissimis atque honestissimis studiis rationis et officii consumit omnem operam in exercitatione dicendi, is inutilis sibi,pernicosus patriae civis alitur ; aut vero ita se armat eloquentia, ut non oppugnare commoda patriae,sed pro his propugnare possit,is mihi vir et sui esset publicis rationibus utlissimus atque amicissimus civis fore videtur.

(Spesso io ho meco ragionato  se più bene o più male la facoltà di dire e il perfetto studio dell’eloquenza abbiano arrecato agli Stati. E  dopo lungo ragionare,la logica stessa mi conduce a questa conclusione:che la sapienza senza l’eloquenza poco giova agli Stati; l’eloquenza invece senza la sapienza nuoce per lo più moltissimo, non giova mai. Per cui, se uno,lasciati da parte gli studi veramente retti ed onesti della ragione e del dovere,consuma ogni sua attività nell’esercizio del dire, costui riesce inutile a sé e cittadino pernicioso alla patria ;invece  chi dell’eloquenza si arma così da potere non già contrastare,bensì difendere il bene della patria,questi,a mio avviso, sarà uomo e cittadino rispettivamente utilissimo e amantissimo degli interessi suoi e degli interessi pubblici- trad. A.Rostagni)    

Nel 63 Cicerone viene eletto console; scopre la congiura di Catilina.  Come opina il Rostagni “il consolato a cui  Cicerone giungeva  mediante l’appoggio degli ottimati in competizione col capo dei popolari Catilina , portò l’oratore nel centro  di una drammatica lotta , sino ad imporgli la grave responsabilità di soffocare  con provvedimenti eccezionali estremamente discussi, i tentativi di rivoluzione  democratica,che erano più o meno organizzati dallo stesso Catilina.”

Qousque tandem abutere Catilina patientia nostra?quandiu etiam furor iste tuus nos eludet?quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?.

Questa è la prima delle quattro orazioni pronunciate da Cicerone adversus Catilinam.

 Con la forza della sua parola Cicerone debellò la congiura e pertanto meritatamente gli fu attribuito l’appellativo pater patriae.

Ma la patria si mostrò immemore dei grandi meriti di Cicerone. Infatti, dopo la costituzione del primo triumvirato,nel 58, composto da Pompeo, Cesare e Crasso, il tribuno della plebe Clodio(forse il più acerrimo nemico di Cicerone) fece approvare una legge,in virtù della quale era condannato chiunque avesse condannato a morte cittadini romani senza regolare processo e senza possibilità di appello da parte del popolo.

 La legge,invero, non poteva riguardare se non Cicerone,il quale aveva fatto condannare a morte Catilina senza seguire tutte quante le procedure giuridiche regolamentari.

 Conseguentemente l’oratore si recò volontariamente in esilio.

Nel 57 Pompeo,che nel frattempo si era accostato al partito senatorio,richiama Cicerone dall’esilio.

Seguono i celebri discorsi ciceroniani Post  reditum (In senatu et ad Quirites),

L’oratore riesce a farsi ricostruire la casa, che il tribuno Clodio aveva fatto distruggere e ad appropriarsi dei propri beni e dei propri diritti

. Si ricordino al riguardo le orazioni De domo sua ad pontifices e De haurispicum responso.

Nel 56 Cicerone con l’orazione De Provinciis consularibus  si accosta a Cesare, del quale perora la legittimità della conferma del governo della Gallia in antitesi agli oppositori del grande condottiero.

Nel 52 il nostro pronuncia la Pro Milone. Appassionata è la difesa che Cicerone fa di Milone, uccisore di Clodio.

Doveva essere il momento della rivincita di Cicerone nei confronti del suo perfido nemico, ma quando Cicerone pronunciò la sua orazione, in senato avvennero tumulti.

 I seguaci  di Clodio  reclamavano a viva voce la condanna di Milone e gli stessi pompeiani, intervenuti per placare la sedizione, causarono morti e feriti.

 Questo era il clima politico di quel tempo e lo stesso Cicerone, a causa degli arroventati sconvolgimenti occorsi in aula senatoriale,non riuscì a pronunciare il discorso con la sua solita abilità.

Tuttavia è stato,in virtù dell’oratoria ciceriona che a Milone fu inflitta la pena minore e cioè la via dell’esilio.

Ma se il discorso parlato della Pro Milone poteva presentare qualche imperfezione anche per le interruzioni violente, cui l’oratore è stato sottoposto, il discorso scritto, che noi leggiamo, è da ritenersi un vero capolavoro, considerato da alcuni studiosi la regina orationum.

Ce lo attesta lo stesso Milone,che esule a Marsiglia,dopo aver letto  l’orazione, scritta a suo favore, si dice esclamasse:”O Cicerone,se così tu avessi parlato, io ora non mangerei tali triglie a Marsiglia” (cioè sarei rimasto a Roma e non avrei potuto gustare tali prelibatezze sia pure in esilio).       Commenta al riguardo Augusto Serafini:”Una battuta di spirito evidentemente,che dà l’idea della bellezza e della forza dell’orazione”.

L’anno successivo nel 51 il nostro fu nominato governatore della Cicilia

In tale circostanza Cicerone mise in luce le sue doti di onesto ed illuminato amministratore e tradusse in fatti uno degli assiomi fondamentali del suo discorso di intellettuale impegnato nella politica : la coniugazione di utile cum honesto.

Dopo un onorevole proconsolato in Cicilia, che gli valse anche il titolo di imperator,in seguito ad un successo militare nei confronti  di una popolazione ribelle di Pindenisso,nel 50 ritorna a Roma e tenta di riconciliare Cesare a Pompeo.

La sua era l’intenzione di un intellettuale onesto pro bono civium et patriae, che non ebbe,però,gli effetti sperati.

 Indi si reca a Durazzo presso Pompeo,

A seguito della battaglia di Farsalo,che segna la disfatta di Pompeo,.andò a Brindisi,dove nel settembre del 47 incontrò Cesare.

Inizia,allora,il cosiddetto periodo dell’orazione cesariana di Cicerone.

Nell’ arco di tempo tra il 46 e il 45 scrive le orazioni  Pro Marcello,Pro Ligario, Pro rege Deoitario.

Queste orazioni avevano un carattere encomiastico riferito alla clementia operata da Cesare nei confronti dei suoi più fieri oppositori.

Ma la cruenta e convulsa storia di quel periodo doveva apportare un altro tragico e memorabile evento: le idi di marzo del 44, che datano l’assassinio di Cesare ad opera di una congiura,cui non era estraneo neanche il di lui figlio adottivo Bruto.

La scomparsa di Cesare propina ad Antonio,che peraltro si appoggiava all’Oriente e a Cleopatra, un potere egemonico assoluto di tipo dittatoriale.

Cicerone di conseguenza non esitò a considerare Antonio come il vero traditore della patria.

Fra l’autunno del 44 e la primavera del 33 Cicerone scaglia contro Antonio le quattordici violentissime Orationes Philippicae,intitolate propriamente In Marcum Antonium oratationes XIV.

Cicerone volle denominare queste orazioni Filippiche  in ossequio a quelle pronunciate da Demostene contro Filippo il Macedone per la causa della libertà degli  Ateniesi. Il nostro sentì che ora la sua oratoria poteva accostarsi a quella di Demostene, che aveva eletto come modello di quell’ars dictandi, che congiungeva con l’humanitas  la virtus  nell’actio politica.

Acutamente in proposito opina M.Pohlenz-(M.Pohelnz-La Stoa,Firenze,La Nuova Italia,1967,pag.567)

“Per  Cicerone l’humanitas appartiene alla vita privata, del singolo,la virtus il vero romano la manifesta come vir, al servizio dello stato, della res publica”.

Aggiunge ancora il Pohlenz : “Solo fondendosi esse (humaitas e virtus) danno,nella sua pienezza, il modello del nuovo romano”.

Che tutta quanta la vita di Cicerone fosse protesa a far sì che l’humanitas si inverasse nel tessuto politico, nel quale il nostro si sentiva impegnato totalmente, è anche la tesi del filologo  Giovanni Viansino ( Giovanni Viansino- Introduzione allo studio critico della Letteratura  Latina- Libreria Internazionale editrice-Salerno-1970-pag. 177), che dice:

“Che per Cicerone in effetti l’actio fosse più importante della cognitio,lo dimostra il fatto che quando gli fu possibile, si dedicò completamente alla politica,conservando per la filosofia un interesse solo marginale e psicagogico, e questa invero ritorna con impegno quando dolori personali e difficoltà lo tengono lontano dalla scena del potere”.

Appare indi evidente che nell’actio politica il nostro abbia compendiato non solo tutte le sue risorse di filosofo e letterato, ma che abbia soprattutto fatto emergere la sua connotazione di vir, del tutto dedito pro bono  rei publicae atque civiium.

Che l’essenza dell’eclettismo ciceroniano concili teoresi e vita attiva nell’ottica concettuale dell’homo novus, inteso anche come probus vir, e di cui il nostro è exemplum, attraverso i suoi scritti e soprattutto nel suo agire politico,ci appare pertanto un dato inconfutabile.

E’ l’uomo sempre che agisce in Cicerone sia nell’ambito  speculativo che in quello politico.

Si può a buon diritto,allora,parlando di Cicerone di un perfetto binomio orazione-vita.

Il che viene autorevolmente suffragato dalla tesi dello studios K.Kumaineicki (K.Kuamainecki- Cicerone e la crisi della repubblica romana,Roma,Centri di studi ciceroniani-pag.19) :

“Nella lotta contro Antonio fu  lui “ l’uomo di Arpino” e non un membro della aristocrazia romana del sangue, a muoversi alla testa dello schieramento che difendeva l’aristocrazia dei nobili.

A Cicerone in quei momenti critici,sembrava di aver un grande compito da svolgere e che non gli fosse lecito ritirarsi dalla vita politica .Gli esempi  tratti dalla storia,le figure di Catone e degli Scipioni vivevano nella sua viva immaginazione. La sua concezione letteraria,,idealizzatrice della storia e degli ideali dei nobili,nonché la sua propria funzione,si incrociava con la valutazione realistica degli avvenimenti e degli uomini contemporanei”.

Il vir peritus boni dicendi pagherà con la sua stessa vita la sua incisiva e commossa actio nell’agone politico. La sua vita,infatti,analogamente  quella del suo maestro ideale Demostene,(proscritto a suo tempo e braccato nell’isola di Calura,dai soldati di Antipatro),si concluderà tragicamente.

Formatosi il secondo triumvirato (M.Antonio,Ottaviano e Lepido) Cicerone è iscritto nelle liste di proscrizione. I sicari di Antonio lo raggiungono presso la sua villa di Formia e lo uccidono il 7 dicembre del 41 a.C. Pochi giorni dopo fu ucciso anche il di lui amatissimo  fratello Quinto.

IL NEOCLASSICISMO

Il Neoclassicismo
E’ quasi impossibile definire il periodo che intercorre dagli ultimi anni del ‘700 al primo ventennio dell’800 con un unico termine comprensivo delle varie tendenze di gusto e di tutti gli avvenimenti occorsi. Usare come denominatore comune il termine neoclassicismo oppure preromantcismo è utile solo in senso strettamente scolastico, ma in realtà sia l’una che l’altra definizione non corrispondono che a componenti diverse, ma altrettanto importanti e dominanti in questo periodo. Invero molto complessa fu in Italia la civiltà dell’Illuminismo: le differenti situazioni storico-sociali nelle varie parti d’Italia, gli influssi della cultura francese e di quella inglese, il sovrapporsi del sensismo e del naturismo di Rousseau resero mosso il panorama culturale italiano fra il 1750 e la fine del secolo. Questa varietà si accentuò quando il fallimento in campo politico dell’illuminismo delle stesse ideologie ingenerate in seno allo stesso movimento culturale. Ed è proprio per questa diversificazione di componenti presenti nell’ultimo 700 che alcuni critici preferirono parlare di neoclassicismo, altri di preromanticismo, ma forse, nota il Petronio, sarebbe meglio definire storicamente questa fase di cultura parlando di “età della rivoluzione francese e di Napoleone”. E’ evidente che ci troviamo di fronte alla piena crisi dell’illuminismo, del quale si sono ormai rifiutati l’astrattezza dei principi,la critica demolitrice delle tradizioni e del passato, il facile ottimismo riguardo ai problemi umani ed alla trasformazione della società. Vengono così a mancare tutti i cardini del sistema razionalistico: meccanicismo,misticismo, deismo,empirismo,ottimismo. Contro il cosmopolitismo e l’umanitarismo insorge l’amore per la patria, per le sue memorie, si vivifica il concetto della nazione intesa come organismo storico ben distinto da ogni altro, sorge il sentimento dell’individualismo presente in forma pregante in Vittorio Alfieri. Anche la natura, concepita dagli illuministi come mero organismo fisico, regolato da leggi meccaniche viene via via intesa come qualcosa di più vivo, pervaso da forze sempre nuove. La rivoluzione francese, d’altra parte naufragata prima nella demagogia, poi nell’oligarchia, infine soffocata dall’imperialismo napoleonico napoleonico, ha reso palese l’impossibilità di attuare le premesse democratiche , cui i teorici dell’illuminismo avevano dato l’avvio. Non tutto dell’illuminismo viene,però smentito e contraddetto. Rimane una parte sostanziale di concetti, che rappresentano l’imprescindibile strato culturale della maggior parte dei grandi autori dell’800. Restano accreditati r vengono anzi riaffermati certi valori quli la libertà dell’uomo e il diritto naturale, sui quali si elaborano prospettive diverse o più ampie : dalla libertà proiettata in tutte gli impulsi vitali dello spirito all’idea di patria e di nazione.
Per quanto concerne il problema strettamente letterario non si è perduta dell’illuminismo la grande lezione di rinnovamento,comprendente contenuti morali e civili tendenti oltre che linguistici atti a promuovere una cultura viva radicata nella società. L’antinomia tra età illuministica ed età neoclassica e/o preromantica conseguentemente appare del tutto artificiosa ai fini di una corretta indagine critica. Molti critici propendono a definire periodo,oggetto del nostro interesse, neoclassico, permeato di spiriti romantici. Invero gli autori più apprestanti del tempo, pur non neglegendo la parte più vitale e proficua della lesione dell’illuminismo, tendono a rivivere forme di vita appartenenti al passato con struggente nostalgia. E la nostalgia si connota di venature intensamente romantiche quando i nostri autori mirano ai lidi dell’ Ellade, ”vano ricordo dell’età passata”, in cui si contempla la bellezza assoluta rasserenante e rasserenatrice. Ne consegue che la componente preromantica dell’età del neoclassicismo è volta alla malinconia, alla tenerezza, al sogno. Anche in questo caso ci pare di non ravvisare un hiatus con l’età illuministica, ma piuttosto un continuum. Infatti tutta l’epoca illuministica è pervasa da presentimenti romantici, quali il gusto per il primitivo, il sentimentalismo, l’ossianismo , la tendenza all’elegiaco, l’esaltazione dello stato di natura. Le forme espressive che testimoniano quest’insieme di aspirazioni, di sentimenti, di gusto trovano anche in Italia vasta applicazione, ma quasi per riflesso di di certa letteratura nordica tradotta e diffusa in quel torno di tempo ( la poesia dei poeti inglesi Young e Gray,la poesia campestre dello svizzero Gessner, la poesia ossianica di Macpherson, tradotta in Italia in versi sciolti dal Cwsarotti). Questo gusto si legava d’altra parte ad un’esperienza già avviata e fiorita nello stesso 700 e nell’ambito dell’Arcadia, che esauritasi come movimento innovatore, aveva continuato nel secondo ‘700 a vivere come accademia di poeti e di cultori del bello. Alla contemplazione della natura, al sentimento del bello in essa ingenita, non erano estranei neppure i pensatori dell’età illuministica. Basti pensare all’orizzonte aperto da Rousseau col suo culto della natura e con la sua rivalutazione del sentimento sulla ragione. Alla sensiblerie francese si aggiunge presto l’influsso del romanzo inglese, soprattutto di Richardson (rivelatore del cuore umano) nonché di Ossian (paesaggi cupi, chiaroscuri lunari,passioni tempestose, malinconiche ) e la poesia sepolcrale di Young. Possiamo affermare ,pertanto, che già in questo periodo sussistono i germi prodromici al romanticismo. Invero l’età neoclassica tendev a richiamarsi al passato, alle tradizioni al fine di sviluppare una coscienza storica, a prendere coscienza del passato, a trarre da esso exemplun per il conseguimento di una più concreta libertà nazionale da contrapporre alle ideologie utopistiche di stampo illuministico. Si cerca di dare alla cultura una forte impronta di italianità e lo stesso Alfieri viene visto come”maestro d’italianeità”. Si tende,inoltre, preconizzando uno dei motivi fondanti l’età del romanticismo, ad indirizzare la letteratura al popolo al fine di promuoverne una coscienza matura ed operante nel contesto socio-politico. Adduciamo ad esempio il Cuoco, che nella sua opera Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 concepisce le cause del fallimento della rivoluzione in una mancata adesione popolare in quanto il popolo non era ancora educato e maturo all’ide0a di libertà nazionale.
La temperie classico-romantica,invero, non tende soltanto alla memoria e alla coscienza del proprio passato, ma manifesta, altresì, la volontà di rinnovarsi richiamandosi al paradigma di quel passato, che costituiva soprattutto il ritrovamento di un ideale umano ed eroico che il mondo classico aveva posto in luce e che ora costituiva la pietra di paragone per l’uomo nuovo, duramente messo alla prova da repentini mutamenti.
L’era neoclassica è pertanto un vasto mutamento culturale e morale che si configura a causa di influenze varie e che porta alla rivoluzione dei canoni di perfetta bellezza, tipici del mondo greco. Non è ripetizione di forme e di sentire del passato; è,invece, un anelare verso un mondo lontano di armonia e di bellezza, di beatitudine, di cui la desolata anima dell’uomo del tempo avverte l’insopprimibile esigenza. Persiste tuttavia in tale tempo l’estetica del decoro esteriore, il culto della tradizione letteraria. Il che è chiarito dalla frase di A.Chenier ”Su pensieri nuovi facciamo versi antichi”. Opportunamente opina il Binni: Il neoclassicismo è una sintesi fra forme tradizionali e spirito romantico, è da considerarsi un tempo di maturazione più di transizione,in cui fra l’altro troviamo il culto della bellezza.
Il pensiero di Machiavelli e Vico, invero, la ripresa dei valori dei valori nazionali costituiscono in questo periodo il fermento di idee che alimenteranno le forze vitali del nostro risorgimento.
Bisogna,inoltre,ricordare che in Italia il gusto del classicismo ed il rispetto per il passato e per le tradizioni non aveva mai cessato di essere;tanto è vero che i modi con cui i nostri pensatori avevano reagito alle influenze d’oltralpe risentintivano di un carattere tipicamente nostrano.
Tutto il’700 era stato classicheggiante;in un primo momento,cioè durante il diffondersi della sensibilità e della cultura dell’Arcadia il ricorso al paradigma classico si connotava come componente razionale ed ordinatrice in campo estetico in contrapposizione agli eccessi del barocco ; in un secondo momento, e cioè con il diffondersi della cultura illuministica la lezione del classicismo viene intesa come componente equilibratrice dell’estremo razionalismo francese e promuove un felice incontro tra passato e presente aprendo nuovi orizzonti sull’esistenzialità dell’uomo nel mondo ed avviando quel processo di riforme , che troveranno compimento nell’età romantico-risorgimentale.
In Italia l’Illuminismo assume un carattere più moderato rispetto a quello improntato dai filosofi francesi. Gli Italiani,in effetti, non ripudiarono mai il passato e non accolsero le concezioni ateistiche. Prevalente è stato per gli Italiani la volontà di attingere dai pensatori dell’illuminismo francese in particolare lo spirito delle riforme propugnate. Gli scrittori dei circoli napoletani e milanesi trassero linfa dal pensiero illuminista incentrando il loro interesse sulla necessità che urgeva all’Italia e agli Italiani e che era rappresentata dall’inderogabile attuazione di riforme. Il dictamen illuminista,pertanto, pertanto si relaziona al vissuto storico ed ha una valenza tipicamente nostrana.
E’ d notare che proprio nell’età dei lumi si comincia a delineare una nuova concezione del classicismo ed insieme se ne elaborano le prime teorie critiche, peraltro in qualche misura presenti anche ai nostri giorni . Si dà cominciamento alla distinzione tra classicismo di maniera ,quale era stato quello del’600 e dell’Arcadia ed il classicismo autentico dei veri grandi poeti. Se quindi il classicismo come culto di esempio di bellezza e di spiritualità non si era mai spento in Italia, dobbiamo precisare che nel periodo, che trattiamo, la coscienza del passato è più matura; il classicismo in atto evocato dai nostri autori è, per dirla alla maniera crociana, un classicismo dinamico.

Una rivalutazione  della nostra civiltà più remota è quella proposta dal Cuoco nella sua opera Platone in Italia

Al fine di rinverdire il passato nella sua perfezione formale non mancano in Italia i teorici del bello ideale classicamente concepito. Queste teorie furono stimolate da noi da un richiamo venuto dalla Germania, dove già in pieno ‘700 alcuni studiosi avevamo celebrato la bellezza apollinea dell’Ellade.

Ricordiamo a tal proposito i due maggiori rappresentanti Winkelmann e Lessing, teorizzatori del bello apollineo che si contrappone nei termini nicciani al bello dionisiaco.

 

 

 

 

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L’epistemologia nello studio letterario

ASPETTI STORICI ED EPISTEMOLOGI  DELLA  LINGUA  E  DELLA LETTERATURA ITALIANA

Facoltà di Lettere e Filosofia-Università degli Studi di Palermo- Scuola di Specializzazione per l’insegnamento dell’italiano negli istituti di istruzione secondaria

 

Il corso, in ottemperanza ai dettami postulati dalla concezione epistemologica contemporanea, deve porsi l’obiettivo di motivare i sigg. corsisti alla riflessione sul carattere problematico della conoscenza teorizzato da Propper, sul cognitivismo psicologico di Piaget, delle concezioni di Feyerabend, che ripudia il concetto dell’epistemologia fondato sul criterio della verificabilità ed applica i  principi della fenomenologia al mondo dell’arte e della letteratura.

I presupposti teorici della concezione epistemologica attuale saranno fondanti per i sigg. corsisti al fine di puntualizzare

  • L’abbandono del vecchio paradigma
  • L’accettazione di un sistema nello studio della letteratura  nuovo e che obbliga a guardare il mondo in maniera diversa e quindi gli aspetti epistemologici e storici della letteratura, che è espressione compiuta della memoria dell’uomo nel tempo e della sua conoscenza in tutte le variabili del suo essere.

Per quanto riguarda il rapporto letteratura e storia, letteratura ed epistemologia si focalizzeranno le teorie di Kuhn, secondo il quale non esiste distinzione fra speculazioni metafisiche e teorie scientifiche perché entrambe costituiscono l’insieme delle credenze che caratterizzano un’epoca.

Pregresse le competenze di questi principi fondamentali, nella dinamica del corso si tenderà a far comprendere il carattere di universalità dei contenuti, che sostanziano l’opera letteraria anche nel suo divenire storico, senza dimenticare la lezione di Heidegger, che nella lettura di un testo tende ad individuare le stesse condizioni che rendono possibile il conoscere in tutti gli ambiti non escluso certamente quello storico-letterario.

La problematica epistemologica, allora, s’imparenterà con l’ermeneutica in una circolarità di interpretazioni dello studio della letteratura italiana e si proporrà nella molteplicità dei modi possibili della conoscenza riferibili all’universo culturale dei sigg. corsisti, che dovranno essere sempre i protagonisti del percorso da effettuare.

Un altro aspetto che dovrà essere privilegiato è quello del linguaggio.  Opportunamente, infatti, la traccia propone l’inscindibilità della lingua e della letteratura italiana riferiti agli aspetti storici ed epistemologici.

Nell’ottica epistemologica ritengo che il linguaggio letterario debba essere inteso come reale evento dell’Essere e dovrà essere interpretato come “totalità della vita spirituale dell’autore”.

Non si dovrà negligere, però, nell’itinerario didattico l’importanza che assume la memoria connotandosi come “storia interna” al discorso letterario e come “storia dell’uomo in generale”

Gli aspetti storici della letteratura non saranno esaminati staticamente o cronologicamente e/o attraverso costanti, ma si cercherà attraverso un attento esame filologico di trovare strade possibili per disegnare una mappa, che non deve essere chiusa e definita, ma che crea sempre un’esplorazione, di cui il lettore o lo studioso di letteratura deve essere protagonista.

Nel suo profondo significato epistemologico, infatti, la filologia correlata all’epistemologia, come opina il Curtius, non deve essere solo observatio, ma anche inspectio presupponendo la cognitio e l’extimatio del testo e/o del fenomeno letterario.

Un’accurata educazione allo studio degli aspetti epistemologici e storici della lingua e della letteratura italiana deve indurre i sigg. corsisti a meditare che la critica letteraria non può delimitarsi dentro uno spazio particolare, ma che ha bisogno di orizzonti più lunghi rispondendo a quelle forme di dinamicità e di dialetticità proposti dai teorici post-positivisti della filosofia epistemologica.

Gli aspetti storici della letteratura italiana in senso meramente epistemologico, nell’accezione moderna, non dovranno essere intesi dai sigg. corsisti come un momento di meditazione tra vita nuova ed antica dall’ansia del presente, ritrovando “là” qualcosa del “qui”, ma piuttosto attraverso quel “là” dare un senso nuovo al “qui”.

L’epistemologia, pertanto, nella prospettiva ermeneutica, dovrà essere considerata dai sigg. corsisti, per dirla con Curtius, quale “una morfologia della tradizione letteraria con una sconfinata molteplicità di strumenti informativi mutuabili oggi nell’universo della complessità della conoscenza.”

La concezione epistemologica nello studio della lingua e della letteratura italiana potrà in tal modo avere significative implicanze nell’ambito didattico in quanto introdurrà ed educherà alla compresenza di verità differenti nelle pluralità libere della conoscenza, che  si mutua in “coscientia”.

 

Salvatore Coico.

   

TEMA LINGUISTICO-LETTERARIO- PERCORSO DIDATTICO-DOCIMOLOGICO

TRACCIA PROGRAMMATICA

LABORATORIO DI ITALIANO

PROGETTAZIONE- OBIETTIVI E VALUTAZIONE DELLA PROVA  SCRITTA- MODELLI  DI  TRATTAZIONE DI TEMI LINGUISTICI E LETTERARI.

(Classi 43A e 50A)

La tematica, proposta dal laboratorio, è di peculiare importanza e rappresenta il fulcro dei fondamentali dibattiti in seno alla scuola odierna.

Per quanto riguarda il primo aspetto: “progettazione”, questo principio dovrà essere svolto con particolare cura in quanto rappresenta la premessa irrinunciabile per la definizione degli obiettivi e della valutazione della prova scritta.

Il docente, tenuti presenti gli aspetti epistemologici e quelli propri della moderna didattica dell’italiano, dovrà“ in primis” formulare “curricula” isocronici alle istanze della scuola contemporanea, progettando uno studio della lingua e della letteratura italiana, come “speculum vitae” inglobante la “polisemia” e la “complessità” dei “saperi” in forma unitaria ed  organica.

Per dirla con Edgard Morin la progettazione dovrà tendere a formare nell’alunno la “testa ben fatta” e non la testa colma di nozioni codificate e relegate al “dominio” dei cosiddetti detentori della “sapienza”.

Non più, pertanto, lo studio adsueto  della lingua e della “storia della letteratura” nell’accezione hegeliana e desanctiana, ma l’intelligenza del testo, interrogato problematicamente e dialetticamente da docente ed alunno, deve essere considerata n il prodromo ineludibile per la preparazione alla prova scritta.

In res”, nella dinamica  interattiva delle lezioni  si procederà:

a)     a leggere un testo (seguendo le indicazioni delle concezioni strutturalistiche  delle correnti post-formalistiche cercando sempre di coniugare filologia con elementi stilistici e linguistici e riconducendoli agli aspetti ideologico-culturali in senso storico e metastorico. Durante l’esposizione di queste argomentazioni si terranno ben distinti due momenti fondamentali del processo formativo degli alunni della scuola media inferiore e di quelli della scuola media superiore. Per i primi, infatti, come ci suggerisce il Piaget, la progettazione deve essere orientata ai livelli di pre-operatività mentale, mentre per gli studenti della scuola di secondo grado dovrà muoversi su un piano connotativo, comprendente le abilità di astrazione logica degli studenti, la loro capacità di elaborare i contenuti in chiave critico-personale.

b)    L’analisi di testo dovrà impegnare tutte le facoltà dei discenti, non esclusa quella immaginativa, come ci suggerisce il Cesarani.

c)     Nel testo dovranno essere rinvenute tutte le isotopie da intertestualizzare con altri testi sia sul campo meramente linguistico-etimologico, come insegna il Calogero, sia sul piano dello sviluppo ideale nella diacronia temporale. “Ad hoc” nel corso dell’anno si svolgeranno molte esercitazioni scritte congruenti all’azione didattica svolta. Per quanto concerne gli strumenti dell’aggiornamento finalizzati alla logica dell’insegnamento della letteratura italiana il docente  dovrà

a)     avere presenti gli aspetti moderni  della didattica dell’italiano

b)    usare tutti gli strumenti critici a disposizione in funzione dell’azione didattica e nel rispetto del concetto di “centralità dell’alunno”.

c)     avere la consapevolezza che non può e non deve esistere“hiatus ”tra impostazione critica del docente e funzionalità didattica.

d)    accogliere tutte le voci nuove in materia di studio della lingua e della letteratura italiana e “non” per attualizzare il discorso letterario in forma di crescita nella “vita” del pensiero e della formazione integrale dell’alunno.

Per quanto attiene ai modelli di trattazione dei temi linguistici e letterari nel corso dell’anno, si opererà con strategie di tecnologie didattiche complementari e simmetriche per la progettazione del modello del tema linguistico e di quello letterario nell’ottica accreditata dalla moderna pedagogia, che ribadisce il concetto di reciprocità intrinsecamente vitale tra l’atto linguistico e poiesi letteraria nella molteplicità delle sue forme ed espressioni.

A livello operativo si presenteranno diverse tipologie di elaborati scritti, dall’argomentazione meramente espositivo-immaginativa e/o creativa, riferita agli alunni della scuola media inferiore, alla trattazione di tematiche  letterarie, all’analisi del testo, al saggio breve per gli alunni del ciclo di studi superiore,in relazione, anche, alle vigenti indicazioni ministeriali.

Il docente, infine, si  impegnerà all’osservanza degli indicatori docimologici rispetto alla prova scritta  d’italiano con riguardo a:

    • aderenza alla situazione comunicativa
    • presenza di un ordine logico/cronologico
    • integrazione delle diverse modalità espressive
    • controllo, in relazione alle conseguenze, di una prospettiva soggettiva o oggettiva di enunciazione dei contenuti
    • controllo di un lessico sufficientemente preciso e non ripetitivo
    •  conoscenza delle nozioni di “genere letterario”, di “topos”, “tema” e “motivo”
    •  individuazione dei vari tipi di relazione intertestuale (testo/macrotesto di un autore; testi di autori diversi appartenenti ad un medesimo genere letterario, testi di generi diversi isotopici.
    • capacità  di contestualizzazione di un’opera o di un genere.
    • abilità di decifrare repertori retorico-stilistici e narratologici per l’analisi testuale
    •  acquisizione del concetto di polisemia culturale e sua competenza nell’analisi testuale e nell’indagine ermeneutica dello studio della   lingua e della letteratura italiana.
    •  comprensione dei rapporti interlivellari del testo letterario e il suo offrirsi

all’interpretazione del lettore.

-strategie euristiche riferibili ai modi possibili dell’interpretazione del testo e/o dell’argomentazione letteraria da  trasferire nella produzione scritta

 

Salvatore Coico

 

 

 

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L’analisi dei testi letterari nella strategia didattica

.L’analisi  testuale dei testi letterari nella strategia didattica- Linee programmatiche del corso ” Modelli di lettura dei testi:analisi dei testi- Classi 51 E 52- (SISSIS)- Università degli Studi di Palermo-anno acc.2007/2008-

Docente: Prof.Salvatore Coico

Le analisi testuali per una maggiore efficacia interpretativa e, per esigenze anche di comprendere il mondo letterario in forma polivalente, saranno trasferite al livello intertestuale e metatestuale con l’apporto di altre discipline (filosofia, storia, storia dell’arte) nella dimensione sincronica ed in quella diacronica.La coincidenza, inoltre, fra filologia e filosofia, tra ragioni proprie del letterato e del suo lettore, tra lingua scritta e suo significato logico-­argomentativo e/o evocativo e/o antropologico-sociale, dovrà supportare tutti i modi possibili di lettura dei testi. Tutte queste componenti, che ho accennato sommariamente, ripropongono molteplici forme di indagini critiche sul campo epistemologico e su quello meramente linguistico. Sarà mia cura offrire ai sigg. corsisti gli strumenti necessari utilizzabili in una loro prossima avventura scolastica.  Soffermandomi sul problema della lingua, inteso come “sistema comunicativo”, è mio proposito  riproporre l’atto linguistico all’interno del processo letterario in una prospettiva storico-comparata, come peraltro viene suggerito dalla recente critica al riguardo e dalle indicazioni ministeriali concernenti l’insegnamento di Lingua e  Lettere Italiane negli Istituti secondari di primo e secondo grado.Ma il discorso, fin ora esposto, potrebbe apparire arido, se alle competenze senz’altro necessarie ed irrinunciabili ed al sicuro dominio degli strumenti critico-filologici, non corrispondesse una motivazione personale, oserei dire un coinvolgimento esistenziale nell’interpretazione dei testi, nell’autonoma capacità di leggerli, contestualizzarli, però, sempre attraverso corretti paradigmi metodologici e con l’osservanza agli aspetti formali, strutturali, linguistici. Tale organigramma propedeutico avrebbe, pertanto, come obiettivo non solo lo sviluppo delle competenze nella sfera cognitiva, ma soprattutto sarebbe finalizzato alla logica stessa dell’insegnamento della lingua e delle lettere italiane e al suo profondo significato traducibile nella crescita globale della  persona umana. Il che, in ultima analisi, dovrebbe connotarsi in un momento paradigmatico, da essere rivissuto dai sigg.corsisti nella loro futura esperienza d’insegnamento. Che  l’analisi  del testo ci riconduce anche   alla sfera della psicologia cognitiva  e quindi all’interiorizzazione di chi si appresta allo studio letterario è fatto conclamato dalla critica recente e pertanto lo studio letterario, sempre più intrinseco alla vita di ognuno di noi, deve essere rivisitato in chiave personale.A  tal fine s’indicheranno forme di strategie didattiche di tipo euristico, da adottare nella lettura del testo e da trasferire nell’azione didattica.Obiettivo significativo dell’interpretazione del testo, da riproporre anche in chiave didattica, è l’analisi formale e la contestualizzazione.La riflessione linguistica, come quella letteraria dovrà partire dai testi, attraverso i quali si attualizza il funzionamento della lingua congiunto al processo letterario. Si affronterà, conseguentemente, lo studio della”grammatica del testo” in forma polisemica. Letteratura, scrittura, comunicazione, grammatica logica del testo devono afferire ad un’unitarietà di tecniche metodologico-critiche per riproporre categorie logiche, strutture del discorso, abilità argomentative,  che  compendiano il discorso letterario. La “grammatica del testo, dovrà, invero, in ultima analisi non esaurirsi alla comprensione dei livelli formali, ma dovrà piuttosto indulgere, giusta la definizione dei teorici del campo, a forme di “interiorizzazione linguistica”. Questo concetto, che appare di non facile realizzazione  nella sua formulazione, può diventare autentico se rivissuto nelle forme, che ho appena accennato, e se riferito agli utenti (alunni, interlocutori, lettori). Ancora una volta, quindi, un’ipotesi critica rimanda ad una strategia didattica.  

L’intellettuale “a colloquio” con il pubblico nell’età postunitaria.- La lezione del Verga-

gustave courbet - gli spaccapietre 1849L’intellettuale “a colloquio” con il popolo nell’età postunitaria.
La lezione del Verga.
Copia (2)  di quarto~1CAPITOLO PRIMO
1) Temperie storico-culturale- Il positivismo sociale:A Comte-H.Spencer-A.Gramsci e la funzione dell’intellettuale.
2) La questione meridionale- Le lettere Meridionali di P.Villari -La tesi di G.Fortunato- Le inchieste di Franchetti e Sonnino- La Prima Internazionale:Marx e Bakounin- Aspetti della questione sociale nel Meridione e nell’Europa: analogie e differenze attraverso l’analisi dei testi:incipit da “I Vecchi e i giovani” di L. Pirandello ed explicit da “Germinal” di E. Zola.- La questione meridionale nei giudizi di A.Nitti e A.Gramsci.
3) Giovanni Verga: tra storicità e letterarietà: breve excursus dell’opera verghiana. I principali contributi critici

1
Nell’età postunintaria avviene un fenomeno di rivolgimenti sociali, politici e
culturali, che appaiono in netta contraddizione con l’età idealistico-risorgimentale.
Vi è soprattutto un’attenzione al reale storico, di cui l’intellettuale si fa portavoce.
Possiamo affermare che il complesso delle condizioni storico-culturali si riflette nell’ambito dell’ideologia, ed, in specie, nell’attività teoretica dei pensatori ed in quella meramente artistica di letterati ed artisti.
L’intellettuale accentra il suo interesse sul conflitto tra borghesia e proletariato.
In effetti, nel periodo, che ci accingiamo a trattare, ad una borghesia, detentrice di poteri economici e di privilegi industrializzata, si affianca una piccola borghesia prevalentemente agraria, che opprime le classi meno abbienti e popolari, e, che, come osserva il Verga, vengono travolti dalla fiumana del progresso.
Si delinea, inoltre, il divario tra Nord e Sud.
Ne consegue che molti lavoratori meridionali sono sottoposti ad una fatica disumana nei campi, nelle miniere o nella pratica della pesca, ricavando un miserevole guadagno, non sufficiente spesso alla loro stessa sopravvivenza.
Le figure di Rosso Malpelo nel Verga e di Ciaula in Pirandello sono un’esemplificazione di questo status socio-economico.
Non solo in Sicilia, inoltre, il vulnus, prodotto dalla sperequazione sociale tra classe borghese e proletariato, si fa sentire, ma anche nel Nord ed in tutta quanta l’Europa.
L’espansione capitalistica, prodotta dall’incremento dei mezzi di lavoro meccanizzati ed industrializzati, crea una massa ingente di proletariato.
Le macchine, in effetti, essendo da sole in grado di assorbire molte unità lavorative, penalizzano in grandissima misura la virtualità manuale e fattuale del singolo lavoratore.
In virtù e per gli effetti della legge economica, che regola il rapporto domanda-offerta, essendosi moltiplicata a dismisura la richiesta di lavoro, viene ridotto enormemente il salario, mentre si aumentano le ore di lavoro, nel quale vengono impiegati anche donne e bambini “carusi”.
Vige lo sfruttamento per opera della classe capitalistica e di quella borghese ed il proletario è sottoposto al peso insostenibile di un’immane fatica, che gli permette di condurre a stento una grama esistenza.
Tragica è la condizione in cui gli operai vivono in miniera.
Tale situazione è presente in Italia ed anche in Europa, come ci attesta Zola nella sua mirabile opera Germinal.
Pensatori e letterati del tempo riflettono sulla triste condizione del pauperismo, dello sfruttamento minorile.
L’intellettuale sente impellente l’esigenza di accostarsi al reale storico, di coglierne, oltre il vissuto, l’ideologia, per poi riproporlo nelle diversificate forme di pensiero e d’inventività espressiva nel campo artistico-letterario e in quello omnicomprensivo più ampiamente culturale.
Si delinea, in tal modo, una nuova lettura del reale con implicanze in tutte le componenti della conoscenza, da quelle socio-antropologiche a quelle proprie del vissuto esistenziale del popolo, espresso dai letterati del tempo con modalità tecnico-linguistiche ed estetiche del tutto innovative.
In questo modo il colloquio tra l’intellettuale ed il popolo diventa autentico. Denominatore comune ai pensatori, ai letterati e agli artisti del tempo è la concezione dell’umanismo del lavoro.
Teorizzatore del concetto dell’umanismo del lavoro è K.Marx.
Il pensatore, che concepisce la realtà come risultante dalle forze produttive del lavoro, enuclea la legge del plusvalore, che permette la capitalizzazione ingente di somme di denaro nelle mani di pochi, provocando un inarrestabile stato d’immiserimento nel proletariato.
Il capitale accumulato è per Marx, infatti, un rapporto sociale conflittuale ed antagonistico fondato sullo sfruttamento del lavoro.
L’analisi della società capitalistica, formulata da Marx, ingenera una nuova filosofia della storia.
Così scrive Marx (Marx- Prefazione a “Per la critica dell’economia politica” trad.it. di E. Cantimori-Mezzamonti- Roma –Ed. Riuniti pp. 10-12)
“Il cambiamento della base economica sconvolge tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile distinguere sempre tra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione che può essere costatato con la precisione delle scienze naturali e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono all’uomo di concepire queste forme e di combatterle.”
La tesi, postulata da Marx, riguardante l’interrelazione tra lo studio delle scienze economiche e le scienze naturali, ci avvicina al discorso sulla fisica sociale, propugnato da Comte.
Invero sia per Marx come per Comte la sociologia deve essere intesa come scienza positiva.
Il compito della sociologia o fisica sociale è per Comte quello di rimuovere le teorie teologiche o metafisiche e di organizzare la società su basi scientifiche, fondate sull’esperienza della vita associata.
Partendo da questo presupposto Comte spiega l’evolversi della religione, dei costumi, delle leggi.
La questione sociale, per Comte come per Marx, costituisce la base fondante della storia in rapporto alla società, in generale, e all’uomo-individuo in particolare, che nel contesto sociale, intesse i fili della storia.
I due autori Marx e Comte, nonostante una certa comunanza di percezione del reale, in cui vivono, approdano a conclusioni diverse.
Marx è tutto calato nel concetto dell’umanisno del lavoro con attento sguardo alle forze produttive costituenti la struttura socio-economica del mondo, Comte, invece, del concetto della fisica sociale fa una vera religione, concependo la visione di un Grande Essere, non più riferibile a Dio, ma all’Umanità.
Il filosofo, inoltre, ritiene che si possa approdare ad una morale sociologica in cui l’egoismo è superato dall’altruismo.
Si parla, pertanto, di un positivismo utopistico, caro alla classe borghese, ma non tenuto in conto dagli intellettuali del tempo, che intendevano proporre un dialogo più autentico e reale col popolo. Osserviamo, infatti, come anche il Verga non si concede a qualsiasi forma di utopismo, ma piuttosto sempre più cerca di immedesimarsi e di rappresentare la plebe schiacciata dal piede brutale del progresso. Tuttavia è da considerare che la concezione positivistica di Comte ha influenzato la cultura moderna e ha indotto a porre l’attenzione sull’importanza conoscitiva del mondo attraverso un’indagine, rivolta in forma complementare, alle scienze umane, alla sociologia e alla psicologia.
Più incisiva appare nel panorama culturale la teoria dell’evoluzionismo di Spencer.
Per Spencer “compito della sociologia è quello di determinare le leggi dell’evoluzione super-organica, cioè le leggi che regolano il progresso dell’organismo sociale. In altri termini la sociologia è lo studio dell’ordine progressivo della società come un tutto”. (Principles of P Sociology 1876.1).
La sociologia di Spencer è orientata nettamente verso l’individualismo e, quindi, verso tutte le libertà individuali, in contrasto con la sociologia di Comte e, in generale, con l’indirizzo sociale del positivismo, giusta l’opinione dell’Abbagnano.
Queste premesse ci fanno capire come il pensiero di Spencer, orientato verso l’antropologia e lo psicologismo, abbia influenzato la formazione dell’intellettuale del tempo.
Spencer, infatti, attribuisce grande importanza alla psicologia, che ritiene nella sua natura ultima, irrinunciabile e che deve essere studiata in tutte le sue manifestazioni.
Sarà anche impegno degli intellettuali del tempo e, soprattutto dei romanzieri, quello di studiare e far rivivere nel romanzo il personaggio reale e non quello fictus, prerogativa dell’autore omnisciente.
Il romanziere è, invero, un autore scienziato, che si eclissa nel personaggio, di cui rivela il suo essere autentico attraverso tutte le manifestazioni della sua psiche e della sua esistenza umana, nel contesto sociale, in cui vive, secondo il canone teorizzato da Ippolito Taine e proposto nella triade race-milieu –moment.
Il Verga stesso dice che “l’opera d’arte deve apparire come fatta da sé”, nella quale non si sveli “il fiat del creatore”.
La creazione dei personaggi s’inserisce, a buon diritto nelle teorie contemplate dai pensatori del tempo ed assume forme estetico-contenutistico-culturali del tutto originali.
Nel momento, in cui il Verga si accosta alla Sicilia, l’autore opera la sua operazione culturale-artistica più significativa.
Non si tratta di aderire a forme di provincialismo o di regionalismo, come una miope critica ha tentato di congetturare, ma piuttosto di informarsi a quel concetto di ideologia del reale, che sarà poi sviluppato da Luckàcs, e che imprimerà all’arte verghiana una valenza artistica di portata europea, imparentandosi con Flaubert, Zola, Dickens.
Per accostarsi compiutamente all’ideologia del reale il Verga sente insopprimibile l’esigenza di ritornare alla Sicilia e di allontanarsi da Milano, in cui aveva maturato un’esperienza letteraria di tipo scapigliato.
La Sicilia, infatti, non deve essere considerata come un limite all’inventività artistica, ma come il nucleo germinante di tutta la vera ed autentica vita di letterato e di intellettuale del Verga, impegnato, per dirla alla maniera gramsciama, a riproporre tutto il reale (e quale reale per l’autore se non la Sicilia ed il suo popolo?) nei modi propri dell’arte.
Lo testimonia una lettera indirizzata al Capuana (Milano 13 marzo 1874).
“Quel Milano che tu ti sei immaginato sarà sempre inferiore alla realtà, non perché tu non abbia immaginazione tanto fervida da fantasticare una Babilonia più babilonia della vera. Ma perché ho provato su di me che non arriveremo mai ad accostarci alla realtà di certe piccole cose che ci fanno piccini alla loro volta, e ci danno forza da giganti. Io immagino te, venuto improvvisamente dalla quiete tranquilla della nostra Sicilia, a sentirci penetrare di tutta questa febbre violenta di vita in tutte le sue più ardenti manifestazioni, l’amore, l’arte, la soddisfazione del cuore, la misteriosa ebbrezza del lavoro, provenienti da tutte le parti, dall’attività degli altri, dalla pubblicità qualche volta clamorosa, pettegola, irosa, dagli occhi delle belle donne, di facili amori o delle attrattive pudiche.”
Leggendo questa lettera possiamo affermare che il Verga aveva ben chiaro il suo compito di letterato, impegnato a tradurre in parole tutto quanto il reale e ad esprimerne l’essenza più vera.
Vengono anticipati i termini con cui parlerà più innanzi Gramsci in “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura”
“ Il modo di essere nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel contempo mescolarsi alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanente”.
La letteratura deve condurre alla vita autentica e non a quella ideale, che spesso e, soprattutto nell’età idealistico-romantica, si rapportava agli intendimenti dell’autore più a colloquio con se stesso che non col popolo.
Un altro punto di contatto, tra la concezione dell’intellettuale gramsciano e le risultanze dell’estetica verghiana, adducenti al binomio letteratura-vita possiamo rinvenirlo nelle parole espresse da Gramsci in “Letteratura e vita nazionale”.
“ La premessa della nostra letteratura non può essere che non storica, politica, popolare: deve tendere ad elaborare ciò che esiste; polemicamente o in altro modo non importa, ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare così com’è, con i suoi gusti, le sue tendenze, col suo mondo morale ed intellettuale, sia pure arretrato e convenzionale”. Abbiamo riportato questo brano di Gramsci perché ci sembra chiarificatore dell’argomentazione, che ci sforziamo di esporre “L’intellettuale “a colloquio” con il popolo nell’età postunitaria”.
Inoltre il richiamo di Gramsci ad una letteratura storica, politica, popolare non può che indurci a soffermarci sulla questione Meridionale, nel cui periodo Verga matura la sua esperienza di uomo e di letterato.
E’ lo stesso Gramsci, che ci avvicina al discorso sulla questione meridionale.
Gramsci, infatti, studiò profondamente il problema e rilevò, proprio con riguardo alla Sicilia, il divario tra classe operaia e classe agricola con tutte quelle implicanze di carattere socio- politiche connesse al tempo.
Possiamo considerare anticipatore dell’ideologia gramsciana il Verga, che, al pari delle Inchieste di Franchetti e Sonnino, nella sua opera letteraria ci testimonia la realtà socio-politica della Sicilia del tempo col preciso intento di realizzare, attraverso gli eventi e i personaggi rappresentati, un documento, che, oltre a radicarsi nella storia, contiene in sé tutte le caratteristiche
appartenenti alla sfera umana.

2

LA QUESTIONE MERIDIONALE

Dopo il 1860 l’unità politica non viene sorretta dall’unità socio-economica del paese e particolarmente nel Mezzogiorno ancora si delineava il divario città-campagna che per tanti secoli ha vessato la nostra storia.
Mentre il Settentrione si ergeva ad una struttura sociale evoluta ed industrializzata, il Mezzogiorno era ancora pietrificato in un arcaico passato.
Il Mezzogiorno, dice il Caizzi, “era figlio della sua straordinaria storia, intessuta quasi tutta di disgraziate vicende, di guerre intestine ed incursioni straniere.”
Il prezzo dell’unificazione, di cui parla il Procacci, fu soprattutto politico.
Il nuovo stato aveva come fulcro la fisionomia del Piemonte.
Infatti, sino al 1864, la capitale rimase Torino e l’assetto amministrativo veniva basato sulle autonomie delle regioni e sul decentramento, elaborate da Farina e Minghetti.
Anche la legge elettorale, estesa a tutto il paese, fu quella in vigore nel paese dopo il 1854, con il risultato che, dato il più basso grado di sviluppo economico della maggior parte delle altre regioni, ed in particolare del Mezzogiorno, il già ristretto sistema censitario ne risultò accentuato e il voto divenne in più di una regione il privilegio di pochi notabili.
Nelle elezioni del 1861, le prime della storia italiana, gli iscritti erano 167.000 nell’Italia settentrionale, 55.000 in quella centrale, 29.000 nell’Italia meridionale.
Lo stato italiano nasceva con una forte impronta burocratica.
Il divorzio tra governanti e governati, tra élite e massa popolare appariva evidente.
Nell’Italia meridionale la parte più derelitta esplode in una disperata forma di brigantaggio, che era altresì appoggiato da agenti borbonici, costituito nella maggior parte da contadini e da renitenti di leva.
Facendosi bandito il contadino non intendeva – e lo riconobbe l’inchiesta promossa dal Parlamento dal deputato Massari- esprimere il suo attaccamento al vecchio ordine di cose, quanto la sua avversione al nuovo, dare sfogo alla propria delusione e disperazione.
Sempre nel Mezzogiorno manifestazioni di collera popolare si ebbero anche nelle città, come la rivolta di Palermo del 1866, che fu repressa con l’invio di un corpo di spedizione.
La protesta della massa diveniva una costante nel panorama sociale e politico della nuova Italia, che lottava contro una politica prevalentemente fiscale e che millantava di ammantarsi di liberismo.
Nel Mezzogiorno, in particolare, l’ambigua commistione tra liberismo e fiscalismo produsse perniciose conseguenze nell’organismo sociale.
La politica della sinistra giovane, promossa da Agostino Depretis, già deputato della sinistra al parlamento subalpino e collaboratore di Garibaldi in Sicilia, non riesce a sanare il conflitto nord-sud.
La politica della sinistra, piuttosto, sembra rapportarsi al partito dei “galantuomini” e di larga parte della borghesia del Mezzogiorno.
La classe dirigente non si curava di riforme, di istruzione elementare obbligatoria; piuttosto traeva dal Mezzogiorno privilegi ed interessi economici.
L’avvento della sinistra al potere, invero, non perseguì quel radicale cambiamento di rotta, che i pochi avevano temuto e che i molti avevano sperato.
Il bilancio delle riforme, introdotte nei primi anni di governo della Sinistra, non può considerarsi del tutto efficiente.
La legge stessa, che prevedeva l’obbligatorietà dell’istruzione elementare da sei ai nove anni, (la precedente legge Casati del 1859 prevedeva soli due anni d’istruzione obbligatoria) venne disattesa.
L’abolizione della tassa del macinato, la riforma parziale dei codici ed infine la riforma elettorale per opera di una politica, che si denominò “trasformismo” favorì non il proletariato, ma i ceti borghesi ed i “galantuomini” del Mezzogiorno.
La riforma elettorale, promossa nel 1882, permise un ampio allargamento di partecipazione al voto.
Gli elettori salirono dal 500.000 a più di 2.000.000 milioni con una misura dal 2 al 7 per cento della popolazione.
Vale la pena dire che la riforma, basata sul censo, favoriva di gran lunga la città alla campagna.
Coloro, che perciò maggiormente beneficiarono del suffragio, furono la media e piccola borghesia.
Conseguentemente la politica meridionale rimaneva dominata dalle clientele e dai “galantuomini”.
Questa situazione crea situazioni penose, che, fino al giorno di oggi, sono la piaga della nostra società.
Le “ Lettere Meridionali”, raccolte in volumetti da Pasquale Villari, con fermo intendimento critico affrontavano temi ben definiti: il brigantaggio, la mafia siciliana, la camorra napoletana, fatti tutti che al Villari apparivano come “la conseguenza logica, naturale di un di un certo stato sociale, senza modificare il quale è impossibile sperare di poter distruggere questi mali”.
Brigantaggio, banditismo, mafia, violenza privata occupavano anche il primo posto nell’inchiesta del Franchetti, che scopriva nel malsano ed abominevole costume, manifestazioni profondamente connaturate ai meridionali con un sistema di vita, nel quale sopravviveva la prevalenza dell’autorità privata su quella sociale, ed il diritto continuava ad avere come unico criterio di giustificazione la forza anziché la legge.
Da qui la diffusione del male sociale della mafia, che si manifestava in atteggiamenti sconcertanti: l’omertà generalmente goduta dai malfattori, l’importanza determinata dalla violenza nei rapporti privati, le strette relazioni esistenti tra i ribaldi di mestiere e le classi agiate ed influenti della popolazione, la vita amministrativa, ridotta a contese di fazioni.
Ne deriva che il patrimonio pubblico era indirizzato a favore di pochi capaci di prevalere di volta in volta con la violenza.
Il volto della delinquenza mafiosa in collusione con gli interessi politici viene messa in chiara luce dal Franchetti, che dice “ognuno delle parti contendenti cerca di rafforzarsi estendendo le sue alleanze nella riserva inesauribile dei prepotenti, dei latitanti, dei malfattori, degli assassini”:
(Franchetti-Sonnino – La Sicilia nel 1876-pp. 10 sgg.)
La lentezza e l’onerosità della giustizia disarmavano le comunità più povere a richiedere la difesa dei propri diritti.
La grande confusione, esercitata dal governo nei poteri legislativi ed in quelli giuridico-istituzionali, facilitava la violazione della legge.
Sindaci e consiglieri, che avrebbero dovuto tutelare l’interessere, erano spesso usurpatori del diritto.
Donde il profondo risentimento dei contadini e le loro reazioni violente, l’occupazione delle terre a mano armata di terreni demaniali, gli incendi dolosi di boschi ed altri fatti di sangue ancor più gravi.
Ma invero questi accadimenti sono da considerare eventi sporadici, che non perseguono le finalità proposte. Anzi tutte le azioni promosse dai contadini venivano soppresse cruentamente. Al proletariato non rimaneva altro che soccombere senza talora poter pronunciare un grido di protesta.
Silenzio e desolata rassegnazione avvolgevano quella plebe, soggiogata dalle forze della politica, del progresso e talora anche dalle impervietà della natura stessa.
Esemplificativo al riguardo è il contenuto della novella Libertà del Verga.
Scrive Giustino Fortunato nel 1876 “A dir tutto le quotizzazioni, come furono prescritte dalle leggi, non hanno agevolato nell’Italia se non il monopolio dei terreni nelle mani dei proprietari; esse insieme con le nuove leggi di imposta accrescono di giorno in giorno le grandi proprietà a danno delle piccole”.
La storia del Mezzogiorno dell’Italia, dall’antichità in avanti, con le sue particolari vicende e le sue molte disgrazie e le tante disuguaglianze con la storia generale dell’Italia, sembrava al Fortunato inintelligibile, se non studiata prescindendo dalla geografia della penisola.
La geografia, insegnava anzitutto che il Mezzogiorno, osserva l’autore, era una regione nel complesso naturalmente infelice per la sua stessa configurazione longitudinale, piena di asperità e terre aride e lunghe prode malariche, per le troppo montagne e le valli abbandonate.
Nel percorrere le nostre province il Fortunato si sentiva pervadere da un senso indicibile di turbamento e di meraviglia, che lo induceva a credere ad un cataclisma, ad un’incursione dei barbari, all’accorata elegie di quelle “terre morte”, di quegli antichi paesi abbandonati dagli uomini, di cui parlano i cantori dell’Ellade e dell’Asia minore e concludeva “Voi pensate allora come a una lotta crudele fierissima tra l’uomo e la natura: una lotta in cui l’una e l’altra portano indelebili le tracce dolorose”. Non ci sentiamo di condividere l’opinione del Fortunato, che indulge, ad una forma di determinismo geografico-antropologico, senza spiegare le vere ragioni del paesaggio siciliano, non derivante precipuamente dal suo assetto geofisico, ma soprattutto devastato dall’incuria del malgoverno. L’accentuazione del Fortunato, riguardante una condizione preordinata dello status generale della Sicilia, ci appare destituita di veridicità storica.
Saranno, invece, gli autori quali Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Quasimodo, che riusciranno nelle loro opere a raffigurare il vero volto della Sicilia. Il paesaggio siciliano è per i nostri autori la cifra poetica, in cui si snodano le vicissitudini del tempo in una descrittività, che è insieme momento drammatico,elegiaco e trasposizione del vissuto umano.
Agli occhi del popolo siciliano, se la terra appare desolata, questa condizione non è certo da attribuire agli elementi primordiali della natura, quanto al disinteresse di una classe politica, che, disconoscendo la fatica del contadino, abbandona le terre alla malaria e non si occupa di valorizzare quei beni inestimabili che il suolo siculo possiede.
Il paesaggio, allora, si fa tutt’uno con la tragicità dell’esistenza, della quale lo stesso diventa metafora,in accordo con le variegate e spesso discordanti situazioni ambientali, storiche, politiche.
Per gli autori del tempo, il paesaggio si fa storia viva e palpitante, in cui si compiono tutte le vicissitudini del genere umano nel tempo e, attraverso il vissuto personale, nella contestualità del gruppo sociale.
Per questo motivo in autori coevi la tonalità del paesaggio si colora di tinte del tutto diverse e talora contrapposte.
Riporto ad esemplificazione di questo assunto due brani letterari, il primo è tratto dall’incipit de I Vecchi e i Giovani di L.Pirandello, l’altro dall’explicit del Germinal di E. Zola.
Entrambi gli autori trattano nelle loro opere la delusione storica, che, alla fine dell’800 e, perdurando lungo tempo, lacera non solo l’Italia, ma tutta quanta l’Europa.
Sia Pirandello che Zola fanno rivivere nelle loro opere eventi susseguenti alla seconda metà dell’800.
Pirandello pubblica la sua opera nel 1913, ma ambienta l’azione del romanzo nel periodo delle prime lotte dei Fasci Siciliani (1893).
Zola pubblica Germinal nel 1885 e tratta un tema, presente peraltro in Verga e Pirandello, delle miniere, ed in particolare dei due scioperi attuati per opera dei minatori, a Ricamarie, nel dipartimento della Loira, il 16 giugno del 1869 ed il 7 ottobre del medesimo anno, ad Aubin, nel dipartimento dell’Aeyron.
Dall’incipit de “I vecchi e i giovani”
“ La pioggia, caduta a diluvio durante la notte aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi………………………………………………
Piovigginava ancora a scosse nell’alba livida tra il vento che spirava gelido a raffiche di ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva scorresse un brivido dalla città………………………Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su la Girgenti nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolta lassù, si levava silenziosa ed attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo”.
Da “Germinal” di Zola explicit
“ Alto nel cielo, ora il sole di germinale raggiava in tutta la sua gloria. Al caldo
dei suoi raggi, la terra sprigionava in mille forme la vita dal suo grembo materno. Le gemme degli alberi si schiudevano in lucide foglie; i campi trasalivano sotto la spinta dell’erba, agognanti alla luce. Per la vegetazione in succhio, si propagava come un fremito: era la linfa che urgeva sotto le cortecce. Ma sotto quel tripudio della natura, sempre più distinto, il giovane (Stefano) continuava a udire l’oscuro travaglio dei minatori. E di questa messe la terra era incinta; una messe che spunterebbe un giorno alla luce, grandeggerebbe nei solchi per gli imminenti raccolti. Là in fondo era un esercito vendicatore, che schiantando la terra, ben presto esploderebbe alla luce”.
Nel brano pirandelliano i campi semantici connotanti il paesaggio sono pioggia-alba livida –elementi naturalistici che fanno da sfondo alla tragica visione di “un’ostinata crudeltà del cielo sopra quelle piagge estreme della Sicilia”. Il paesaggio, inoltre, ”cruccioso, dalle fosche ombre umide” enuclea il pessimismo pirandelliano, che tradito anche dalla lezione verghiana, nella natura rivela l’angoscia esistenziale del popolo siciliano.
Quella “desolazione”, che “si levava silenziosa ed attonita superstite nel vuoto senza vicende, nell’abbandono senza riparo” non è da considerare soltanto un’annotazione paesaggistica, ma un aspetto assiologico del romanzo in tutti i suoi aspetti di carattere estetico-culturale e socio-antropologico.
Il “vuoto” di un tempo senza riparo semantizza la reale condizione del popolo siciliano, che soccombe inerte all’iniquo potere delle forze allora dominanti, chiuso nel “silenzio” e nella muta rassegnazione.
Al tempo vuoto, infatti, Pirandello correla “l’abbandono di una vita senza riparo”.
Del tutto diverso è il paesaggio nell’explicit del Germinal di Zola.
L’autore, che pure nel suo romanzo aveva espresso con rara efficacia stilistico-espressiva la lotta dei minatori, di cui aveva rivelato, talora con crudo realismo tutti gli aspetti caratteriali con precisa connotazione psicologico- naturalistica, attraverso le vicende dagli stessi miseramente e dolorosamente vissute, conclude il suo romanzo con l’apparizione del sole (germinal).
Gli indicatori connotanti il paesaggio sono il sole di “germinale”, che “alto nel cielo raggiava in tutta la sua gloria”.
Il contrasto tra i due paesaggi evidenzia un cronotopo, in cui spazio e tempo coincidono con varietà di toni e di situazioni psicologico-esistenziali, riferibili al contrapposto modo di sentire dei personaggi e alle contraddizioni esistenti, nello stesso periodo, in ambiti regionali, nazionali e sopranazionali.
In quest’ottica possiamo comprendere la differenza profonda dei due paesaggi: in quello pirandelliano l’imperversare della pioggia in un’alba livida, in quello zoliano l’irradiarsi del sole che feconda le messi.
Il paesaggio diventa per entrambi gli autori figura stessa del tempo storico.
L’habitat naturalistico zoliano si schiude, con l’immagine del germinale, alle teorie, che gli ideali del socialismo avevano alimentato nella classe operaia francese e, che, invece non avevano trovato eco nella tragicità esistenziale del popolo siciliano, immerso in “un vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono di una miseria senza riparo”, come abbiamo ricordato poc’anzi.
Invero il popolo siciliano si sente votato alla desolazione e alla sconfitta. Anche quando tenta di ribellarsi viene trucemente sconfitto, come ci documenta il Verga, nella già citata novella Libertà
Zola, invece, conclude il suo romanzo facendo procedere il protagonista Stefano verso la “luce” nel momento stesso in cui “le gemme si schiudevano in lucide foglie” e i “campi trasalivano sotto la spinta dell’erba agognanti alla luce”.
Pregne di valenze semantiche sono le parole innanzi enunciate- trasalivano- vale a dire che la natura partecipa con tutta l’ebbrezza possibile di un vitalismo, che per gli esseri umani si traduce nel riscatto e nella propensione ad una vita autentica, degna di essere vissuta nei termini che le stesse leggi della natura prescrivono.
Il participio presente, poi, ”agognanti” indica un transito da una condizione, che è quella miserevole, in cui si aggirano i personaggi, ad una forte e vibrante tensione emotiva, che li spinge con atto volontaristico verso la luce.
La luce può essere considerata un iponimo del sole ed è insieme l’ultima parola colla quale si conclude il romanzo, quasi per fissare un episema: luce come metafora di riscatto, libertà.
E questo assunto lo chiarisce lo stesso Zola quando ci presenta Stefano, che, mentre procede incontrando la luce, “ ascolta l’oscuro travaglio dei lavoratori”
Sembrerebbe, allora, che prendesse campo l’ossimoricità della vita: da una parte il sole che sorge nel mondo, dall’altra il buio esistenziale del travagliato vivere quotidiano.
Ma proprio nell’ultimo rigo del romanzo l’autore scrive: “ là in fondo un esercito vendicatore, che schiantando la terra presto esploderebbe alla luce”.
Una siffatta rappresentazione non poteva essere concepita né da Verga, né da Pirandello.
A Ciaula, personaggio pirandeliano non rimane altro dopo una giornata di immane fatica che “scoprire la luna” e l’evento, anche se carico di intensa emotività lirico-introspettiva, si esaurisce sul piano intimistico e non promette nessun riscatto sul piano esistenziale e sociale del caruso.
Ancora più drammatico è l’epilogo della vita di un altro “caruso” di matrice verghiana: Rosso Malpelo, che viene sepolto dalla cava, vittima di un ineluttabile destino.
Il discorso, fin ora esposto, potrebbe sembrare una digressione se non fosse sostanziato dalla veridicità degli eventi storici e dai movimenti, a questi correlati.
Nella convinzione che un discorso letterario, anche nel suo aspetto meramente estetico, debba confrontarsi parallelamente sul piano diacronico e su quello sincronico colla storicità, comprensiva di ogni moto di pensiero e sentimento, inglobanti la linfa e la radice stessa del vivere dell’uomo, ci accingiamo a trattare brevemente gli aspetti salienti del movimento della Prima Internazionale, che permeò di sé non solo l’Italia, ma tutta quanta l’Europa e che creò atteggiamenti di pensiero afferenti in modo decisivo nel campo della cultura e del progresso sociale con risvolti producenti nel mondo delle lettere e delle arti.
La Prima Internazionale è preceduta dall’insurrezione proclamata nel 1863 dalla Polonia contro il dominio russo.
Un anno dopo, il 28 settembre 1864 nacque la Prima Internazionale, cui aderirono l’Inghilterra e la Francia e numerosi esuli politici come italiani (vicini alle idee mazziniane e soprattutto provenienti dal nord) insieme a polacchi, svizzeri, tedeschi. La Sicilia, invece, rimaneva chiusa in un’opaca renitenza e piegata al suo destino in uno stato di assoluta arretratezza e, per dirla secondo il discernimento del Verga, “senza aura di scampo”.
Animatore del movimento è stato K. Marx, che già nel Manifesto del 1848 aveva invitato la classe operaia a “spezzare le proprie catene”.
La Prima Internazionale si diffuse in tutta l’Europa ed anche in Italia, sopratutto ad opera di Bakounin, in un primo tempo seguace del pensiero di Marx, ma poi distaccatosi, in quanto proponeva un’azione rivoluzionaria, mentre l’autore del Capitale auspicava l’emancipazione della plebe in un processo dialettico che portasse a compimento la coscienza di classe del mondo operaio.
Il messaggio bakouniano chiamava le plebi in genere e la classe lavoratrice, in specie, all’unione e alla lotta non solo per la conquista di immediate realizzazioni di carattere economico e professionali, ma soprattutto per l’instaurazione, sulle rovine del mondo capitalistico, di un innovativo ordine sociale ed economico definitivo.
Nel Mezzogiorno Baukounin insistette particolarmente su un punto assai sensibile: “ la terra fecondata dal lavoro e dal sudore della plebe doveva appartenere ad essa per diritto naturale”.
Ma, anche se il nostro abile e travolgente agitatore mostrò grande interesse per la Sicilia, le cui condizioni generali gli sembravano assimilabili a quella degli umiliati e offesi della Russia, il popolo siciliano, a differenza della Francia e delle altre nazioni, non si mostrò pronto alla riscossa.
Il popolo siciliano, in effetti, non si liberò dall’atavico assoggettamento e dall’imposizione del potere precostituito, sottoponendosi agli interessi dei “galantuomini” e, non riuscendo ad elevare la propria voce, si rinchiuse in un silenzio dolorante e privo di speranze e di attese.
Le enunciazioni, appena espresse, sono tendenti a chiarire le ragioni per le quali autori, quali Verga e Pirandello sono distanti da Zola.
Comprendiamo, inoltre, come sia in Verga che in Pirandello lo sguardo, rivolto alla Sicilia, si compenetra con viva e sentita partecipazione emotiva, oltre che ideale, nel dramma vissuto dalla propria gente, che viveva in istato di separatezza e di abbandono, anche all’interno della propria nazione, in cui sempre maggiormente si conclamava la dicotomia tra Nord e Sud.
Al fine di una maggiore puntualizzazione del divorzio tra Nord e Sud, divorzio, che peraltro, come abbiamo visto, produceva in Sicilia uno stato di arretratezza rispetto anche agli stati europei, desideriamo soffermarci brevemente sulle posizioni critiche di alcuni pensatori, che si sono interessati al fenomeno.
Sul finire del secolo XVIII Nitti pubblicò un’opera: Nord e Sud.
Il Nitti argomenta che, all’atto dell’unità di Italia, il Mezzogiorno possedeva la maggior parte del capitale monetario circolare esistente in Italia, esattamente il 65,7% e che avrebbe potuto realizzare queste ricchezze in modo da sviluppare armonicamente i settori della sua economia, se da parte dello Stato non si fosse attuato uno spietato “drenaggio” di tale denaro a favore del Nord.
Le nuove gravissime imposte, la compera dei beni demaniali ed ecclesiastici, l’unificazione del debito pubblico provocarono un vero dissanguamento dell’economia meridionale, resa ancora più grave dopo il 1887, quando il Mezzogiorno divenne il naturale mercato di consumo su cui si scaricavano i prodotti industriali dell’Italia settentrionale.
Il Nitti perviene a questa conclusione: “fra l’Italia del Nord e quella del Sud la differenza di condizioni economiche e sociali si era accentuata rispetto al 1860.”
Vi sono ora due Italie: una progredisce rapidamente ed entra nel circolo della civiltà industriale, l’altra si dibatte in strettezze crescenti. La tesi del Nitti, ricchissima di dati e assai pregevole, quale interpretazione della realtà economica, sottintendeva una visione politica, fondata sul presupposto che, mantenendo inalterati i rapporti tra le forze sociali del paese, si potesse giungere, estendendo nel Sud gli effetti dell’industrializzazione, ed intervenendo con un’opportuna politica di sgravi fiscali,ad un processo di unificazione.
Il processo di unificazione risultò, però, vano e le differenze tra Nord e Sud furono accentuate nel periodo dominato dal Giolitti, mediante una politica, che assunse una forte impronta burocratica e che sfavorì grandemente l’economia del Meridione.
Gaetano Salvemini usò l’espressione rimasta famosa “ministro della malavita” nei confronti del Giolitti, che non rifuggì in certe circostanze di ricorrere a pressioni di vario genere per fare eleggere nei collegi elettorali deputati favorevoli al governo.
L’Italia aveva raggiunto particolarmente nel Nord traguardi nel campo dello sviluppo economico e sociale, ma era ancora la nazione degli emigranti, dei contadini poveri, degli analfabeti.
Puntuale e convincente ci appare l’analisi condotta da Gramsci sulla questione meridionale.
Nell’interpretazione di Gramsci, che approfondisce questa tematica nei “Quaderni del Carcere, il nostro opina che il mancato Risorgimento era la causa prima del divario tra Nord e Sud anche perché i democratici non furono capaci di mobilitare, accanto a una parte della piccola borghesia e del proletario urbano, le masse contadine del Mezzogiorno.
Questa frattura fra masse popolari del Sud e classe dirigente borghese è per lo studioso, il vero nodo strutturale della questione meridionale.
3
GIOVANNI VERGA: Tra storicità e letterarietà.

Con Nedda il Verga matura la sua istanza verista, Scrive il Russo: “Da questo momento non avremo più romanzi o novelle,in cui il protagonista sia il centro fantastico dei suoi dolori e delle sue riflessioni, ma la sofferenza, che nei romanzi giovanili poteva attribuirsi a squilibrio degli individui, ora il triste equilibrio intrinseco del mondo stesso si avvia ad una rappresentazione della vita. E la lingua non è più la lingua di un uomo colto, ma la lingua dei protagonisti stessi”.
La lingua parlata, anzi, aggiunge il Russo, è “la cellula del linguaggio poetico dello scrittore”.
Lo scrittore, invero, avverte la realtà quotidiana e la descrive nella crudezza di forme artistiche e linguistiche.
Per il Russo l’impersonalità dello scrivere si identifica con l’impersonalità del destino umano.
Uno scrittore cristiano, come il Manzoni, può accompagnarci per tutto il racconto o con una parola di fede o può sollevarci nell’attesa della provvidenza divina, ma per il Verga, invece, l’uomo è condannato da un fatalismo opprimente.
Lo stesso sentimento di amore spesso nel personaggio verghiano deve fare i conti colla miseria e con eventi talora cruenti.
Nella Vita dei Campi, in cui l’amore è sentito come profondo dramma, tuttavia si esalta la religione della casa, della famiglia, dell’onestà, motivi, che saranno ripresi e sviluppati ne “I Malavoglia”.
La logica religiosa della famiglia e del travaglio quotidiano assorbono tutta l’opera del Verga.
Dice ancora il Russo :“Il tempio della religione familiare è la casa: Il focolare domestico è Il luogo sacro donde procedono tutte le lotte e le tristezze e ogni tragedia, nel racconto del Verga, è sempre tragedia familiare”.
Accanto al sentimento dell’amore e del focolare domestico si affianca nel Verga, congiuntamente al fascino di un’innata forza bruta, un altro motivo: quella straordinaria capacità sinfonica di tracciare e sottolineare la musica del paesaggio, del mare, del cielo e di tradurre la natura in sentimento umano.
Si deve, peraltro, osservare che il punto, da cui parte il Verga, consiste nella identificazione di una società reale, nel suo regionalismo, nella vita elementare delle masse, nel suo stesso linguaggio dialettale, che è da considerarsi l’unico linguaggio vivo rispetto ad una lingua letteraria morta, astratta, stantia.
La poetica del Verga si forma e si sviluppa contestualizzandosi alla crisi storica specifica della sua regione.
L’attenzione, volta dal Verga al reale storico, possiamo coglierla nella novella Fantasticheria.
La novella consiste in una specie di lunga lettera, in cui lo scrittore ricorda ad un’amica le due giornate trascorse insieme ad Aci-trezza, rievocando in particolare le impressioni suscitate dalla visione della vita e del carattere di certi personaggi di quello sparuto villaggio di pescatori nella costa orientale della Sicilia.
L’elemento valoriale di questa novella consiste soprattutto nel fatto che essa segna una svolta definitiva nella ricerca attenta ed appassionata, che lo scrittore fa, per delineare il contrasto tra il mondo altezzoso e colpevole del lusso e della città e il mondo sano e doloroso della provincia.
Si delinea, in tal senso, il fulcro dell’ispirazione verghiana preconizzante “I Malavoglia”.
Nella Prefazione a “L’amante di Gramigna”, inoltre, ribadisce il concetto dell’impersonalità dell’arte.
Riportiamo dalla Prefazione alcuni brani che ci chiariscono l’evolversi della maturazione artistica dell’autore.
“ Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà l’efficacia dell’essere stato, delle lacrime vere, delle febbre e delle sensazioni, che sono passate per la carne……………………………………………Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia elle sue forme sarà così perfetta, la sincerità delle sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessari, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea, come in fatto naturale, senza serbar alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia d’origine”.
Nel proporre la scrittura come “documento umano” il Verga si mostrava assai preciso nella formulazioni delle sue intenzioni estetiche, nelle quali era implicita una chiara posizione polemica nei confronti del dramma inventato, della letteratura sentimentale, della psicologia d’eccezione.
Proprio per questa posizione polemica l’arte del Verga si presentava nella cultura italiana con una forte spinta innovatrice e per un lungo periodo la critica si trovò impreparata o in posizione di pregiudiziale rifiuto.
Il Capuana fu il primo a seguire le tappe fondamentali della nuova arte del Verga; cominciò con l’indicare nel bozzetto Nedda del ’74 la rottura decisiva col vecchio mondo romantico per il Verga, e l’instaurazione di un nuovo filone per la narrativa italiana.
il “ritorno” del Verga alla Sicilia non era soltanto un itinerario della memoria, che ritrovava il tempo appena intravisto, ma felicemente nella Storia di una capinera, ma segnava la possibilità per la nuova narrativa italiana di uscire dall’idealismo di convenzione per calare, per dirla con il De Sanctis, l’ideale nel reale.
Recensendo, poi, nell’80 le Novelle “Vita dei Campi” il Capuana riuscì a precisare in senso nuovo e moderno il concetto di “forma” e di “stile” penetrando coraggiosamente nel nucleo centrale del problema e dimostrando di capire ciò che altri critici non avevano intuito.
Così si esprime l’illustre letterato: “quando dico forma, non intendo soltanto la frase, ma qualcosa di più elevato: la concezione, tutto l’organismo dell’opera d’arte, che funziona con la pienezza della vita, libera ed indipendente dalla personalità che la creò”.
Alla semplicità quasi nuda del linguaggio verghiano era, pertanto, da rapportare il nuovo concetto di forma.
Partendo da queste premesse il Capuana, con riguardo in particolare a “I Malavoglia” deduceva interessanti spunti di riflessione concernenti la tradizione letteraria e la contestualità storico-culturale.
Per la prima volta i personaggi manzoniani non sono traditi, ma piuttosto trasferiti in un nuovo reale storico, a differenza di quelle narrative di tanti piccoli manzoniani, che si erano allontanati dalla lezione della “storia” che il Manzoni aveva impresso nella sua opera.
Il Torraca apprezzò pure l’opera dl Verga e salutò i Malavoglia come “prova di vigore intellettuale, che aiutano al pari degli scritti di Franchetti e Sonnino, a farci conoscere le condizioni sociali della Sicilia”.
Il Torraca, citando le inchieste di Franchetti e Sonnino, poneva l’accento sull’adesione alla storicità, che, al centro della nuova arte verghiana, si connotava essenziale e sostanziale degli intendimenti estetici dell’autore.
La compresenza di elementi storico-sociali, confluenti all’opera verghiana, è oggetto di riflessione anche da parte del Sapegno, che definisce la componente veristica presente nell’opera dello scrittore siciliano come “la letteratura che meglio di tutte aderisce alla storia vitale, al “ritmo progressivo” della storia, quella che raccoglie la parte più positiva e feconda dell’eredità romantica per trasmetterla alle generazioni future”.
In effetti, dopo il Risorgimento, sotto la vernice della democrazia e della libertà, esisteva una struttura burocratica, incapace di sanare il conflitto tra Nord e Sud e, di conseguenza, la Sicilia era soffocata dalla miseria e dall’ignoranza.
Illuminanti per comprendere appieno questa condizione storico-culturali ci appaiono ancora le parole del Sapegno “ da noi il verismo doveva assumere quel colore specialissimo che lo contraddistingue nel quadro di un’esperienza europea: colore regionale ed epico, che naturalmente accompagnava la scoperta e l’illustrazione di un mondo pressoché vergine e ignoto, il mondo del meridione e delle isole, delle plebi contadine ed artigiane chiuse nella loro opaca renitenza alle forme e agli statuti della civiltà moderna, affioranti, per così dire dal buio di una civiltà arcaica e stranamente sopravvissuta dietro le barriere di una secolare solitudine”.
Il Sapegno esamina il problema della solitudine e del silenzio anche in forma socio-antropologica e lo rinviene nella constatazione di una diffusa mancata coscienza popolare del popolo siciliano, che non si sente pronto a lottare per la rivendicazione dei diritti umani
Compito dello scrittore è, allora, conclude il critico, quello di “interpretare e tradurre in parole il disperato silenzio di una moltitudine estranea e lontana”.
Le plebi meridionali, invero, sembravano immerse in un pessimismo vittimistico senza possibilità di riscatto e salvezza.
Nei termini di una critica di stampo marxista, indulgendo a precise forme di indagine storica con annotazioni socio-antropologiche, riprende il discorso sul Verga il Trombatore, che afferma: “gli esempi del naturalismo e la questione meridionale guidarono il Verga alla scoperta della sua terra, della Sicilia, non di una Sicilia mitica e leggendaria, ma di quella popolazione di derelitti………. Le problematiche storiche congiuntamente a quelle filosofiche spinsero l’autore non a glorificare il progresso, ma a capire il senso drammatico della lotta”.
L’autore non si volge all’“ idoleggiamento” e alla “celebrazione” dei trionfatori, ma si piega alla miseria dei vinti, travolti dalla “fiumana del progresso”.
La novella Libertà ci presenta in modo netto la lacerante condizione della plebe meridionale.
La novella racconta una sommossa contadina durante la spedizione dei Mille: una di quelle violente e cieche espressioni di rancore a lungo covate per le angherie patite. Il popolo, insorgendo contro i suoi oppressori, non persegue consapevolmente e coerentemente un suo obiettivo politico.
L’orgia di sangue si esaurisce da sé col calare delle tenebre; la furia sanguinaria non ha risparmiato neanche le donne e i bambini.
Il giorno dopo giungono i soldati di Bixio a fucilare sommariamente i più indiziati e a riportare l’“ordine” nel paese sconvolto.
Desolanti sono le parole di un carbonaro che aveva partecipato alla sommossa e che adesso viene condotto in galera. “Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra. Se avevano detto che c’era libertà”.
Queste parole sono da considerare non solo la conclusione della novella, ma l’epilogo di una drammatica condizione esistenziale di derelitti “senza aura di scampo”.
Le delusioni, le miserie, le speranze, le lacrime di un intero villaggio tramano la storia de “I Malavoglia” popolato da una plebe, che si dibatte in una vita misera ed angusta senza possibilità di redenzione.
In tutto il romanzo domina la costante dell’oppressione nei confronti del popolo, che giusta l’osservazione del Trombatore, è da reputare la “tonalità grave” di tutto quanto il romanzo.
E, se qualcuno tenta di staccarsi dalla miseria e dall’oppressione, soccombe, come avviene a “Ntoni de “ I Malavoglia”.
E se, qualcuno più astuto e più tenace riesce ad impadronirsi delle leggi economiche e a salire il rango dei dominatori, anche quella è una vittoria effimera, che si risolve in una più tragica sconfitta.
Ci riferiamo in particolare al personaggio mastro-don Gesualdo, che da umile manovale, qual era, giunge a competere con i pezzi più grossi del paese e quasi a dominarli. Tuttavia mastro-don Gesualdo è appena sopportato se non escluso dal mondo dei nobili e dei “galantuomini”.
E quando egli muore solo lontano dal paese, in una stanzetta del palazzo del genero, senza neppure il conforto dell’affetto della figlia, mastro-don Gesualdo,consapevole dell’assoluta vanità e del fallimento di tutta la sua opera, è un vinto ed intorno al suo cadavere si esercita il chiacchierio pettegolo ed impudente della servitù.
Questo romanzo, osserva il Trombatore, “contiene la più alta protesta del Verga, il fremito più vasto della sua sorda e soffocata indignazione”
La rappresentazione di tutta quanta la realtà e il suo svelarsi nelle variegate forme delle classi sociali è senz’altro il principio fondante dell’estetica verghiana.
Ce lo spiega il Verga stesso nella lettera indirizzata all’amico Salvatore Paola il 21 aprile 1878.
“Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande. Una specie di fantasmagoria della lotta della vita, che si estende dal cenciaolo al ministro e all’artista ed assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità di guadagno e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano, lotta provvidenziale che guida l’umanità attraverso tutti gli appetiti alti e bassi, alla conquista della verità.
Insomma cogliere il lato comico o drammatico di tutte le fisionomie sociali, ognuna colla sua caratteristica negli sforzi, che fanno per andare avanti in mezzo a questa onda immensa, che è spinta dai bisogni più volgari o dall’avidità della scienza di andare avanti, incessantemente, pena la caduta e la vita per i deboli e i maldestri.
Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale, resa con mezzi adatti. Il realismo,io,l’intendo così, come la schietta ed evidente manifestazione e l’osservazione coscienziosa, la sincerità dell’arte in una parola : potrà rendere un lato della fisionomia italiana moderna,a partire dalle classi infime,dove la lotta è limitata al pane quotidiano, come nel Padron ‘Ntoni, e a finire nelle varie aspirazioni, nelle ideali avidità di lusso, passando dalle avidità basse alle vanita di mastro-don Gesualdo, rappresentante della vita di provincia all’ambizione di un deputato”.
La precipua attenzione, protesa dal Verga nei confronti del realismo, nei termini e modi suesposti, porta alle estreme conseguenze il pensiero già espresso da Hegel, che concepiva il romanzo come un genere letterario nuovo, che si addice al mondo moderno, potendo accogliere in sé “la prosa della vita reale”.
Inoltre il nostro autore recepisce la lezione di Balzac, che, oltre ad avere ravvicinato la letteratura alla vita reale, studia approfonditamente le ragioni della sua tecnica narrativa finalizzate all’accostamento ai problemi dell’ideologia con quelli dello stile.
Invero sia la commedia umana di Balzac che tutto quanto il mondo verghiano, seguendo l’interpretazione di Lukàcs, possono esseri letti, oltre che come trasposizione dell’ideologia del reale nella pagina scritta, come grande universo linguistico.
La ragione linguistica diventa intrinseca alla logica stessa compositiva e strutturale dei romanzi con efficacia d’innovative tecniche sperimentali.
A proposito delle nuove tecniche, raccordabili soprattutto al romanzo sperimentale, non possiamo non ricordare quanto dice Zola “Il mio scopo non è quello di costatare dei risultati acquisiti, decido solo di esporre con chiarezza un metodo. Se il romanziere cammina ancora a tentoni entro la scienza più oscura e più complessa, ciò non toglie che questa scienza esista.
E’ innegabile che il romanzo, quale noi l’intendiamo, è un vero esperimento che lo scienziato compie nell’uomo con l’aiuto dell’osservazione (E.Zola- Il romanzo sperimentale-tard.it di I.Zaffagnini-Parma-Pratiche- 1980-pag 8)
Soffermiamoci brevemente ad analizzare la frase compresa nel brano zoliano, riguardo al romanzo “vero esperimento che lo scienziato compie nell’uomo e con l’esperienza dell’uomo”.
La fondamentale esigenza, invero, dell’intellettuale del tempo è quella di comprendere tutto l’universo umano e di riproporlo, come già abbiamo ricordato, nei modi propri dell’arte, secondo la formula, che Gramsci propugnerà qualche tempo dopo.
Un’altra parola-chiave è “osservazione”.
Questo principio lo troviamo anche in Verga nella Prefazione a“I Malavoglia”.
“…… ……..Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile per raggiungere la conquista del progresso è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità”.
Le parole del Verga ci esprimono chiaramente la sua posizione nei confronti della fiumana del progresso. L’autore manifesta un certo stupore ed una certa simpatia umana per i protagonisti del “cammino, incessante, febbrile” intenti a raggiungere “la conquista del progresso, ma questo progresso, secondo il giudizio del narratore, può essere considerato “grandioso solo se visto da lontano”.
Con questa affermazione il Verga prende le distanze dalla mitologia del progresso, celebrata in quegli anni e invece tende a sottolinearne gli aspetti negativi: “irrequietudini”, “avidità”, ”vizi”, “contraddizioni”, che connotano la fisionomia socio-antropologica del paese in quel periodo.
Lo sguardo dell’autore è rivolto ai vinti. La sua ideologia lo porta a scrutare il reale con l’osservanza schietta ed appassionata ed al contempo lo spinge a comprendere appieno il suo ruolo di intellettuale.
“Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli, che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori di oggi anch’essi avidi di arrivare, e che saranno sorpassati domani”
Nella parte finale della Prefazione Verga ci testimonia i principi fondamentali della sua arte: la sua osservazione schietta e sincera del reale, la sua poetica dell’impersonalità e la tecnica narrativa della regressione.
Il realismo verghiano, peraltro, espresso nella ricordata lettera al Paola, assume, altresì come nello Zola e negli autori rappresentativi del periodo, una specifica connotazione ideologica.
Da qui la grande valenza del romanzo del periodo, oggetto della nostra trattazione, sino ai nostri giorni, e la sua specifica intenzionalità nel legare uno stretto rapporto tra letteratura-vita ed intellettuale-pubblico.
Le denunce, contenute in tutta la vasta attività narrativa verghiana e degli autori coevi, sono da considerare, giusta l’affermazione del Cesarani, “un’allegoria del mondo disumano nell’ottica degli egoismi padronali e della borghesia capitalistica”.
I personaggi dei romanzi del tempo non sono ideali, ma piuttosto “figure” dell’ideologia del reale, osservata e vissuta dagli autori.
E se ogni personaggio è simbolo, oltre che dell’ideologia, del vissuto dell’autore, ci spieghiamo la profonda differenza tra Stefano, protagonista del Germinal di Zola e Rosso Malpelo del Verga.
Stefano e Rosso vivono entrambi la tragica realtà delle miniere, ma mentre Stefano, come abbiamo visto precedentemente, potrà incamminarsi verso una luce redentrice, emblema di un possibile riscatto, Rosso è vittima sacrificale della lacerante situazione storica, in cui versa la Sicilia.
Rosso Malpelo finisce per acquistare una dimensione protagonistica ed eroica da eroe maledetto.
Come osserva il Baldi “ l’ingresso del punto di vista di Rosso in quel mondo dominato da una legge ferrea, in cui la coscienza non è che riflesso meccanico e accettazione positiva della realtà di fatto, ed in cui il soggetto aderisce senza margine di distacco ad un’oggettività oppressiva e si annulla in esse, apre lo spiraglio della coscienza attiva e del giudizio in opposizione all’ottusità e all’indifferenza, che è tipica dell’ambito, che lo circonda, l’eroe, sotto la spinta dei suoi sentimenti filiali offesi, della sua rabbia di sfruttato e del suo odio di classe per gli sfruttatori giunge a vedere il vero volto di quella società antagonistica fondata sulla violenza e sull’oppressione”. (G.Baldi- Rosso Malpelo in “L’artificio della repressione-tecnica narrativa e ideologica del Verga-Liguori-1980 pp.47-48).
Le due figure, messe in contrapposizione, potrebbero indurci, come è avvenuto per il passato, secondo i paludamenti di stereotipi critici, a considerare il mondo della poetica zoliana estraneo a quello verghiano.
Donde tutti gli accademismi, accentuati da molti “ismi”: regionalismi, provincialismi, naturalismi e quanto altro.
Invero Verga come Zola, e tutti gli altri autori rappresentativi del tempo, seguivano la logica dell’ideologia del reale, sorta dall’osservazione diretta dei fatti e dei personaggi, resi vivi nella loro autenticità attraverso la scrittura, mediante appropriati strumenti stilistico-estetici.
Questa è la più grande lezione del realismo, tuttora presente, e dalla quale la nostra generazione trae insegnamento.

CAPITOLO SECONDO
La “parola” del Verga tra cinema, musica, arte pittorica.
1) Verga e il cinema
2) Dalla novella del Verga “Cavalleria Rusticana”all’omonima opera di P.Mascagni- La “Cavalleria Rusticana” di P. Mascagni e “I Pagliacci” di R. Leoncavallo: un testo unico per la comprensione della musica verista in Italia.
3) Il realismo nell’arte pittorica: G. Courbet- G. Pellizza da Volpeda.
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VERGA E IL CINEMA NEL ‘900.
Nel ‘900 un gruppo di giovani, che partecipavano alla rivista “Cinema”, diretta da Vittorio Mussolini, elaborano un progetto teorico e pratico per un’innovativa concezione del cinema italiano.
Si tratta di intraprendere la strada del realismo che in Italia trova in Verga il suo rappresentante più significativo.
Ha origine nel cinema la cosiddetta corrente del neorealismo, che non soltanto tendeva legare il cinema alla letteratura, ma anche a tutte le altre arti dalla pittura alla musica.
Luchino Visconti, che si era inserito nella Rivista Cinema, elabora un progetto preciso di trascrizione cinematografica de “I Malavoglia” di Verga.
Aderire al realismo nel cinema voleva significare altresì l’abbandono di tutti quei contenuti borghesi, che, nella letteratura come nel cinema, avevano creato una “falsa coscienza”. Nella rappresentazione dei personaggi verghiani, in un habitat nudo e crudo e, al contempo vergine e mitico, il nuovo cinema non intendeva, però, sottoporsi ad una realtà statica.
Attraverso la “lettura del reale” invece i promotori e L.Visconti, in specie, della nuova corrente, traevano linfa per la realizzazione di una tipologia di film-documento, espressione autentica di verità.
Il film-documento assume,inoltre, una valenza altamente sociologica e contribuisce ad inverare un processo culturale, che, come testimonia lo stesso L.Visconti, ci riconduce a Gramsci.
Così si esprime il regista:
“Interessato come sono ai motivi profondi, che rendono inquieta, ansiosa l’esistenza degli Italiani, ho sempre visto nella questione meridionale una delle fonti principali…….La sola letteratura narrativa, nella quale, nel quadro del romanzo italiano, sentivo di potermi accostare, dopo le letture giovanili, al momento in cui col primo film, sia pure con i limiti del fascismo, un tema contemporaneo della vita italiana, era quello di Mastro-don Gesualdo e dei Malavoglia. Poi venne la guerra, con la guerra la Resistenza, e con la Resistenza la scoperta per un intellettuale della mia formazione, di tutti i problemi italiani, come i problemi di struttura sociale oltre che d’orientamento culturale”
Le parole di L.Visconti sono significative per delinearci il dibattito culturale occorso nel decennio anni 40-50 del Novecento.
Ricordiamo, infatti, che data anno 1941 la prima edizione di Conversazioni in Sicilia di E.Vittorini, mentre il 1948 registra l’anno della comparsa La terra trema di L.Visconti, ispirato per l’appunto a “I Malavoglia” del Verga.
La lezione verghiana si riproponeva in quegli anni dopo l’oscurantismo culturale, prodotto dall’avvento del fascismo.
Si sentiva il bisogno di guardare la realtà e l’universo umano tutto quanto, ivi comprese le connotazioni psicologiche ed individuali del personaggio, e di tradurli nella scrittura filmica, nei termini e nei modi della narrativa verghiana. La lingua del Verga diventa la stessa lingua del cinema.
Il film-documento, inoltre, non si esaurisce in un’azione narrativa, ma, come afferma lo stesso Visconti, invita lo spettatore al ragionamento.
Sembra proprio che, dopo il ventennio fascista, prendano corpo in tutte le produzioni artistiche dalla narrativa, alla pittura, al cinema le parole di G.Verga, espresse nella prefazione della sua ultima opera “Dal tuo al mio” (1903)
“ Al lettore non sfuggono, come non sfuggono al testimonio delle scene della vita, il senso recondito, le sfumature di detti e di frasi, i sottintesi che lumeggiano tante cose con la pagina scritta, come la lagrima amara o il grido disperato, suonano nella fredda parola di questa verità e sincerità artistica quale deve essere perché così è la vita, che non si svolge, ahimè, in belle scene e teatri e eloquenti”.
Le parole del Verga preludono alla rivoluzione del cinema italiano del dopoguerra.
Il monito verghiano: l’autenticità delle scene, ispirate alla realtà, la lagrima vera, il metodo di verità e sincerità artistica, che ingloba tutta la vita, quale essa è, nel cinema neorealistico, sono i nuclei fondanti del discorso, che registi da Visconti a Rossellini a De Sica, intendono intrattenere col pubblico.
Le sequenze del film diventano una lingua ed una scrittura, che seguono gli stessi stilemi verghiani.
A buon diritto così il nuovo cinema s’inserisce nel dibattito culturale intellettuale-popolo, che a quel tempo viene teorizzato da Gramsci. Che la lezione di Gramsci fosse oggetto di peculiare attenzione per L.Visconti, per la costruzione di nuove forme di rese artistico-interpretative nel mondo del cinema, lo testimonia lo stesso regista, che dice:
“La chiave mitica in cui avevo gustato Verga non mi fu sufficiente. Sentii impellente il bisogno di scoprire fossero le basi storiche, economiche e sociali, nelle quali era cresciuto il dramma meridionale e fu la lettura illuminante di Gramsci che mi ha consentito il possesso di una verità che attende ancora di essere affrontata e risolta”.
L. Visconti spiega, nel prosieguo del suo discorso, la ragione per la quale la lettura di Gramsci era stata illuminante.
Il regista afferma che “non era stato soltanto impressionato dall’acutezza dell’indagine storica, condotta dal pensatore, ma soprattutto dalle indicazioni pratiche e realistiche in questa contenute.” Ricordiamo, infatti, ancora che Gramsci, a differenza di altri meridionalisti, aveva auspicato l’alleanza tra i contadini del Sud e la classe operaia del Nord, per il perseguimento della reale unità d’Italia, in tutti quanti gli ambiti, da quello storico a quello socio-ecomico e culturale. La riflessione, promossa da Gramsci nell’ambito storico, con particolare riferimento alla questione meridionale, è coincidente con l’assunto concettuale, dallo stesso enunciato e concernente la funzione dell’intellettuale.
La lezione gramsciana viene accolta con entusiasmo dai letterati e dagli artisti del tempo, tra i quali vi è L. Visconti, che dice:
“M’illuminò, inoltre Gramsci, sulla funzione particolare, insostituibile degli intellettuali meridionali per la causa del progresso, una volta che fosse stati capaci di sottrarsi al servilismo del feudo e al mito della burocrazia italiana”.
La Sicilia si presenta così come una metafora della vita della plebe sempre intenta ad un continuo e talora vano lottare.
Agli occhi di Visconti, come di Vittorini e di Quasimodo la Sicilia diventa emblema della storia dell’uomo, delle sue vicende umane, costituite da conflitti e da antagonismi, che creano un dramma essenzialmente psicologico, che ci rimanda al mondo verghiano.
Giovanni Verga, invero, non aveva soltanto creato un grande mondo poetico degli umili, ma aveva fatto rivivere un tempo e una società, affioranti da un’arte autenticamente realistica e al contempo creatrice di verità.
La Sicilia omerica e leggendaria de “I Malavoglia”, di “Mastro-don Gesualdo”,
de “L’amante di Gramigna” non poteva se non essere, conseguentemente, la matrice di ispirazione di un cinema, che, precedentemente mortificato da un gusto borghese e, talora fatuo e pieno di vacua retorica nell’età fascista, trovava il suo riscatto in una produzione artistica, che aveva l’intento di proporre nello schermo, con schiettezza e sincerità di toni, la rappresentazione di un’umanità che soffre e spera.

2
Dalla novella del Verga “Cavalleria Rusticana” all’omonima opera lirica di Pietro Mascagni. La “Cavalleria Rusticana” e “I Pagliacci” di R.Leoncavallo: un testo unico per la comprensione del filone della musica verista in Italia.
Il mondo della grande opera lirica, dalla fine dell’800 agli inizi del ‘900 sente l’esigenza di adattare la lingua musicale a quella dei narratori veristi.
Possiamo considerare l’origine del verismo musicale con la Traviata di Verdi e assai più tardi con la Carmen di Bizet.
I musicisti del tempo pongono alla ribalta del palcoscenico personaggi reali e non più ideali, cari al pubblico borghese di buona parte dell’‘800.
Una vera e propria rivoluzione nel mondo del melodramma è rappresentata dalla Cavalleria Rusticana, musicata da Pietro Mascagni, – (Livorno, 1863-Roma, 1945) – tratta dall’omonima novella del Verga ed adattata su un libretto scritto da Giovanni Torgioni-Tozzetti e Guido Menasci.
Fu rappresentata la prima volta il 17 maggio del 1890 al teatro Costanza di Roma e fu un successo enorme.
Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso, aperto a tutti i giovani musicisti, che non avevano scritto ancora un’opera.
Secondo le direttive del concorso l’opera doveva essere costituita da un atto unico.
Al concorso parteciparono Nicola Spinelli con l’opera Labilia, Vincenzo Ferroni con l’opera Rudello e Pietro Mascagni con la Cavalleria Rusticana, che vinse il concorso.
Dopo la prima rappresentazione della Cavalleria Rusticana il successo si diffuse in forma strepitosa in tutta Italia ed anche all’estero.
Grande fu l’ovazione che accolse l’opera in America, a Filadelphia al Grand
Opera House il 9 settembre 1891 e poi a Cicago il 30 settembre dello stesso anno.
Trionfale fu pure il debutto dell’opera il 30 dicembre del medesimo anno al Metropolitan Opera. In quell’occasione l’opera, che normalmente veniva eseguita assieme ad un’altra opera del compositore Zanetto, precede un frammento dell’Orfeo ed Euridice di Gluck. Da allora innumerevoli sono state e continuano ad essere le rappresentazioni dell’opera in Italia ed in tutto il mondo e sempre con caloroso successo di pubblico e di critica.
Nel 1892, intanto, un altro musicista, ispirandosi a Mascagni, Ruggero Leoncavallo – (Napoli, 1857-Montecatini 1919) – scrive una nuova opera “ I Pagliacci”, che racconta una storia realmente accaduta.
L’opera fu rappresentata per la prima volta il 21 maggio del 1892 al teatro Dal Verme di Milano, sotto la direzione del maestro Arturo Toscanini.
La sua aria più nota “Vesti la giubba”, cantata da Enrico Caruso, fu il primo disco al mondo a toccare un milione di copie di vendite.Il libretto è stato scritto dallo stesso Leoncavallo ed è desunto da un processo istruito dal padre magistrato. I Pagliacci, pertanto, si presentano non come un’opera, che non attinge al verosimile, ma al vero, in perfetta concordanza con le teorie e le istanze estetiche del verismo al tempo dominanti. Sia la Cavalleria Rusticana di P.Mascagni sia “I Pagliacci” di. R Leoncavallo hanno analogia di contenuti, ambientazione, effetti scenico-musicali. Entrambe le opere hanno come sfondo il Meridione; la prima si svolge in un paese della Sicilia, l’altra in un paese della Calabria. La cadenza temporale è ben determinata in entrambe le opere: nella Cavalleria Rusticana l’azione si svolge il giorno di Pasqua, né “I Pagliacci” durante la festa di Ferragosto..
La coralità delle feste paesane, costituita dal pullulare di personaggi genuini ed istintivi, è nelle due opere non solo un aspetto contornuale, ma una componente essenziale connotante le peculiarità del filone dell’opera musicale verista, di cui P. Mascagni e da R.Leoncavallo sono i più significativi rappresentanti.
Sorprendente è, inoltre, l’analogia di eventi e vicende, narrati nelle due opere, l’una tratta dall’opera verghiana, l’altra, dedotta dalla vita reale. Accomuna le opere il tema dominante della passione amorosa e della gelosia. Nella Cavalleria Rusticana si parla dell’amore indomito di Turiddu nei confronti di Lola, che era andata sposa a compare Alfio, quando il giovane era partito per assolvere gli obblighi di leva. Accanto alle figure di Turiddu, Lola, compare Alfio, vivono palpitanti e traboccanti di sentimento altri personaggi: la madre di Turiddu, mamma Lucia e la sua promessa sposa Santuzza.
L’opera si conclude con un grido corale disperato “Hanno ammazzato compare Turiddu”. Compare Alfio, spinto dall’irrefrenabile sentimento della gelosia, scontrandosi in un duello rusticano con Turiddu, lo uccide.
E’ presente nell’opera la concezione la concezione verghiana dell’amore-passione violenta che si conclude colla tragedia.
Già all’inizio dell’opera l’aria, cantata da Turiddu, denominata “La Siciliana”, a sipario calato, modulata con un ritmo del tutto nuovo, concitato e suggestivo, anticipava la costruzione di un mondo di passioni infuocate, dove vicenda drammatica e musica si fondevano insieme.
E’ da sottolineare che è la prima ed unica volta che un’opera contiene una romanza scritta in lingua siciliana.
Segno questo che Mascagni, sull’orma del Verga, per esprimere l’autenticità dello stato d’animo del suo personaggio, lo fa parlare con la sua lingua natia, realizzando quella sintesi perfetta, già postulata dall’estetica verista tra atto linguistico e forma artistico-poetica. Anche gli stilemi della lingua musicale di Mascagni sembrano, peraltro, conformarsi a questo principio.
Riportiamo il testo della Siciliana

O Lola ch’hai di latti la cammina
sì bianca e russa comu la cirasa
quannu t’affacci fai la vucca a risu
biatu cu ti dà lu primu vasu
‘ntra la porta lu sangu è sparsu
e nun importa si ci moru accisu
e s’iddu moru e vaiu ‘mparadisu
si nun c’attrovu a tia mancu ci trasu

Traduzione
O Lola che hai la camicia sporca di latte
sei bianca e rossa come l’albero di ciliegio
quando ti affacci sorridi
beato chi ti dà il primo bacio
dentro casa tua è stato sparso il sangue
e non m’importa se anch’io muoio ucciso
e se capita che muoia e vada in paradiso
se non ci trovo te non c’entro nemmeno

La romanza, che in primo momento, ad uno sguardo superficiale, potrebbe evocare gli antichi schemi della poesia d’amore siciliana e quelli della corrente stilnovistica, inneggianti ad un amore assoluto, che si eleva sino alle sfere del Paradiso, invero, ha delle connotazioni del tutto nuove ed intrise di umana, infuocata, drammatica sofferenza.
Lo notiamo attraverso la decifrazione dei segni linguistici.
Se nella scuola poetica siciliana ed in quella stilnovistica il rapporto analogico tra la donna e la natura è la “rosa” o il “giglio” e la sua apparizione si illuminava solo con un sorriso, che induceva alla contemplazione e alla trascendenza, del tutto differenti, più realistici e più carnali, oseremo dire, sono i segni linguistici che sottolineano l’imperversare dei sentimenti del cantore d’amore della Siciliana.
Lola è raffigurata “bianca e russa come una cirasa”. Gli aspetti cromatici aggettivali “bianca e russa” possono essere considerati come simboli del candore del sentimento puro (bianco), riferibile all’animo genuino ed istintivo del siciliano, mentre il rosso è indice di una passione tumultuosa e prelude al sangue che sarà profuso innanzi. Anche la “cirasa” ha una significazione del tutto realistica e terrestre.
La passione, che sconvolge e domina, fa credere a Turiddu che “biatu” è chi dà “ lu primu vasu” all’amata, anche se “lu vasu” preconizza il dramma che sta per compiersi.
Rosso-sangue sono gli ipersegni della vicenda drammatica, annunciata dal canto espresso in lingua siciliana e scandito da un incalzante ritmo musicale.
La tragedia, invero, è preannunziata dall’aria “La Siciliana” e Mascagni abilmente armonizza gli stilemi musicali alla drammaticità della vicenda.
Osserva Mario Morini in “I Cento anni di “Cavalleria rusticana”:
“Con Cavalleria Rusticana Mascagni aveva squarciato le quinte di cartone e i velari di velluto trasferendo in piazza i suoi sentimenti, le sue passioni: un’autentica piazza siciliana, dove la vita del paese si annoda, gioia e dolore di ogni giorno, scatto ed ineluttabile fatalità”.
L’ineluttabile fatalità, incombente nei personaggi verghiani, ed ora trascritti nelle note musicali di Mascagni, ha fatto dire a Henry Hedward Krehbiel:
“ La Cavalleria rusticana sembra pressoché classica, ha la terribile ferocia di una tragedia greca, ma anche la dignità, che la tragedia greca non ha mai violato”.
Che la Cavalleria Rusticana fosse trasposizione in scena della tragicità di eventi della vita reale, che si ripetono nel tempo, certamente lo ha intuito Francis Ford Coppola, autore dell’opera cinematografica “Il Padrino”.
Il regista, infatti, nel terzo capitolo de “ Il Padrino” propone nella colonna molti brani della Cavalleria Rusticana, opera, che recita, peraltro, il figlio di don Corleone, nel suo debutto, come tenore proprio nella parte di Turiddu al Teatro Massimo di Palermo.
Proprio durante lo svolgimento dell’opera avviene la strage nella quale vengono coinvolti diversi criminali e, all’uscita del teatro, persino la figlia di Michael
Quale maggiore efficacia espressivo-rappresentativa poteva essere attribuita ad un melodramma rivisitato simultaneamente all’evolversi di un evento reale e cruento, cui la stessa lingua musicale del Mascagni si accorda con il modulare di una tonalità lirica, che evocata dal dramma dalla vita reale, è tutta vibrante di quel tumultuoso pathos, che comprende e sottolinea le urla strazianti che il catastrofico evento produce?
Opportunamente il Morini aveva osservato che nella Cavalleria Rusticana “una forte sensualità e un temperamento passionale arroventano l’opera, che dall’inizio alla fine avvince ed emoziona; Mascagni aveva ereditato da Verdi il gusto della musica che scuote il sangue”
Ma nella rappresentazione filmica di Coppola il sangue scorre realmente e copiosamente e le note musicali di Mascagni si adattano ad interpretare la drammatica sequenza, rappresentata dal racconto filmico. Gli stilemi musicali, invero, della Cavalleria Rusticana imprimono la voce vera e dolente del reale, scandita fra trasalimenti dell’animo, angosce e consapevolezza della drammaticità esistenziale. L’orchestrazione di questi codici linguistici musicali, esaltando i moti dell’animo, stigmatizza la forza drammatica degli eventi, in un modulare di un declamatorio lirico, che evoca grida, lamenti, singhiozzi, pianti, che si perpetrano nell’avvicendarsi delle vicissitudini umane. Nel voler rappresentare in un’azione scenica simultaneamente, inoltre, il movimento musicale con l’evento reale, è presumibile che il regista abbia voluto realizzare col linguaggio cinematografico l’assunto categoriale del principio teatro-rappresentazione-verità, seguendo l’insegnamento di Pirandello, secondo il quale “l’arte è prioritaria alla vita”.
Se l’arte, poi, è prioritaria e, se soltanto l’arte ci può svelare la verità, si può comprendere facilmente come gli intellettuali del periodo, seguaci del dettato pirandelliano, sentano l’esigenza di approcciarsi ad ogni forma del reale, dal quotidiano, all’esistente e alla complessità di tutte le componenti etico-psicologiche, intrinseche nell’universo umano, spesso antagonistiche e conflittuali.
La formula teatro-verità-vita viene compresa anche da R. Leoncavallo, che, come abbiamo detto, aveva scritto e musicato l’opera “I Pagliacci”.
L’opera di Leoncavallo presenta analogia di contenuto e di ambientazione con la Cavalleria Rusticana di P.Mascagni.
I protagonisti dell’opera compongono una compagnia teatrale, giunta in un paesino meridionale, Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, per iscenare una commedia, che racconta di un “pagliaccio” Taddeo, che nella commedia viene tradito dalla moglie Colombina. La fictio si confonde con la vita realmente vissuta dai personaggi.
I personaggi principali sono Conio, la moglie Nedda (chiaro richiamo verghiano), Tonio, innamorato di Nedda, ma da quest’ultima respinto e Silvio, contadino del luogo con cui Nedda intreccia un legame amoroso e Beppe, che impersona Arlecchino.
Conio, avvertito da Tonio del tradimento, rincorre i due amanti, ma non riesce a vedere nel volto Silvio, che fugge. Nel frattempo arriva uno degli attori a sollecitare l’inizio della commedia perché il pubblico la reclama.
Da questo momento si comprende che è inscindibile il nodo che lega la vicenda narrata dalla commedia alla vita reale dei personaggi, che la rappresentano. Assume, in tal modo significativa valenza il prologo interpretato da Tonio, che è considerato il primo manifesto esplicito del verismo musicale e che ivi riportiamo:
Si può?.
(poi salutando)
Signore! Signori!… Scusatemi
se da sol me presento. Io sono il prologo:
poiché in iscena ancor le antiche maschere
mette l’autore, in parte ei vuol riprendere
le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami.
Ma non per dirvi come pria: «Le lagrime
che noi versiam son false! Degli spasimi
e de’ nostri martir non allarmatevi!»
No. L’autore ha cercato invece pingervi
uno squarcio di vita. Egli ha per massima
sol che l’artista è un uomo e che per gli uomini
scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.
Un nido di memorie in fondo a l’anima
cantava un giorno, ed ei con vere lagrime
scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano!
Dunque, vedrete amar sì come s’amano
gli esseri umani; vedrete de l’odio
i tristi frutti. Del dolor gli spasimi,
urli di rabbia, udrete, e risa ciniche!
E voi, piuttosto che le nostre povere
gabbane d’istrioni, le nostr’anime
considerate, poiché noi siam uomini
di carne e d’ossa, e che di quest’orfano
mondo al pari di voi spiriamo l’aere!
Il concetto vi dissi… Or ascoltate
com’egli è svolto.
(gridando verso la scena)
Andiam. Incominciate!
Il testo presenta molte affinità con altre tematiche e teorie estetiche, proposte dagli autori della letteratura realistica, da Verga, a Capuana,a Pirandello.
Il nucleo fondante del brano concerne la tematica del vero, che ogni autore dall’artista, al letterato, al musicista deve prefiggersi per dipingere “uno squarcio di vita”.
Comune al Verga e a Pirandello e ai teorici della critica estetica, è l’esigenza, evocata nel testo succitato, per l’autore di “essere un uomo che per gli uomini deve scrivere”. L’invito, inoltre, a considerare gli attori non come “povere gabbane d’istrioni”, ma a comprenderne nell’intimo l’anima, è una chiara concezione di un teatro, che sempre più deve tendere alla verità.Il teatro, per dirla sempre con Pirandello, doveva uscire dalla forma, in cui si era cristallizzato, per tornare al flusso primigenio ed incandescente dell’autentica vita.
La lingua musicale nelle opere di Mascagni e di Leoncavallo, pertanto, tende a ripetere nelle note, come nella scrittura letteraria o nei codici delle arti figurative, la voce possente della natura, nella quale l’uomo riconosce e rivela sua essenza.
Di stampo pirandelliano possiamo considerare anche la romanza cantata da Taddeo “Vesti la giubba”
Vesti la giubba e la faccia infarina.
La gente paga e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
ridi, Pagliaccio… e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto;
in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor…
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto!
Ridi del duol che t’avvelena il cor

E’ facile riscontrare in questo brano la problematica pirandelliana, concettualizzata nella raffigurazione dell’erma bifronte, che da una parte piange e dall’altra ride.
La compresenza, inoltre, di temi verghiani e problematiche pirandelliane, nel filone della musica verista, trova la sua matrice nella comune radice regionalistica dei due autori e nella lettura, che ne fanno, sia pure con differenziazione di stilemi artistici, delle variegate contraddizioni che l’humus siciliano comprende e nel quale si erano appalesate contraddizioni, riflesse altresì, nella realtà non solo socio-economico della regione, ma anche nella condizione esistenziale degli uomini che la abitavano
Il che, come abbiamo avuto modo di osservare, assume agli occhi dei nostri autori, un carattere, che si allontana da un principio particolaristico o regionalistico per trasferirsi, poi, nel paradigma di un’arte, che si rivolge a tutta quanta l’umanità.
Letteratura, in particolare, e mondo musicale percorrono i medesimi itinerari e gli stessi intenti. Esemplificativo del principio esposto può considerarsi lo stessa azione scenica de “I Pagliacci”.
Canio, nel ruolo di pagliaccio impersona un marito tradito dalla sposa Colombina.
La realtà e la finzione finiscono col confondersi e Canio,nascondendosi dietro Il personaggio, riprende il discorso interrotto dalla necessità di dare inizio alla commedia e, sempre recitando, rinfaccia a Nedda la sua ingratitudine e, trattandola duramente, afferma che il suo amore è ormai mutato in odio e gelosia. Di fronte al rifiuto di Nedda di dire il nome del suo amante Canio uccide lei e Silvio,accorso per soccorrerla. Tonio e Beppe, inorriditi non intervengono, ma gli spettatori comprendono troppo tardi che ciò che stanno vedendo non è più finzione, cercano invano di fermare Canio, che, a delitto compiuto, viene arrestato e Tonio esclama beffardo con un acuto declamatorio “ La commedia è finita”
Come nella grande tragedia greca, alla fine, la rappresentazione trova il suo culmine nell’aprodèscaton (imprevisto),mentre alla finzione subentra tumultuosamente la realtà. Concludendo possiamo affermare che le due opere La Cavalleria Rusticana e I Pagliacci sono da ritenere un testo unico, che rappresenta, oltre gli aspetti peculiari della corrente verista musicale,che si intreccia con la corrente letteraria, l’impegno degli intellettuali del tempo a colloquio con il popolo.
Questo ci spiega,inoltre,il fatto che le due opere vengono rappresentate insieme sin dal 1926, anno, nel quale per la prima volta Mascagni al Teatro della Scala,le diresse congiuntamente.

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Il realismo nell’arte pittorica: G.Courbet- G .Pelliza da Volpeda
Il panorama storico-culturale ,di cui abbiamo parlato nella prima parte del nostro discorso, influenza decisamente anche l’arte pittorica.
I pittori rifiutano l’idealismo, si legano al positivismo,alle teorie marxiste.
Conseguentemente mutano la grammatica e l’iconolgia nell’ideazione e nella composizione delle opere d’arte.
I codici della raffigurazione artistica sono realistici e si instaura un rapporto più diretto tra l’autore e il suo pubblico.
L’autore,infatti,tutto calato nel reale, intende colloquiare col fruitore dell’opera d’arte non come artista,ma prevalentemente come uomo.
E’ da ricordar tra gli autori più rappresentativi della corrente realista Gustave Courbet. (1818-1877). Invero abbiamo ragione di ritenere che il Courbet esprime compiutamente, anticipandolo, ancora prima di tanti altri autori coevi, il complesso moto di idee e di ispirazioni artistiche, culminato, poi, nel periodo intercorrente tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del ‘900 in tutta Europa.
Il pittore, nel momento, in cui la società in Francia nel 1848 fu scossa violentemente da tumulti, che determinarono l’abdicazione di Luigi Filippo, si schierò con le insurrezioni popolari.
Nell’opposizione al capitalismo e alla borghesia faceva sue le istanze di Marx, che proprio nel 1848 pubblicava il Manifesto dei Comunisti e si avvicinava alla filosofia del positivismo sociale
Accoglieva inoltre i moniti,che la letteratura francese, da Balzac,a Flaubert, a Zola propagava nell’orizzonte culturale del tempo, maturando novità di pensiero e di forma artistica. Significativa è stata anche per il pittore l’amicizia con Baudelaire e Proudhon. Per meglio comprendere, però, il mondo di Courbet, l’originalità della sua ispirazione e, di conseguenza. il suo modo di leggere la realtà e di comunicarla al pubblico, ci limitiamo ad esaminare una sola opera dell’autore “Lo spaccapietre” (1849)
[Per visionare l’opera, dopo aver selezionato il link sottostante,cliccate e seguite le indicazioni seguite le indicazioni e aprie alla voce “vai alla pag.htp www…]
http://www.francescomorante.it/pag_3/303aa.htm
Fra i molti dipinti di Courbet e, che, in questa sede sembra superfluo enumerare, la scelta è motivata dal fatto che proprio “Lo spaccapietre” appare un documento-pittura conducente al nostro discorso sia per la rappresentazione dei personaggi,assimilabili a quelli di Verga, di Pirandello, Zola, sia per la valenza estetica espressa,che ha come fulcro la natura che parla da sola e che si relaziona con l’essenza stessa dell’uomo.
Opportunamente osserva l’Argan che il pittore nello “Spaccapietre” “più che rappresentare la realtà, si immedesima in essa………………..Un realismo ideologicamente orientato non sarebbe più un realismo, perché non rifletterebbe la realtà com’è ma come si vorrebbe o non si vorrebbe che fosse. Il realismo di Courbet, tuttavia,risponde alla necessità di prendere coscienza della realtà nelle sue lacerazioni e contraddizioni,” di immedesimarsi con essa, di viverla; di formarsi cioè quella nozione della situazione oggettiva, senza la quale l’ideologia non è spinta rivoluzionaria,ma pura utopia”.
Le parole dell’Argan ci inducono a riflettere sull’essenza della creazione artistica dell’autore : i segni pittorici diventano gli stessi segni della natura, nella quale Courbet si immedesima a tal punto da suggellare un modo tanto nuovo quanto suggestivo di leggere tutto quanto il reale per poi comunicarlo in forma autentica al suo pubblico.
Inoltre un’arte, come quella di Coubert, aliena da schemi ideologici e non utopica,del tutto immediata e spontanea,tanto da sembrare originarsi dalla natura stessa,ha l’efficacia di esprimere tutta quanta la realtà, le sue lacerazioni e le sue contraddizioni.
Che forse non è questo il principio fondamentale, che farà muovere la penna dei nostri scrittori e pensatori dell’ultimo scorcio dell’800 e nei primi decenni del ‘900,indicando alla nostra generazione quale debba essere la ragione vera dell’arte nella sua corrispondenza con la natura e con l’uomo in particolare?
La natura stessa diventa parola e la parola non può che avere un unico destinatario l’uomo, anzi per dirla con Kant, l’uomo in quanto uomo .Per Courbet l’arte trova il suo inveramento creativo-artistico in ciò che vede (lettura diretta del reale), in ciò che sente (sentimento puro ed immediato estraneo ad ogni forma di utopico ed astratto idealismo), in ciò che vuole (volontà ed impegno dell’artista-intellettuale nella costruzione di un’opera d’arte autentica e di comunicarla ad un pubblico, che non è più soltanto quello borghese, ma che comprende tutto quanto il popolo.
Uno dei suoi detti più significativi è,infatti; “ Fai quello che vedi, che senti, che vuoi” può essere considerato il proclama dell’artista-intellettuale rivolto alle nuove generazioni.
Courbet stesso delineò in principi programmatici del realismo (G. Courbet-Il realismo, Lettere e scritti a cura di M. De Micheli-ed.Treccani,Milano 1954 pp.25-26)
“L’attributo di realista mi è stato imposto come agli uomini del 1830 s’impose quello di romantici. In ogni tempo le etichette non hanno mai dato una giusta idea delle cose; se fosse stato diversamente le opere sarebbero superflue.Senza soffermarci sulla maggiore o minore proprietà di una qualifica,che nessuno, giova sperarlo,è tenuto a comprendere sino a fondo,mi limiterò a qualche parola di chiarimento per tagliar corto ai malintesi. Ho studiato, al di fuori di qualsiasi sistema e senza prevenzioni,l’arte degli antichi e quella dei moderni.Non ho voluto imitare gli uni, né copiare gli altri;né ho avuto l’intenzione di raggiungere l’inutile meta dell’arte per l’arte. No .Ho voluto semplicemente attingere dalla perfetta conoscenza della tradizione il sentimento ragionato e indipendente della propria individualità. Sapere per potere,questa fu sempre la mia idea. Essere capace di rappresentare i costumi, le idee,l’aspetto della mia epoca, secondo il mio modo di vedere;essere non solo un pittore ma un uomo; in una parola fare dell’arte viva, questo è il mio scopo”.
Al fine di chiarire ancora qualche aspetto di una pittura del periodo dialogante con le tematiche esposte dalla corrente cosiddetta del verismo, ma che noi preferiamo chiamare del realismo, accenniamo all’opera di Giuseppe Pel- lizza da Volpeda (1868-1908),sincero e convinto pittore di fine secolo ‘800, interprete profondo delle istanze sociali,che si agitavano nel tempo.
II pittore volge il suo sguardo all’umanità colla forza, oltre che del suo pensiero, con l’intensità di un palpitante sentimento di viva condivisione alla lotta, intrapresa dal popolo, per il proprio riscatto socio-economico ed esistenziale.
Sue sono le parole, scritte nel 1980: “Il mio scopo è quello di esprimere le verità che arrivano al mio intelletto……….Amo più essere giusto nel pensiero che nella forma”.
La sua opera più famosa è il Quarto Stato.
In quest’opera l’autore rivela fede nel progresso e nell’emancipazione del popolo, allineandosi, in tal modo ai processi evolutivi e ai fermenti di pensiero, che ebbero inizio nei primi decenni dell’’800, ma che si svilupparono concretamente anche in movimenti a carattere nazionale e sopranazionale verso la fine dell’800, argomento, di cui abbiamo parlato all’inizio del nostro discorso.
Secondo l’Argan, il Quarto Stato è Il primo documento di fermo impegno dell’arte nella lotta politica del proletariato.
[ Per visionare l’immagine seguire le procedure innanzi indicate a proposito di Courbet]

http://www.arte.it/opera/quarto-stato-1606

Quarto Stato (1901), olio su tela, cm 293×545, Milano, Museo del Novecento .
Il Quarto Stato fu dipinto da Pellizza tra il 1898 e il 1901 e venne acquistato per pubblica sottoscrizione dal Comune di Milano nel 1920; da allora fa parte delle Civiche Raccolte d’Arte (oggi Galleria d’Arte Moderna presso palazzo Belgiojoso Bonaparte in via Palestro). Pellizza decise il titolo con cui il quadro è universalmente noto poco prima di inviarlo alla Prima Quadriennale di Torino del 1902, in sostituzione del precedente , con una più consapevole scelta di classe, maturata a margine di letture socialiste e anche di una riflessione sulla Storia della rivoluzione francese di J. Jaurès, che in quegli anni usciva in edizione italiana economica e a dispense. Il soggetto è ispirato ad uno sciopero di lavoratori, un tema che aveva interessato i pittori del realismo europeo alla fine dell’Ottocento (da Lo sciopero dei minatori di Alfred-Philippe Roll del 1884 a Sciopero di Plinio Nomellini del 1889, a Una sera di sciopero di Eugene Laermans del 1893).Rispetto ai contemporanei il quadro di Pellizza rifiuta caratterizzazioni di eccitata protesta o di passiva rassegnazione, ma legando il tema iconografico dello sciopero con quello della sfilata che caratterizzava le celebrazioni della festa dei lavoratori, presenta una schiera di braccianti che avanza frontalmente, guidata in primo piano da tre persone in grandezza naturale: un uomo al centro affiancato, in posizione leggermente arretrata, da un secondo lavoratore più anziano e da una donna con un bimbo in braccio. La scena si svolge su una piazza illuminata dal sole chiusa sul fondo da folte macchie di vegetazione, che schermano anche le architetture esistenti, e da una porzione di cielo bluastro con striature rossastre iscritta in una cornice centinata. L’organizzazione dei personaggi fu lungamente studiata da Pellizza attraverso disegni preparatori a carboncino e gesso di grande suggestione compositiva e chiaroscurale: disegni singoli per i tre protagonisti, a gruppi per i personaggi in secondo piano, e di dettaglio per teste o mani delle ultime figure sul fondo. Come i tre personaggi principali non si collocano su un’unica linea ma hanno un’impostazione leggermente a cuneo, così anche i personaggi in secondo piano sono solo apparentemente disposti a schiera, perché in realtà, come è ben evidenziato anche dalle loro ombre, si distribuiscono secondo una linea ondulata ribadita da un analogo comporsi del movimento delle mani nonché dal ritmo e dalla direzione delle loro teste. Questa soluzione contribuisce a evitare che il tutto appaia statico e greve, e a suggerire invece un movimento ritmico e continuo, che ben rappresenta ed evidenzia l’idea dell’avanzata. Anche le diverse condizioni di luce concorrono ad accentuare questa impressione di moto, perché mentre lo sfondo del cielo rappresenta un tramonto, le figure sono viste in una luce quasi meridiana: si accentua in tal modo l’idea dì un trascorrere del tempo e quindi di un collocarsi dell’episodio in uno spazio e in un tempo apparentemente unitari e contingenti, ma, in realtà, espressione di una dimensione più articolata e capace di alludere a un lampo e a una natura che diventano il simbolo di una storia e di valori più universali. In essi, infatti, si materializza l’avanzare inarrestabile di uomini e donne le cui connotazioni descrittive di età e di classe vengono rielaborate e riassorbite in forme nutrite di una profonda cultura pittorica che attinge ai modelli rinascimentali (Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Botticelli) lungamente studiati nei musei di Firenze, nelle Stanze e nei Palazzi Vaticani, e sulle fotografie Alinari, che di tali capolavori documentavano efficacemente forme, ritmi e articolazioni compositive. La volontà dell’autore di misurarsi al tempo stesso con la contemporaneità e con la storia si traduce non nella semplice riproposizione di un episodio contingente di uno sciopero o di una manifestazione di protesta, da cui pure aveva tratto fin dal 1891 la prima idea del quadro – in una ricerca che aveva prodotto il più oggettivamente naturalistico Ambasciatori della fame del 1892 e l’interpretazione meno oggettiva e fortemente simbolista di Fiumana del 1895-96 -, ma nella ideazione di un quadro capace di esaltare l’oggettività delle forme e di simbolizzare tutto il cammino che la classe lavoratrice aveva fatto e si preparava a compiere, un cammino di affrancamento dall’abbrutimento della fatica verso una più umana consapevolezza del proprio valore e della propria forza, un percorso frutto di azione ma anche di pensiero.
Un simile elogio della contemporaneità non poteva essere realizzato se non con una tecnica capace di essere assolutamente moderna, e cioè scientificamente controllata nei passaggi costruttivi della figura ma anche nello studio degli accordi e dei contrasti delle luci a partire dalle basi offerte dalla fisica e dalla chimica ottocentesche. Il Quarto Stato è un’opera complessa, frutto di una tecnica cromatica matura ed efficace. Sulla grande tela, preparata a colla e gesso, Pellizza tracciò le linee di riferimento necessarie per costruire i numerosi personaggi su vari piani e la scena d’ambiente, utilizzando veline ricavate a penna sulla base di diversi cartoni a carboncino; intervenne poi col colore che usò puro, nella ricca gamma di toni messa a disposizione a fine Ottocento dalla casa parigina Lefranc, e che applicò a punti e lineette secondo le leggi del divisionismo, per rendere non solo effetti convincenti di luce ma anche di ariosità e di massa sia nel paesaggio sia nelle figure. Nel piano d’appoggio dominano tonalità ocra e rosate, che trovano il loro punto di massima accensione nel gilet rosso del personaggio in primo piano; nelle figure gli abiti sono realizzati con colori verdastri e giallo sulfurei, ottenuti con una ripetuta sovrapposizione dei vari pigmenti colorati, studiati nelle loro interferenze e nei loro timbri sulla base di cerchi cromatici del tipo elaborato da N.O. Rood (Modern Chromatics uscito a Londra nel 1879), capaci di determinare particolari intensità di toni sfruttando le leggi del contrasto e della complementarità. Anche la dimensione e la direzione delle pennellate contribuiscono a costruire le forme in modo tale da garantire a esse volume pur senza accentuarne la pesantezza o la robustezza. Analoga sapienza denotano le macchie di vegetazione che mediano con il loro controluce e la ricchezza de! fogliame tra la piena luminosità del primo piano e il corrusco tramonto di fondo. Proprio queste caratteristiche di serena oggettività, ma anche di forza e di sicura determinazione hanno contribuito a definire il valore simbolico dell’opera adottata come manifesto dai lavoratori e dalle loro associazioni fin dall’inizio della sua storia espositiva, all’origine di una lunga serie di usi e di riprese soprattutto nella seconda metà del Novecento.

[Testo di Aurora Scotti, tratto da Cento opere. Proposte di lettura, in Enciclopedia dell’arte, Milano (Garzanti) 2002]

CAPITOLO TERZO
Verso la “lettura” del paesaggio verghiano
1) Il paesaggio nel Verga
2) Gli archetipi letterari nel paesaggio verghiano: Teocrito e Virgilio-analogie e contrapposizioni-

1
Il paesaggio nel Verga
Il nostro discorso, sino adesso sviluppato, ci convince che l’opera d’arte,nel periodo,oggetto del nostro studio, si realizza “iuxta naturae principia”.Questo presupposto,invero, presente nell’età classica, viene riproposto dal Verga, che lo adatta, pero,al contingente storico e al reale umano ed esistenziale, in cui lo scrittore vive ed opera. Nel Verga,giusta la congettura critica del Bachtin (M.Bachtin-Le forme del tempo e del romanzo-Einaudi-Torino- 1979)tempo storico o lineare tende a sparire,riassorbito nel ciclo eterno della natura”. Il che ci induce a considerare il paesaggio verghiano nella sua storicità temporale e al contempo nella sua idealizzazione simbolica.
Lo stesso Bachtin, nell’intento di focalizzare il concetto di cronotopo nell’opera verghiana, adduce ad esemplificazione la pagina iniziale de “I Malavoglia”,nella quale vengono presentati i personaggi ambientati in un paesaggio, che ha connotazioni del tutto realistico-naturalistiche.
“ Un tempo i Malavoglia erano stati in paese numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”. Il paesaggio, che fa da sfondo alla vicenda, che lo scrittore si accinge a narrare, è quello delle burrasche ed assume un carattere metaforico preconizzante le avversità, verso cui i personaggi sarebbero andati incontro.
“Le burrasche che avevano disperso di qua e là gli altri Malavoglia erano passate e senza far gran danno alla casa del nespolo e sulla barca ammarata sul lavatoio”
Gli elementi descrittivi sono realistici e raffigurano una perfetta coincidenza tra storia e paesaggio,intriso di sofferenza. Il paesaggio,tuttavia, nel Verga si trasferisce sul piano dell’idillio. Acutamente, al riguardo,il Bachtin definisce, puntualizzando nel testo verghiano l’unità organica tra spazio e tempo, in cui si muovono i personaggi e si snodano le loro vicende, cronotopo il risultato della resa artistica dell’autore nella descrittività paesaggistica.”L’idillio”, dice lo studioso, “è l’unione della vita umana e della natura, l’unità del loro ritmo, il comune linguaggio per i fenomeni della natura e per gli eventi della vita umana”.
L’intelligente affermazione critica del Bachtin ci motiva alla lettura,sia pure brevemente sommaria di alcuni loci verghiani. Il motivo del paesaggio in Verga,come possiamo dedurre dal brano, che ci apprestiamo a riportare, talora assume l’aspetto valoriale-simbolico dell’accumulazione della roba.
Si legge nella novella “La roba”
“Un uliveto folto,come un bosco,dove l’erba non spuntava mai e la raccolta durava fino a marzo- Erano gli ulivi di Mazzarò- E verso sera,allorché il sole tramontava rosso e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio al maggese, e i buoi che passavano al guado lentamente col muso all’acqua scuri; e si vedeva nei pascoli lontani della Carinzia nella pendice brulla,il fischio del pastore echeggiava nelle gole e il capannaccio che risuonava or sì or no, e il canto perduto nella valle.-Tutta roba di Mazzarò-“
Il paesaggio è coerente alla stessa vita di Mazzarò- Dice il Luperini: “Uomo e natura si scambiano le parti in una sorta di panismo lirico antropocentrico”
Analogamente quando mastro-don Gesualdo s’incammina per i campi, che costituiscono il cumulo della sua ricchezza, attraverso la quale tenta con fatica il suo riscatto sociale, lo sfondo naturalistico, nel riflettere l’immane fatica dell’arrampicatore sociale, si colora di fosche tinte, espressione di disperazione e solitudine.
Leggiamo
…….Brontolava ancora allentandosi nell’ambio della mula sotto il sole cocente: un sole che spaccava le pietre adesso, e faceva scoppiettare le stoppie quasi si accendessero. Nel burrone, fra i due monti, sembrava d’entrare in una fornace, e il paese in cima al colle, arrampicato sui precipizi, disseminato in rupi enormi, minato da caverne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro, rugginoso, sembrava abbandonato, senza un’ombra, con tutte le finestre spalancate nell’afa, simile a tanti buchi neri; le croci dei campanili vacillanti nel cielo caliginoso…………………
Osserva al riguardo G. Mariani (Letteratura Italiana- I Maggiori- vol.II-Marzorati ed. –Milano-1956-pag.1239) “La fede nella roba dà luogo a un dolcissimo canto che celebra la poesia del paesaggio, ma anche il paesaggio esiste in quanto roba, in una disperata sintesi che è certo una delle più alte conquiste verghiane. Da ora in poi il paesaggio non esisterà come tema a sé, ma come spietata ed amara conquista d’ogni giorno che l’uomo “nato per la roba”compirà senza soste, con implacabile ardore, bruciando se stesso e i suoi affetti in un’implacabile ardore, che ha come ultima meta la disperazione e la solitudine”.
Concludendo la sua giornata mastro-don Gesualdo si abbandona all’idillio contemplando nella Carinzia la luna accanto alla sua fedele e devota Diodata.
“Egli uscì furori a prendere il fresco.Si mise a sedere su un covone, accanto all’uscio,colle spalle al muro,le mani penzoloni tra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofone. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle era illuminata da un chiarore di alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore,anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi,come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si muovevano per la china , e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi .Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente gli altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio…………………………Egli non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli.Ne aveva portato delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino!……”
E’ stato giustamente osservato che il brano che abbiamo riportato rappresenta l’unico momento di idillio, vissuto dal personaggio.
La natura non si presenta, come nel racconto della prima giornata di travaglio arsa, arida, brulla, ma viene illuminata dal chiarore lunare e l’atmosfera è umbratile. La suggestione di quel paesaggio evoca in Mastro-don Gesualdo i ricordi della sua fanciullezza, il duro lavoro affrontato prima di poter possedere quel magazzino, che sembrava immenso nel buio.
Commenta A.Momigliano (A.Momigliano in Da Dante,Manzoni,Verga-D’Anna ed. pp.259-60)
“Dovunque penetra il respiro tranquillo di don Gesualdo, che, dopo la corsa sotto il cielo in fiamme, allenta il corpo e la mente, lascia che la calma dell’ora tarda smorzi la sua fatica, si ristora nella buia frescura della notte. La solitudine ridesta i ricordi lontani di don Gesualdo travagliato nella conquista dell’agiatezza: è un momento di poesia nella sua vita infaticabile, la poesia della sua esistenza di lottatore, il respiro di sollievo di chi è salito e ripercorre con l’occhio l’ascesa. Nemici, pericoli, liti, ostacoli, tutto ritorna in quest’ora di ricordi, ma raddolcito dalla lontananza, immerso nella serenità della notte estiva,ammorbidito e sfumato di tenerezza dalla vicinanza muta di quell’umile donna amata(Diodata)”
Come possiamo arguire dalle parole del Momigliano si tratta soltanto di una parentesi idilliaco-lirica all’interno del romanzo. Poi l’idillio svanisce e nel ricordo della sua ascesa sociale mastro-don Gesualdo ripropone in modo incalzante il tema della roba. Ne “I Malavoglia”,invece, il paesaggio assume un carattere più costantemente consolatorio ed unitario.
Nel paesaggio, sembra realizzarsi, sia pure con tonalità melanconica,il rapporto armonico tra l’uomo e la natura. La scrittura narrativa, allora, diventa cifra poetica nel momento stesso in cui il Verga trasferisce voci e colori della natura nella vita semplice degli umili personaggi.
L’idillio, inoltre, sia ne “I Malavoglia” sia in molte novelle, scritte dal Verga, emblematizza il ritorno al sogno del passato, a quella assolutezza edenica, dispersa e travolta dalla corrente del progresso. Ad esemplificazione leggiamo da “I Malavoglia” L’addio di ‘Ntoni
“E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio, poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta del nespolo mentre il cane gli abbaiava dietro e gli diceva che con il suo abbaiare era solo in mezzo al paese Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmeo lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un suo modo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora ‘Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciolo della vigna di massaro Filippo. Così stette gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare che gli brontolava sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva,e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie.Sulla riva,in fondo alla piazza,cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardar i Tre Re che luccicavano e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia……………………..Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro,riprese la sua sporta e disse:-Ora è tempo di andarmene,perché fra poco comincerà a passar gente.”
Assai mosso è il sentimento che anima il lettore di questo brano mentre lo induce a riflettere. ‘Ntoni decide di andarsene,di rompere con la sua storia presente; è un atto di ribellione, anche se il personaggio sa di incamminarsi verso l’ignoto. Soltanto la natura riesce a parlare al suo animo con voce genuina ed autentica. Il mare, avvertito come ciclo perenne di essere e divenire “di qua e di là dove nasce e muore il sole…….brontolava”. E’ un mare aperto “senza paese” che sa parlare ed ascoltare. E’ la voce di un amico.
All’immensità del mare illuminato dalle prime luci dell’alba si contrappone il paese tutto nero. L’oscurità del paese è una connotazione dell’impossibilità e della tragicità del vivere del personaggio. Quando l’alba comincia a spuntare, però,‘Ntoni riprende il suo cammino allontanandosi definitivamente dalla casa del nespolo e dal suo paese “tornò a chinare il capo e a pensare a tutta la sua storia……………..tornò a guardare il mare, che si era fatto amaranto,tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata, riprese la sua sporta e disse:- Ora è tempo di andarmene,perché tra poco comincerà a passare gente…”.
Il contrasto tra l’incanto incontaminato della natura e il buio del contingente storico reale ingenera il paesaggio del diario dell’anima di ‘Ntoni.
Soltanto la natura ha una parola di conforto per il personaggio nel momento,in cui si trova da solo a colloquio con essa.
Quando,invece, il paesaggio comincia a movimentarsi di persone, che iniziano il quotidiano lavoro, a ‘Ntoni non rimane altro che guardare ancora una volta il mare e andarsene.
La solitudine di ‘Ntoni si compendia nella solitudine del paesaggio (in mezzo alla piazza scura e deserta; tutti gli usci erano chiusi in mezzo al mare). Il personaggio, giusta l’annotazione contenuta nel testo-L.Poma-C.Ricciardi- Il secondo Ottocento-2002-Le Monnier a pag.189-“per la sua condizione di senza terra è assimilabile con un’altra metafora al mare che non ha paese “nemmeno lui”.
Ntoni vorrebbe ascoltare la voce del mare, che evoca la perennità di una vita ciclica ed eterna, ma allorquando si accorge che anche il mare anzi in Aci Trezza “ha un modo tutto suo di brontolare e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico”, il mare stesso diventa simbolo dell’affaccendarsi vorticoso dell’umana fatica per la sussistenza tra sussulti e impedimenti (il gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe).
A questo punto avviene la separazione tra personaggio e mare. ‘Ntoni deve allontanarsi, deve iniziare il suo cammino di ulisse senza ritorno e senza il conforto della voce amica del mare e non più rischiarato nell’anima dalle prime luci dell’alba.
Il contrasto dialettico, tra il mondo incontaminato della natura e la coscienza tragicamente sofferta di sua una frattura insanabile e conflittuale con il reale è al centro della novella Jeli il pastore, compresa nella raccolta Vita dei Campi.
Dall’incipit della novella Jeli il pastore
“Jeli, il guardiano di cavalli aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino, ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della Bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio alla mandria.Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso. Il suo amico don Alfonso mentre era in villeggiatura andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi e dividevano fra loro i buoni bocconi del padroncino, e il pane d’orzo del pastorello, o le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell’eccellenza al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene la loro amicizia fu stabilita saldamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, o montare correndo sul dorso nudo delle giumente ancora indomite, acciuffando per la criniera la prima che passava a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti,e dei loro salti disperati. Ah! Le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! I bei giorni di aprile,quando il vento accavallava ad onde l’erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli! I bei meriggi d’estate, in cui la campagna bianchiccia, taceva sotto il cielo fosco e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! Il bel cielo d’inverno attraverso i rami nudi di mandorlo che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell’azzurro! Le belle sere di estate, che salivano adagio adagio come la nebbia, il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzio melanconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse-iuh! Iuh-iuh!-che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all’alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti,così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che, andavano accendendosi in cielo, vi piovessero in cuore, e l’allagassero.”
Di particolare rilevanza è questa pagina sia per la panoramica della poetica verghiana sia per il messaggio in essa contenuto.
Per quanto attiene alla poetica l’autore realizza una scrittura tanto pregna di poesia quanto più la sua penna trasferisce nel foglio la voce della natura stessa.
Il messaggio, inoltre, che viene evocato è quello del dualismo natura-società. La natura è appagante per la vita autentica dell’uomo; dalla medesima derivano gioia, contemplazione estatica, moti di meraviglia e sincerità di rapporti.
Nell’età infantile, nel contatto colle forze vergini della natura,Jeli riesce a legarsi di sincera amicizia con il signorino Alfonso,infrangendo, in tal modo le barriere, che le convenzioni sociali imponevano. Ma allorquando il reale, con tutte le sue sovrastrutture di ordine socio-economico, subentra al vago-indistinto del sogno, che la natura aveva infuso al primitivo ed umile pastorello, la vicenda umana diventa realisticamente cruda e a questa si reagisce con istintiva violenza e con atti efferati.
E’ significativo che l’autore abbia descritto un paesaggio tanto soffuso di luci e colori soltanto nella prima parte della novella.
Segno questo che il paesaggio diventa metafora dell’animo di Jeli, attesa di una vita da vivere in armonia colla natura.
Il rapporto edenico Jeli-natura, però, s’infrange quando l’umile pastorello viene inviluppato dalla realtà e dalla società, in cui è costretto a vivere.
Notiamo Jeli, all’inizio della novella, muoversi fra i verdi prati in una cornice naturalistica propizia : “le belle scappate per i campi mietuti……….i bei meriggi d’estate in cui la campagna taceva…….i grilli scoppiettavano fra le zolle…….”.
La polifonia delle voci della natura e la sua policromia irradiano di gioia e spensieratezza Jeli. Anche nella cadenza di una prosa snella e al contempo concitata,ritmata da molti segni di interpunzione esclamativi, si delinea il trasalimento dell’anima genuina e spontanea di Jeli, che al pari degli antichi cantori, si accompagnava, talvolta, con lo zufolo, anche se suonava sempre le stesse note. L’incanto della natura riconduceva alla memoria eventi lontani e gioiosi, quali la festa di S. Giovanni, la notte di Natale con struggente nostalgia,mentre sembrava che le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore ,e l’allagassero.
Interessante è il giudizio critico, espresso da Asor Rosa (Asor Rosa- Il caso Verga-Palumbo-1973-pp.45 sgg.)
“In Jeli il pastore esprime a modo suo il sogno mitico di uno stato di natura che precede la costituzione di una società di uomini con le sue strutture e con le sue leggi……………………………………..La contrapposizione di base su cui nasce l’invenzione del racconto è perciò questa : da una parte Natura più Jeli,dall’altra la società tutta (tutto il mondo meno Jeli).In mezzo un abisso storico incolmato e (se si deve giudicare proprio dalla vicenda di Jeli) irrimediabilmente incolmabile……………………..Jeli è parte effettiva della natura, colla quale per l’appunto intrattiene un profondo, misterioso colloquio, che non ha soste”
Jeli, in effetti,come si dice nella novella era piovuto dal cielo e la terra lo aveva raccolto. Ma la terra, che lo aveva raccolto,si relazionava ad una società piena di storture e di contraddizioni.
Al pastore,che sapeva comunicare con la natura, era inaccessibile quel mondo immerso nell’ipocrisia,nella falsità,nella menzogna.
E’ un mondo questo ignaro al pastore e di cui disconosce costumi e leggi. Non potrà sopportare di essere tradito dal suo migliore amico il signorino Alfonso che gli concupisce la moglie. Jeli in un impeto primordiale d’ira ucciderà il rivale accoltellando alla gola (rituale di duello rusticano presente nella Cavalleria). Quando Jeli, poi, viene condotto davanti al giudice per essere processato, pronuncia questa frase: -Come!—-Non dovevo ucciderlo nemmeno——Se mi aveva preso la Mara!———–
Queste parole, che concludono la novella sono coerenti a fissare in modo preciso la fisionomia del personaggio,vigile scrutatore delle leggi della natura, renitente ed inconsapevolmente avverso a quelle della società, in cui viveva il suo quotidiano.
L’elementarità del paesaggio, come è stato detto, rappresenta la stessa elementarità del personaggio e ne esprime tutti gli attributi e le caratteristiche allo stesso connaturate.
Comprendiamo,in tal modo, come il paesaggio figura del personaggio stesso, si diversifica nei vari momenti compositivi dell’opera verghiana.
Vediamo,infatti, come nella raffigurazione di Rosso Malpelo, destinato a soccombere al suo atroce destino, è assente ogni componente idilliaca all’interno dello scenario, in cui si muove il caruso.
Domina nel luogo dell’incessante,faticante e disumano lavoro il colore nero della lava quasi a rappresentare la tragicità cupa dell’esistenza. E seppure c’è uno squarcio di elemento paesaggistico “il mare turchino e l’azzurro del cielo”, questo è visto in contrapposizione al buio della miniera, al tragico e doloroso vissuto del personaggio,che proprio da quel buio sarà inghiottito senza più riapparire.
Dice il Luperini ( R.Luperini-La scrittura e l’interpretazione-Storia e antologia della letteratura italiana-vol. V a pag.355)
“Il paesaggio evoca l’inferno:rena, roccia,picchi e burroni senza un segno di vita………..La miniera è il simbolo del labirinto, dello smarrimento nelle viscere della terra, ma anche della prigione, da cui non si può evadere che con la morte. Malpelo si identifica totalmente nel mondo sotterraneo fino alla scelta volontaria dell’annientamento in quel “buco nero” opposto al mondo degli altri, della luce, della vita comune, che lo ha escluso e rigettato per sempre tra le creature maledette.”
Diversamente si atteggia il paesaggio, che contorna il personaggio della Lupa. Il paesaggio è assolato e sembra ardere della stessa passione, che infuoca la Lupa “….la gnà Pina era la sola anima che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa”
La campagna, che fa da sfondo all’errare della Lupa, simboleggia lo stato d’animo del personaggio, pervaso da indomabile passione. I sassi sono,infatti,infuocati, le stoppie riarse e tutta l’aria respira di afa.
E’ mirabile come il Verga con efficacia stilistico-descrittiva fa palpitare la natura con gli stessi sentimenti, che si agitano nel personaggio. La resa artistica compiuta dell’immedesimazione personaggio-natura conferisce al racconto un tono lirico-simbolico di alto significato poetico. Per comprendere ancora maggiormente la valenza, che il paesaggio assume nella poiesi artistica dell’opera verghiana, non possiamo non ricordarci di un’altra novella Malaria.
Sembra che il Verga, nello scrivere questa novella abbia voluto trasferire sul piano lirico-simbolico le parole-documento, comprese nell’Inchiesta di Franchetti e Sonnino (Frianchetti e Sonnino-La Sicilia-Firenze 1925- pp. 44-45)
“ Triste dote della vasta e ferace terra( terra benedetta da Dio, scrive il Verga) pianura di Catania è quella di essere il luogo dove maggiormente predomina la malaria e fanno stragi le febbri intermittenti e perniciose…..I Lavoratori lavorano tutto il giorno sotto la sferza di un sole cocente, e la notte dormono all’aperto, senza riparo di sorta, in mezzo ai miasmi micidiali: parecchi ne muoiono lì per lì, e molti riportano a casa i germi di una lunga malattia che li renderà inabili al lavoro o li trascinerà sicuramente alla tomba. E ciò per guadagnarsi per una o due settimane poche lire di salario!…”.
Dall’incipit della novella Malaria
“E vi par di toccarla con le mani!- come della terra grassa che fumi là, dappertutto, torno, torno alle montagne-che la chiudono da Agnone a Mongibello incappucciato di neve- stagnante nella pianura, a guisa dell’´afa stagnante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera,e l’estate arsa; vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno,e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte,senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandria, nel gran silenzio volan via le cuttrotole silenziose e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre gonfie, levando il capo all’ombra dei giunchi secchi. E’ la malaria che vi entra nelle ossa col pane che mangiate,e se aprite bocca per parlare,mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate al basto della mula che va all’ambio, colla stessa bassa”
In questa novella protagonista non è l’uomo, ma la malaria, che incombe sugli esseri umani e ne scandisce il destino.
La malaria accomuna gli elementi della natura, uomini e animali in un cammino di sconfitta e di morte.
All’interno della novella possiamo anche ravvisare le contraddizioni, già denunciate dall’Inchiesta di Franchetti e Sonnino, esistenti tra la fertilità della terra siciliana e le condizioni di fragilità e di miseria degli uomini, che la abitano. Il che fa vibrare nel Verga un profondo pathos, che si riverbera negli stilemi compositivo-descrittivi di un paesaggio desolato, che diventa, al contempo,parafrasi dello stato d’animo dei personaggi, che lo popolano. La natura è dominata dalle stesse leggi, che governano l’uomo: miseria e sofferenza.
Il sole,che appare nello scenario di questa novella, è di brace, quasi a definire l’anima disperata ed esacerbata degli umili lavoratori,mentre la luna smorta sembra voler accentuare con la disillusione una desolazione infinita. Dopo la comparsa della luna smorta si ha l’impressione che il panorama si slarghi ; si scorge la“ Puddara( la costellazione delle Pleiadi) che appare come se navigasse in un mare che evapori. Ma la visione della Puddara sfuma per dare luogo ad una rappresentazione naturalistica più sconfortante : “ gli uccelli e le margherite bianche della primavera e l’estate arsa e vi passano in lunghe file nere le anatre nel nuvolo di autunno”. Nella descrizione, pur se si tende in qualche modo ad esaltare la fecondità della terra le margherite bianche della primavera, poi si accenna all’estate arsa,aggettivazione questa che è riferibile all’aridità della vita personaggi. L’immagine successiva del nuvolo di autunno, verso cui si avviano le anatre in lunghe file nere denota l’opacità esistenziale della vita, condotta dai personaggi verghiani.
Anche il fiume sembra risentire del male di vivere: “il fiume che luccica tra le rive larghe e slabbrate”(slabbrate e, pertanto,deformate da colpi inferte dalla natura).
Lo stesso fiume si sente,pertanto,immerso nelle impervietà dell’esistente e la sua vita sembra seguire l’eguale triste ed inarrestabile destino degli uomini “senza una barca, senza un albero alla riva, liscio e immobile”. L’immobilità del fiume è paragonabile all’imperturbabilità ed ineluttabilità del fato ,così come il medesimo senza barca può raffigurare il naufragio dell’uomo chiuso nella sua solitudine.
Solitudine e desolazione sono nel Verga i temi fondamentali, trasposti dall’autore in questa pagina, non solo con l’intento artistico-poetico,ma soprattutto con l’impegno del letterato-intellettuale, che, nel documentare la realtà, riesce a creare una perfetta sincrasi tra il mondo della natura e l’universo umano.
Continuando a leggere la pagina verghiana, scopriamo che anche i buoi riproducono nella loro fatica il senso del travaglio esistenziale degli umani: “pascolavano svogliatamente,rari, infangati……”. “E verso la fine della descrizione non poteva mancare la presenza umana “ il pastore istesso giallo di febbre e bianco di polvere anche lui, schiude in istante le palpebre gonfie levando il capo ai giunchi secchi”. Alla condizione devastante dell’uomo, in preda alla febbre e sconsolato, fa da correlativo oggettivo la raffigurazione dei giunchi secchi. Invero gli effetti della malaria costituiscono la grammatica compositiva dell’inventività verghiana in questa pagina e per questo l’autore non la nomina nella primo capoverso del racconto. La parola malaria , è situata all’inizio del secondo capoverso: E’ la malaria che vi entra nelle ossa come il pane….ed è funzionale alla discorsività susseguente del racconto, dove si snoda la vicenda dei personaggi mediante codici linguistici più realistici e confacenti all’azione narrata. L’uso, inoltre, di registri linguistici differenziati,da quello simbolico-lirico della prima parte, a quello più dimesso nella seconda parte,sintetizza lo specimen dell’arte verghiana,tendente a descrivere tutta quanta la realtà dalle radici profonde dell’essere umano sino al suo interrelarsi con il mondo della natura e con il vissuto quotidiano. Nel Verga, inoltre, la diversità degli stilemi è correlata al diverso modo di essere, di manifestarsi e di comportarsi dell’individuo.
2
Gli archetipi letterari nel paesaggio verghiano: analogie e contrapposizioni

Le argomentazioni svolte c’inducono a riflettere che nell’arte verghiana il rapporto tempo-spazio e uomo-natura costituisce la peculiarità e l’essenza stessa della tematica del Verga.
Donde la specificità della sua estetica tendente, peraltro, ad una precisa rappresentazione del reale in tutte le sue componenti da quelle naturalistiche a quelle meramente umane.
In quest’ottica abbiamo cercato di interpretare anche il paesaggio verghiano, intessuto di un idillio, che riflette inoltre quell’amara condivisione di dolore, che accomuna natura ed uomini.
Desideriamo adesso soffermarci sull’aspetto dell’idillio, congeniale alla tematica verghiana e tentare di individuarne, per quanto possibile, gli archetipi nell’età classica.
Parlando d’idillio, che ha la sua forza poetica generatrice nella terra di Sicilia, in primis ci ricordiamo di Teocrito.
Teocrito (310-250 a.Chr.), come Verga, è fortemente legato alla Sicilia e, come Verga, predilige cantare la vita semplice dei suoi abitanti.
Ma se il topos è lo stesso, assai distante e diverso è il chronos.
Lo scrittore siciliano ritrae il paesaggio della Sicilia con fosche tinte drammatiche anche quando sembra indulgere ad un momento statico di contemplazione
L’idillio, infatti, viene vissuto dal Verga in contrapposizione al reale ed, anche quando questo si permea di un sentimento patetico-elegiaco, come nell’episodio dell’addio di ‘Ntoni, la natura risuona della nota dolente di un sogno nostalgico, non appagato, disperato, impossibile da realizzare.
In Teocrito,invece, il paesaggio della Sicilia appare rigoglioso, pieno di luci e avvolto da un’aura di serenità.
C’è da dire,inoltre,che Teocrito, pur tendendo ad un certo realismo di linguaggio e d’ambientazione, trasferisce la materia del suo canto in orizzonti meramente letterari.
Bisogna,però, sottolineare che, come in Verga,anche in Teocrito la natura è parafrasi sensibile dei sentimenti umani.
C’è da osservare che,mentre in Teocrito la natura,contemplata nel suo tripudio, è la stessa gioia della vita,in Verga presenta un volto assai più contraddittorio e conflittuale e partecipa delle vicissitudini del genere umano.
Nel paesaggio, invece,Teocrito si abbandona al sogno, immergendosi in una natura felice e benigna.
Ad esemplificazione i vv.135-142 dalle Talisie

Folti sul nostro capo ondeggiavano in alto
pioppi e olmi: e accanto la sacra acqua
stillante dall’antro delle Ninfe mormorava.
Sopra i rami ombrosi le cicale amanti del sole
erano affaccendate a ciarlare, e lontano
fra i rivi folti di spini gracidavano le rane,
cantavano allodole e cardellini, gemeva la tortora
e bionde api volavano intorno alle fonti.

Anche se il poeta tende a rappresentare una realtà oggettuale della natura, il tono poetico si impronta a forme di letterarietà tradite dalla cultura del tempo.
Persino quando vuol rappresentare il meriggio estivo o i colori festosi del paesaggio siciliano è presente la componente stilistico-letteraria.
Leggasi questo brano dell’Idillio XI IL Ciclope

Lascia che il mare turchino si franga a la riva ansimando
come più dolce la notte con me qui passerai nell’antro!
Qui sono allori, qui svettano i bei cipressi slanciati,
d’ellera brune volute, qui vite dei grappoli dolci:
spiccia qui gelida l’acqua che l’Etna selvoso m’invia,
da le sue candide nevi, ambrosia bevanda a la sete;
queste dolcezze chi mai, per i mari ed i flutti, darebbe!
( trad. E. Bignone)

Lo sfondo naturalistico in questo brano ha la sua ragione di essere in rapporto al mito: l’amore vano cantato da Polifemo per Galatea e per questo si libra in un’atmosfera del tutto ideale.
Dice il Pascucci (G. Pascucci- Storia della letteratura italiana-Sansoni-1963-a pag.357)
“Trionfa nel più puro paesaggio, quello più liricamente sentito, l’azzurro del cielo e del mare di Sicilia, l’ardore e il rigoglio delle sue estati, la fecondità delle sue greggi, l’ardente passione e la mimica vivacità dei suoi pastori; più spesso è paesaggio composto, fatto di elementi estranei alla natura e ricavati dall’esperienza letteraria”
Eppure in questa cornice di carattere bucolico Teocrito, come farà più tardi Verga, anche con maggiore intensità, pone l’attenzione alla precisa descrizione di dati realistici e della vita quotidiana.
Invocando Galatea Polifemo parla di se stesso, del suo aspetto e della sua vita di tutti i giorni

Forse villoso soverchio ti sembro, ma qui nella grotta
legna ho di querce e, di sotto la cenere, brace mai spenta
e pure l’anima saprei sopportar che m’ ardessi,
e questa sola pupilla che m’è la più cara dolcezza!
( trad. E. Bignone)

Anche in questo caso l’aspetto realistico non si esaurisce in sé, ma è strumentale all’elegia di amore, secondo la tradizione bucolica.
Nel canto di Polifemo ci sembra,però, di invenire un elemento nuovo, che ci ricorda, sia pure con profonde e radicali differenze, un altro personaggio del Verga. Ci riferiamo a Jeli il pastore.
Nel presentare il personaggio di Polifemo, invero, Teocrito, ne opera una profonda trasformazione rispetto alla tradizione omerica.
Polifemo viene umanizzato, perde la sua ferinità e per questo riesce a modulare con la cetra un canto, che si accorda col paesaggio bucolico, che lo circonda e che ha il palpito della vita vissuta.
Soffre come tutti gli altri pastori innamorati senza speranza e tuttavia in un’intima comunione colla natura, come è stato osservato da S.Nicosia, giunge alla catarsi.
Anche Jeli, nella contemplazione della natura, nell’intuirne il fascino misterioso, sublima il suo animo e, soltanto compenetrandosi in essa, può trovare quella serenità, che la realtà gli negherà.
Nell’episodio teocriteo il paesaggio s’intona compiutamente al modulare del canto dell’anima del personaggio,laddove in Verga, invece, ed,in particolare, nel racconto di Jeli, assume un carattere antinomico e conflittuale con le vicende umane.
Per questo in Jeli è impossibile pervenire alla catarsi, anzi l’opposizione natura-realtà lo farà precipitare in un abisso incolmabile.
Anche quando Jeli tenta di suonare lo zufolo non riesce che a modulare poche note smorzate e sempre le stesse.
Segno questo che i suoi momenti idilliaci erano soltanto sporadici e comunque non tali da potere tramare un discorso compiuto.
La sua emozione, anche se sincera, non diventa consapevole parola dell’anima, né intende, né sa accogliere le suggestioni di moduli poetici, che, invece, sono presenti nell’opera teocritea.
E’ chiaro che i due autori Teocrito e Verga, pur ambientando i propri personaggi nello stesso humus, hanno proposizioni artistiche diverse.
La Sicilia di Teocrito è tutta immersa nel mito della poesia bucolica, quella del Verga, è, invece la Sicilia storica e reale, presente all’autore e vissuta attraverso le sue lacerazioni e contraddizioni.
Abbiamo accennato al rapporto uomo-natura in Teocrito, correlandolo a quello del mondo verghiano, cercando di comprenderne le analogie, come pure le necessarie contrapposizioni, afferenti alla diversità di temperie storica e alle istanze estetiche dei due autori.
Ci sembra, però, opportuno sottolineare che i due autori hanno senz’altro, nella composizione delle loro opere un criterio in comune: quello di identificare Il mondo della natura, dell’arte con il vero.
Leggiamo i versi 42-48 dalle Talisie

Così io dissi a bella posta, e il capraio dolcemente ridendo “ ll mio bastone-disse “ ti dono poiché ti sei formato sulla verità, un rampollo di Zeus. Poiché a me un architetto e fortemente antipatico il quale dice di voler costruire un edificio raggiungendo la cima dell’Oromedonte, e gli uccelli delle Muse che di faccia al cantore di Chio urlando a mò di cuculi si affaticano invano”
(trad.V.Pisani)

All’interno delle Talisie, in mezzo ad una natura festante e rigogliosa, si svolge un colloquio tra i due pastori Licida e Simichida.
Gli stessi pastori, anche se assumono la maschera bucolica, ci tramandano un messaggio assai significativo e tuttora vivo e presente: il bisogno di creare una poetica fondata sul vero.
Il vero, inoltre, concepito in questo brano, trova la sua realizzazione e compiutezza nel rapporto con una natura primigenia e feconda e rifugge dal mondo opulento e dalle sovrastrutture dalla città perché-dice Licida: “a me è antipatico un architetto il quale dice di voler costruire un edificio in cima all’Orodomonte”.
Teocrito, invero, come Verga rifugge dall’ambiente fatuo della città e cerca la sua ispirazione nel paesaggio agreste e nell’umile vita dei suoi personaggi.
La poetica di Teocrito, come lo sarà ancora più compiutamente quella di Verga, vuole essere scevra da un mondo falso e fatuo.
Prende in tal senso una precisa connotazione semantica il modo con cui Teocrito per bocca di Licida deride “ i poveri uccelli che gracidando pretendono di gareggiare con il cantore di Chio”
Anche in questa annotazione si evidenzia il postulato estetico, proposto da Teocrito: il rifiuto dell’imitazione e la creazione di poesia tutta incentrata sul vero.
Acquista, in tal modo un valore categoriale l’apostrofe di Licida rivolta al pastore Simichida “Il mio bastone ti dono perché sei tutto formato sulla verità”.
Il principio dell’opera d’arte, fondata sulla verità sarà perseguito, e lo testimoniano i suoi numerosi scritti al riguardo, anche da Verga, nei termini consentanei alla sua esperienza di uomo e letterato, decisamente distanti da quelli di Teocrito.
E’ importante, però, tenere presente che alcune categorie, relative alle teorie dell’estetica in letteratura, si perpetuano nella diacronia temporale.
Il che ci giustifica il fatto che Teocrito e Verga, autori appartenenti ad ere diverse e distanti, si prefiggono la stessa meta nello svolgimento dei loro itinerari narrativo-poetici: la verità.
Proseguendo il nostro discorso sul paesaggio verghiano, ed, in particolar modo, sul suo aspetto idilliaco, la nostra attenzione si volge ad un altro archetipo letterario: Virgilio.
Anche per Virgilio, come per Teocrito la Sicilia diventa il topos ideale, sede delle muse, che ispirano il canto pastorale.

Leggiamo nella Bucolica IV

Sicilides Musae, paulo malora canamus.
Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae:
si canimus silvas, silvae sint consule dignae.
Ultima Cumai venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.

Cose cantiamo più grandi, Sicule Muse!
Non piaccion gli alberi a tutti né i tamarischi
umili.E allora cantiamo le selve
e siano le selve degne di un console.
L’ultimo tempo è venuto è venuto del carme Cumano;
una grande serie di secoli nasce da capo.
(trad. Cetrangolo).

Il poeta introducendo la quarta egloga, ricordando Teocrito, invoca la Sicilides Musae, nomina gli arbusta e le myricae, gli umili tamerici, piante di basso e tenue fusto, simbolo della poesia delle umili cose, che, però, non piacciono a tutti.
Ora il poeta si appresta a cantare un carme più solenne “paulo malora canamus” e a correlativo della sua poiesi pone le silvae, che rappresentano appunto l’ambiente e la materia pastorale di proporzioni più grandi, consule dignae.
Il console, a cui è dedicata l’egloga è Asinio Pollione, che nel 41 a.Chr. aveva trattato la pace di Brindisi, ponendo fine alle guerre civili e creando le condizioni per una pace duratura tra i popoli.
Per questo motivo nel carme Virgilio celebra l’avvento dell’età dell’oro.
Ci accorgiamo subito che l’unico motivo nel canto che può farci ricondurre a Verga è quello della denominazione della Sicilia, evocata,però,soltanto come sede delle Muse.
Le Sicule Muse ispirano al poeta latino un canto, che è un inno ad un mondo irenico, dove sta per avverarsi una palingenesi universale.
Soltanto c’è da rilevare che è proprio la Sicilia che, da Teocrito a Virgilio sino al Verga e a Quasimodo, costituisce il paradigma di una poesia, che concilia con il melos poetico l’accordo dell’uomo con la natura.
Ma questa tematica deve fare sempre i conti colla storia. Per questa ragione il locus amoenus di Virgilio, per antitesi in Verga spesso assumerà gli attributi del locus horridus.
Invero i due autori legano l’anima del paesaggio al reale storico, in cui vivono ed operano.
Virgilio inneggia all’aetas aurea, Verga, invece, scrive nella natura la sofferenza e il tragico destino degli uomini del suo tempo.
Si può cogliere, però, una certa analogia tra la rappresentazione paesaggistica virgiliana e quella verghiana: il sentimento della nostalgia.

Leggiamo nella Bucolica I. i versi 1-10

MELIBOEUS. Tityre, tu patulae recumbans sub tegmine fagi
silvestrem tenui Musam meditaris avena;
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patriam fugimus, tu Tityre, lentus in umbra
Formosam resonare doces Amarryllida silvas.
TITYRUS. O Meliboee, deus nobis hoc fecit.
Nacque erit ille mihi sempre deus, illius aram
Saepe tener nobis ab ovilibus ambuet agnus.
Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.

MELIBEO. Titiro, sicuro tu giaci sotto i rami
larghi del faggio e componi un canto silvestre
col flauto sottile; e noi queste dolci campagne
lasciamo, noi in fuga dalla patria.Tu, Titiro,
tranquillo all’ombra insegni alle selve
a ripetere il nome della bella Amarillide
TITIRO. O Melibeo, un dio questa pace mi ha dato.
lui certo un dio sarà sempre per me; e spesso
trarrò dal mio ovile teneri agnelli
per bagnare la sua ara di sangue.
Mi disse che bene i miei bovi potevano errare,
come vedi, al pascolo; e disse che pure potevo
canti a mio piacimento comporre col calamo.
(Trad. Cetrangolo)

L’egogla fa riferimento ad un evento storico: la confisca dei terreni decisa dopo la battaglia di Filippi (42 a.Chr.) per compensare i veterani che avevano combattuto.
Colui che deve abbandonare le terre (Melibeo) viene colto da una struggente nostalgia “nos patriam fugimimus et dulcia linquimus arva”.
Un altro personaggio verghiano, ’Ntoni è costretto a lasciare la propria terra.
Analogo è il sentimento di nostalgia ,che accomuna i due personaggi. Profondamente diversa è, però, la loro condizione psicologico-esistenziale come pure , di conseguenza, diverso è lo sfondo paesaggistico dagli stessi contemplato.
In Melibeo il suo sentimento nostalgico si snoda in un afflato panico colla natura e si libra in un canto patetico-elegiaco per tutta la durata dell’egloga.
La natura viene concepita come una divinità da amare sempre e a questa si intona il canto dell’anima con un’armonia composita ed unitaria.
Anche quando nel paesaggio appaiono ombre “ maiores cadunt altis de montibus umbrae” con specifico riferimento ai tempi bui della storia, il pastoreintona il suo canto in armonia colla natura con una mestizia velata.
Commenta il Funaioli

“ Sulla tragedia umana, intessuta di lacrime amare,di ricordi, di commozione, scende come un oblio lene della faticosa vita,la sera di un pomeriggio di autunno coi suoi casolari fumanti di lontano,colle sue ombre che sempre più grandi cadono dai monti e scolorano le case e ne velano il pianto. E’ appunto di Virgilio far svaporare la tristezza, soprattutto la più grande dentro una scena dolcissima e ampia”.

La suavitas del paesaggio fa contrappunto allo status animi di Melibeo .
Mondo della natura e sentimenti del personaggio si confondono, in un’inscindibile e costante unitarietà, facendo risuonare per tutta l’egloga pure e pacate note di elegia.
Nella pagina verghiana, che descrive l’addio di ‘Ntoni, lo scenario non si sviluppa con un continuum di momenti idilliaci, anzi nel momento stesso in cui nasce l’idillio si avverte da questo il doloroso distacco con l’incombere di un fato indomito ed inarrestabile.
Soltanto per qualche istante la voce della natura parla a ‘Ntoni con il gorgogliare del mare che non ha paese “nemmeno lui”. Scorge le luci dell’alba, ma dovrà allontanarsi, esule senza ritorno.
Non vi è nell’episodio di ‘’Ntoni quella visione panica della natura, in cui si immerge Melibeo, traendone conforto.
Sovrasta la necessità del distacco,che rende ancora più amaro e struggente il sentimento di nostalgia.
A ‘Ntoni non è concesso soffermarsi a contemplare la natura o a condividere con altri, come fa Melibeo con Titiro, la sua pena.
Lo squarcio idillico della natura scompare nel momento stesso, in cui deve intraprendere il suo ignoto destino, che lo travolgerà.
Solitudine e desolazione,lo ripetiamo, sono le note che sottolineano il paesaggio verghiano,che si presenta naturalmente assai distante da quello evocato nell’egloga virgiliana.
Un altro aspetto presente nel Verga e ravvisabile in Virgilio è la concezione del labor.
Leggiamo Virgilio – Dalle Georgiche- I ww121-148

Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni:
ne signare quidam aut partiri limite campum
fas erat; in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus sepentibus addidit atris
predarique lupos iussit pontem moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando eextunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut sulcis venis abstrusum extunderet ignem.
Tunc alnos primum fluivi sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas,Hyadas claramque Lycaonis Arcton.
Tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelogoque alius trait umida lina.
Tum ferri rigor atque argutae lamina serrae
-nam primi cuneis scindebant fissile lignum-
tum variae venere artes.Labor omia vincit
improbus et duris urgens in rebus egestas.
Prima Ceres ferro mortalis vertere terram
Instituit, cum iam glandes atque arbusta sacrae
deficerent silvae et victum Dodona negaret.
Mox et frumentis labor additus, ut mala culmos
esse robigo segnisque horreret in arvis
carduus: intereunt segetes,subit aspera silva
lappaeque tribolique, interque nitentia culta
infelix lolium et steriles dominantur avenae.
Quod nisi et adsiduis herbam insectare rastris
et sonitu terrebis avis et ruris opaci
falce tremens umbras votisque vocaveris imbrem,
heu magnum alterius frusta spectabis acervum
concussaque famem in silvis solabere quercu

Le cose dei campi volle difficile il Padre
stesso e primo li mosse per arte pungendo
i cuori mortali d’affanno né sonno permise
pesante al regno. Prima di Giove
non c’erano coloni che arassero i campi,
neppure segnare confini o dividerle
era lecito; i frutti in comune ed essa la terra
ogni cosa donava senza richiesta di alcuno.
Ma quello aggiunse il veleno ai serpenti,
impose che i lupi predassero, che il mare bollisse,
il miele tolse alle foglie,il fuoco nascose
e i vini scorrenti e i ruscelli dovunque richiuse:
perché meditando l’uomo foggiasse col tempo
le arti diverse e l’erba del grano cercasse
coi solchi e il fuoco nascosto destasse dai sassi.
Allora sentirono i fiumi gli ontani incavati,
allora diede il pilota numeri e nomi
alle stelle: Pleiadi,Iadi e l’Orsa fulgente
di Licaone;allora s’inventa di prender le fiere
coi lacci, ingannarle col vischio e di cingere
i grandi boschi coi cani; altri colpisce
di fionda vaste fiumane,altri umide reti
tira al mare;allora il rigore del ferro,
le lame stridenti di sega (giacché i primi
spaccavano il legno con i cunei) e nacquero allora
le arti diverse. Tutto vince il lavoro
continuo e nell’aspra giornata l’urgente miseria.
Cerere apprese per prima ai mortali l’aratro
poi che le ghiande e i corbezzoli eran del bosco
sacro scomparsi e Dodona negava ogni cibo.
Anche il frumento sacro s’ammala: ruggine trista
corrode gli steli;s’erge nei campi infecondo
il cardo; muore la messe,un’aspra sterpaglia
sottentra di pruni e di lappole e tra i colti
unitile domina il loglio e sterile avena.
Ché se non rimuovi assiduo l’erba coi rastri
e non metti paura col suono degli uccelli,
se l’ombra non togli di rami frondosi alla terra
e non supplichi pioggia con voti, invano
stupito vedrai de’ vicini i gran mucchi e la fame
tu sazierai scotendo nei boschi le querce.
(trad. Cetrangolo)

Abbiamo riportato questo brano virgiliano piuttosto lungo in quanto riteniamo che contenga topoi ravvisabili nell’opera verghiana : la tensione agonistica dell’uomo con la terra e la necessarietà del labor.
E’ , infatti, all’interno del brano che Virgilio, che prima nelle Bucoliche aveva cantato Omnia vincit Amor, celebra la forza operosa per superare, le avversità della natura e della vita e la miseria……………….Labor omnia vicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas.
Dice il Rostagni : (A.Rostagni- Letteratura latina-vol.II-Utet-Torino 1955 a pag. 51)
“ Il mondo irreale fittizio dei pastori arcadici si allontana più che mai per cedere il passo alla realtà che è fatta di cose comuni, dure, aspre, rozze,di lavoro, di sforzo, di azione…………………….nulla si ottiene dalla terra che non sia pagato con sudore e pianto; le forze misteriose della natura minacciano di ora in ora la vita, gli affetti e l’opera umana, piombano sull’uomo e su tutto ciò che alluomo è caro : sugli animali, sulle piante, sul seminato, sui raccolti e sovvertono tutto,costringendo a riprendere con pena infinita l’opera sconvolta”.
Seguendo l’acuto giudizio critico del Rostagni , ci ricordiamo dei personaggi verghiani e del mondo che li circonda.
Comprendiamo innanzi tutto che sia Virgilio che Verga attingono alle forme estetiche più evolute e più significative allorquando fanno della realtà la substantia della loro ispirazione e del loro discorso letterario.
La realtà, cui volge lo sguardo Virgilio è la medesima,che viene indagata da Verga; si compone di uomini comuni che lottano con indomito travaglio contro le forze misteriose della vita.
L’umanità ,vediamo, rappresentata sia da Virgilio sia da Verga, sente l’incombere di una minaccia, che può sconvolgere nell’uomo tutta quantala vita e soffocarne i più intimi sentimenti.
Bisogna, inoltre, precisare che l’approdo al vero, per entrambi gli autori Virgilio e Verga, segna la loro estrema maturazione nella sfera non soltanto artistica, ma anche in quella umana, culturale e spirituale.
Virgilio si proietta nel vero dopo la parentesi arcadica,Verga sente,invece, l’esigenza di imprimere il vero nella sua opera dopo un primo approccio alle tematica della scapigliatura.
In tal modo i due autori,calando il reale nella loro produzione, congiungono al fenomeno letterario quello storico e colloquiano con il loro pubblico con forti motivazioni di carattere etico-sociali.
Non dobbiamo, però, in virtù delle enunciazioni espresse, pervenire ad un’affrettata conclusione, che ci indurrebbe a considerare il mondo poetico virgiliano del tutto coincidente con quello verghiano.
Del tutto diversa e assai distante è la temperie storico-culturale, in cui i due autori operano e vivono.
Virgilio scrive le Georgiche tra il 37 e 30 a. Chr., nel momento in cui la politica di Ottaviano, compresa quella agricola coincideva con i suoi interessi etico-religiosi. Donde la concezione del labor , che sta alla base del riscatto e della redenzione del suolo italico.
Verga,invece, vive nell’Italia postunitaria, che pagava gravemente il prezzo dell’unificazione, accentuando il divario tra Nord e Sud, nel pieno fermento della questione meridionale e nel turbinio di questioni sociali che non trovavano alcuna soluzione.
Ci affidiamo al testo proposto per meglio comprendere la consonanza dei motivi ispiratori nei due autori e al contempo le contrapposizioni.
…………………………..Pater ipse colendi
haud facilem esse voluti vitam

In questi versi si propone la necessità del labor per l’uomo ai fini della sua sussistenza in un mondo irenico.
Il lavoro degli umili nel Verga, invece, ha un aspetto disumano ignoto a Virgilio.
I personaggi verghiani erano sottoposti alle leggi inique del tempo e allo sfruttamento. Da qui la disperazione e la desolazione dei vinti, che si muovono in un paesaggio, che si colorava delle fosche tinte della loro dolorosa situazione in un attonito silenzio.
Nel testo virgiliano, invece, è ipse pater-Giove,che impone agli uomini la dura fatica dei campi.
La presenza del pater ipse-Giove ci riconduce alla concezione del theòs eurghethès esiodeo.
Il deus-pater, ammonendo gli uomini al lavoro dei campi, preconizza un mondo nuovo,fondato sul bene e la giustizia.
Commenta L.Alnsonsi (L. Alfonsi-Letteratura latina- Sansoni- Firenze-1960 a pag. 208 )

“ Il mondo diventa mondo di giustizia e di lavoro, che trionfa di ogni avversità: iustissima è la tellus ed omnia vicit labor. In questa vasta economia, dove la fatica dell’uomo non è più senza scopo, ma pare sia il dovere, sia il compito morale di ognuno di noi, la realtà sociale acquista contorni ben precisati e si identifica con l’unione tra l’Italia e Roma e con la funzione direttiva affidata a quest’ultima in tutto il mondo…………………………………..Ben poche opere hanno contenuto sociale così marcato, e condizionano in tal misura la vita e la storia alla quotidiana fatica dell’umile lavoratore, riconoscendo a questa la capacità di redenzione”.
Nel testo virgiliano viene esplicitata la volontà del numen.
Giove ha compiuto quest’azione nell’intento che l’uomo meditando foggiasse col tempo le arti diverse e l’erba dal grano cercasse ut varias usus meditando extunderet artis/ paulatim et sulcis frumenti quaereret herbam.
La forza operosa, che spinge l’uomo al culto della terra per ricavarne i propri mezzi di sostentamento, è anche presente nel Verga.
Nel mondo verghiano, però,è assente il numen e quasi sempre la fatica dell’uomo viene vanificata o dall’imperversare di calamità naturali ovvero dall’oppressione, esercitata dalla miope politica del tempo nei confronti degli umili, che ci appaiono vinti e dalla natura e dalla storia.
Questa visione pessimistica viene rappresentata,come abbiamo detto, dal Verga colla metafora del mare ovvero della fiumana del progresso, che tutto travolge,uomini e cose.
Anche nel testo virgiliano è presente il mare. Ed è lo stesso Giove, che iussit pontemque moveri. Giove comanda che il mare venga agitato, ribadendo la volontà ,espressa in tutto quanto il brano, di infondere negli uomini la capacità di opporsi in forma antagonistica alla natura.
Da questa contrapposizione uomo-natura, elemento dominante anche nell’opera verghiana, l’uomo in Virgilio sembra uscirne vittorioso. Non così avviene,per le ragioni innanzi espresse, per il personaggio verghiano.
Nell’antagonismo con la natura l’uomo in Virgilio prende vigore e rivela la sua stessa identità di essere,che vive nella natura e colla natura. E dell’uomo la natura sente la presenza tunc alnos primum fluivi sensere cavatas (allora sentirono per prima gli ontani incavati).
Il tunc, posto all’inizio del verso 136,assume un valore semantico pregante.
Da allora, infatti, l’uomo non solo sente di vivere in perfetta armonia con la natura, ma si evolve nella conoscenza e dà un nome alle cose navita tum stellis numeros et nomina fecit.
L’iterarsi delle locuzioni avverbiali di tempo, tunc all’inizio del verso 136 e tum, all’interno del verso susseguente, se da una parte ci danno la viva sensazione dell’immediatezza con cui il navita scopre il mondo e dà un nome alle cose, dall’altra ci spinge ad un discorso più ampio sul problema sul problema gnoseologico, legato al linguaggio,in senso diacronico..La conoscenza nasce nell’uomo in un rapporto di intima connessione colla natura. E’ una conoscenza genuina e spontanea katà phùsin,da cui si origina quel linguaggio,che non è ancora lògos, ma,che in quanto parola dell’anima si accorda in ogni tempo alle visioni idilliache e alla compiuta espressione dei sentimenti umani.Il navigante attribuisce un nome alle stelle e alle costellazioni : Pleiadi, Iadi, Orsa ed indubbiamente sarà colpito dallo stupore dell’incanto della natura.La lezione virgiliana,infatti,vediamo,è anche presente nel Verga, che propone un linguaggio sempre aderente alla realtà, anzi possiamo dire che converte i segni della natura in segni linguistici.La stessa parola verghiana assume un tono di più elevata e commossa poesia nel momento in cui sostanzia il vissuto dell’uomo con il mondo che lo circonda.Come il navigante virgiliano anche ‘Ntoni,che, però, si sente vicino al naufragio esistenziale, scorge le Pleiadi.“Sulla riva in fondo al mare cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re e la Puddara, che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte”.E’ significativo che il Verga nomini le Pleiadi Puddara, proprio nell’accezione dialettale, per rendere più familiare l’evento del suo insorgere a ‘Ntoni nel momento del distacco.Ne nasce una suggestione tutta particolare,imperniata su un realismo linguistico, stilato in corrispondenza al vissuto e all’emotività del personaggio.Si può dedurre,allora, che in Virgilio come in Verga l’unica parola possibile, capace di estrinsecare compiutamente i sentimenti dell’uomo e di condurlo nell’aura dell’idillio,è quella autentica,ingenerata e vissuta nell’elementarità ed essenzialità del mondo della natura.Proseguendo nella lettura del testo virgiliano conosciamo che Cerere apprese per prima ai mortali l’aratro dopo che Dodona aveva negato agli uomini i frutti che copiosamente crescevano nel bosco. Prima Ceres ferro mortalis vertere terram/ instituit,cum iam glandes atque arbusta sacrae/ deficerent silvae et victum Dodona negaret. La dea della terra,che affida all’uomo l’aratro ha due intenti, l’uno complementare all’altro : quello di salvare la vegetazione dall’insorgere della ruggine trista e quello di preservare l’uomo dall’egestas.Ammonisce,infine,il poeta l’uomo ad attendere con scrupolosa cura ai lavori  dei campi,senza la quale gli sarà impossibile evitare la miseria, mentre non gli resterà altro da fare che guardare i grandi mucchi dei vicini, ammassati per opera del duro lavoro.Anche quest’ultima parte del brano virgiliano ci conduce ad alcuni momenti della narrativa verghiana.Nei versi 150-154 si parla della robigo che distrugge la vegetazione,mentre Verga intitola una sua novella Malaria.Nei versi susseguenti 155-159  si parla del modo, con cui è possibile vincere l’egestas e non stare a guardare i cumuli dei vicini.I cumuli ammassati non possono che rimandare alla mente  la “roba” tanto amata ed idolatrata da  Mazzarò e da mastro-don Gesualdo.Pur nell’analogia di elementi, compresenti sia in Virgilio sia in Verga, è d’uopo, enunciarne, sia pure sommariamente le contrapposizioni. La robigo,di cui parla Virgilio, è un male, che si può estirpare con il frumentis labor additus.Molto più angosciante e funesta è la descrizione in Verga della malaria: “E’ la malaria che vi entra nelle ossa col pane che mangiate…………” questa è la desolante conclusione cui approda l’autore raffigurando,altresì, nel paesaggio stesso la condizione della fragilità umana. Il deus presente in Virgilio è assente nel Verga colle conseguenze che ne derivano.Anche l’accenno ai cumuli, ammassati e, comunque alla roba,che fanno parte integrante del paesaggio, in cui si muovono Mazzarò e mastro-don Gesualdo, introduce una tematica, che si distanzia nettamente da quella virgiliana.Per Virgilio ognuno è in grado, con l’assiduità del lavoro, di procacciarsi il suo cumulo, derivante dai frutti della terra e, favorevole per il sostentamento fruibile per il trascorrere di una vita serena, mentre per Verga soltanto alcuni, come per l’appunto Mazzarò e mastro-don Gesualdo, che della roba hanno fatto la loro unica divinità e che sono riusciti a superare la china della miseria, possono godere di questo bene. Attorno a loro una folla di derelitti e sfruttati che non riescono a levare il capo dalla miseria.Mastro-don Gesualdo,dopo tanti stenti e fatiche, guarda con soddisfazione i covoni ammassati in mucchi della sua roba e gode alla vista di quel grande magazzino,in cui si accumulava la sua ricchezza e che gli sembrava immenso nel buio, mentre una striscia argentea della luna lo illuminava.Per Mazzarò e per mastro-don Gesualdo  lo stesso paesaggio,in cui è assente il theòs eurghethès , s’identifica con la roba.Le enunciazioni suesposte ci sembra che chiariscano l’assunto che Virgilio e Verga sono accomunati da interessi e motivi d’ispirazione, ma che sono, naturalmente distanti, anche per ragioni storiche, nell’ottica concettuale e culturale, oltre che nella poiesi artistica, sviluppata dai due autori nelle forme personali d’originalità ed autenticità. Analogo discorso possiamo condurre rapportando l’opera di Verga a quella di Teocrito. Concludendo riteniamo di potere affermare che sia stato doveroso riproporre la lezione degli autori classici e il loro messaggio, implicito per alcuni aspetti anche nell’opera verghiana.Il che ci convince a considerare che il colloquio tra intellettuale e pubblico, oltre che nella specificità del contingente storico, contiene  in sé un valore assoluto e metatemporale.

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                 

 

        

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Verso l’ermeneutica

  Verso l’ermeneutica
    Cap.I
   I prodromi dell’ermeneutica
  Cap.II
  Dallo strutturalismo alla filosofia del linguaggio
  “Dal corso di lezioni:i Modelli dei testi: analisi dei testi letterarari-
   cl.51 a e 52 a- SISSIS- Università degli Studi di Palermo-
   Anno acc.2006-2007”
  Docente: Prof. Salvatore Coico

Cap. I
I prodromi dell’ermeneutica

Lo studio moderno sulla teoria della Letteratura risale al 1948 con il testo di Wellk e Austin, che propone una varietà di itinerari metodologici nel campo della critica e dell’analisi testuale e comprende l’interferenza tra indagini diversificate dalla semiologia alla critica psicoanalitica e allo strutturalismo.
L’opera accoglie, inoltre, le tesi esposte dalla critica formalista russa (1916-30) e dal Circolo di Praga (1929).
 Gli studiosi  si pongono interrogativi ancora presenti ai nostri giorni “Che cos’è letteratura?”, “Che cosa  non ?” ” Qual è la sua essenza?” Ai fini della valutazione dell’opera letteraria così opinano: “Gli uomini dovrebbero valorizzare la letteratura per essere quella che è e dovrebbero valutarla sulla base del suo valore letterario e su di essa misurarla……….Una data opera è o non è letteratura non già sulla base degli elementi che la compongono, ma di come sono combinati e con quale funzione.”
Dal che si evince chiaramente che la valutazione di un’opera letteraria non può prescindere dal concetto di letteratura e/o di letterarietà presente in ogni tempo e di cui si sente l’inalienabile esigenza oggi.
In tempi recenti Remo Cesarani, proponendosi di chiarire la funzione della Letteratura nell’età contemporanea, e, soprattutto la sua relazione con il lettore, analizza due posizioni contrapposte dei teorici della critica letteraria.
La prima posizione si desume dalla tesi sostenuta da quelli, che sono soprattutto interessati a diffondere l’autonomia dell’esperienza letteraria e a separarla da altre forme di comunicazione umana.
In quest’ottica si privilegia la specificità del discorso letterario e/o della poeticità della parola avvertita come assoluta, unica, irrepetibile e rivolta ad un pubblico di competenti.
Conseguentemente l’opera della grande e vera letteratura, pur essendo creata da singoli autori ed in precisi momenti storici, ed essendo stata originalmente trasmessa  in forma e modalità diverse, ha un carattere di universalità; si stacca dalla contingenza storica ed esprime valori ed interessi permanenti ed eterni nell’uomo…..sono-monumenti che possono parlare alla generazioni future ed essere apprezzate dalla cultura e dalle società più diverse.
Possiamo senz’altro concordare col principio che un’opera di vasto respiro, come la Commedia di Dante può essere considerata monumentum, mentre altre, che rispecchiano un ambito storico più limitato, possono essere esemplate come documentum.
Questa distinzione era anche presso la cultura classica. Ma senza nulla togliere al carattere dell’universalità dell’arte (monumentum) chi ci dice  che anche il documentum, legato all’hic et nunc, non comprenda lo specifico letterario?
Condividiamo, invero, la tesi del Cesarani che in ” Guida allo studio della Letteratura”-Laterza-1999- a pag. 13 e sgg” così si esprime:
1.La letteratura ha molte caratteristiche in comune con altre forme di comunicazione umana. In particolare, in quanto atto di discorso, essa ha in comune con altre forme di discorso (quello semplicemente comunicativo, quello comunicativo ed espressivo, quello meditativo, quello persuasivo), l’uso di una lingua naturale e l’utilizzazione di quegli artifici e figure, quello, che già dal mondo antico ha descritto e classificato nell’ambito dell’arte retorica.
2. La letteratura è una delle tante forme dell’immaginario umano, ha affinità con altre forme ed altri modelli di simbolizzazione e trascrizione culturale della realtà…………..I prodotti letterari…………. si originano dalla cultura del tempo e dall’immaginazione.
3. L’attribuzione di qualità letteraria e di valore poetico è un atto dipendente da concezioni ed atteggiamenti che cambiano nel tempo e nella diverse situazioni sociali e culturali.
A supporto delle sue tesi il Cesarani offre come exemplum classico quello della Bibbia, considerato per tanto tempo e per diverse generazioni   un testo soltanto teologico e poi, in età recente con il sussidio degli studi filologici e storici, un documentum storico  contenente le vicende di un popolo, le testimonianze della vita dei re, dei profeti e la stessa vita di Gesù Cristo.
La critica moderna insiste sempre più nella concezione di una letteratura “immersa nel  complesso e variegato sistema delle attività espressive, rappresentative e comunicative dell’uomo e dei sistemi di valori etici ed estetici mutabili nel tempo oltre che dei sistemi culturali e dei modelli epistemologici, che essi diffondono” (Cesarani op.cit. pag.14).
Le congetture critiche suesposte, inoltre, trovano conferma in W. Benjamim, che afferma “che il problema non è più di presentare le opere letterarie  in rapporto al proprio tempo, ma di rendere evidente nel tempo, che le ha visto nascere, il tempo che le conosce e le giudica cioè il nostro”.
Il rapporto intrinseco tra letteratura e tempo,inoltre, ci induce a meditare sul connubio tra l’arte e l’essere e tra l’essere e il linguaggio. Al riguardo Heidegger dice ” Il linguaggio è la casa dell’Essere………..Nella sua dimora abita l’uomo”.
Il che c’induce a propendere, oggi nello studio letterario e nell’analisi testuali, a focalizzare l’attenzione al principio di storicità del testo, letto ed interpretato attraverso tutte le sue variabili da quello ideologico-culturali a quelle linguistico-formali.
L’universo letterario, oggi, si presenta come momento fondante per i processi di formazione e di conoscenza  per l’uomo contemporaneo con significative implicanze anche nell’ambito didattico.
Si afferma sempre più precipuamente, nell’ambito dello studio della critica letteraria ed in ispecie nell’analisi testuale, l’idea di voler interpretare l’opera letteraria nella complessità di tutte quante le componenti storico-ideologiche riferibili all’Essere e semantizzate col linguaggio all’esistente psicologico, antropologico-sociale vissuto dall’uomo.
I teorici dell’ermeneutica  concordano che tutte le attività espressive ed in primis, quelle concernenti  il mondo letterario, corrispondono a sistemi etici e sociali mutabili nel tempo, ma nel contempo ribadiscono il concetto di un continuum, che nella sfera letteraria lega il passato al presente.
Infatti, nell’impostazione critica contemporanea non si nega, anzi si stigmatizza il dialogo col passato e si tende a rinvenire nel testo letterario la presenza di modelli culturali ed epistemologici nonché di archetipi o di specifici canoni; ma tutti questi aspetti extratestuali vengono rivisitati nel fenomenico storico.
Invero l’opera letteraria, in quanto polisemica, deve essere letta sul piano sincronico e diacronico. Ma  quale deve essere, allora, l’approccio del lettore nei confronti del testo letterario? Come comprendere dell’opera letteraria il suo polisenso di universalità e di contemporaneità?
Illuminante al riguardo ci pare l’ammonimento di R. Barthes “interrogare il testo in forma polisemica evitando l’arroccamento a schemi rigidi e leggere nel testo interlivellazioni di elementi segnico-formali e componenti storico-ideologiche”.

 Si perviene, pertanto, alla  convinzione che  nell’età odierna il testo letterario non è più statico e determinato in canoni prefissati, ma in movimento e che, in quanto tale, continua sempre ad acquistare possibilità segniche e conseguenti variabili interpretative.
Se, in effetti, consideriamo lo spazio cinetico del testo letterario, non intendiamo privilegiare il fluire della storicità, in cui il medesimo è immerso, ma  cerchiamo di comprendere la  globalità delle vicende umane vissute dall’uomo e che hanno il  loro paradigma nel passato.
Ed è proprio per questa ragione che la lettura di un testo, previi tutti gli accorgimenti metodologici proposti dai teorici della critica letteraria e della linguistica, non può preterire dalla complicità del lettore, che scopre nello scritto d’autore, anche attraverso diversificazione di codici linguistici, trame della sua esistenza.
Autore-testo-lettore nella moderna concezione sono un sinolo per una corretta impostazione ermeneutica.
Questo principio trova la sua applicazione nel progetto educativo dello studio della Letteratura Italiana nell’età odierna negli istituti di istruzione secondaria e nelle università.
La “centralità” del testo letterario, infatti, oltre a tradursi nell’acquisizione di una competenza culturale polisemica, profondamente avvertita dalla generazione presente, sottende  un’armonica interazione tra autore e lettore.
Il che ha senz’altro positive ricadute sulla formazione integrale di chi, appressandosi allo studio della letteratura, non soltanto legge il testo, ma lo interpreta, rivivendolo dal suo interno.
Nella strategia interpretativa, ai nostri tempi, si tende a far prevalere il concetto della soggettività del giudizio di valore e dell’autonomia dell’interpretazione critica, ma al contempo si propugna un corretto ed aggiornato metodo filologico.
Non si può, infatti, negligere la grande importanza che la filologia ha avuto e continua ad avere nella storia dei secoli ed in particolare per la critica testuale, nella quale si appunta massimamente l’attenzione allo”studio della parola”.
Della filologia nell’età contemporanea si tende ad escludere la corrente positivista, che si è sviluppata nei primi decenni del Novecento, e la cui utilità è stata quella di fornirci una congerie di dati senza pervenire ad  alcuna forma di ermeneutica.
La scuola  filologica positivista appare parziale in quanto mancante della sua parte essenziale, cioè dell’ interpretazione critica e del giudizio estetico.
E proprio contro la corrente filologica positivista polemizza in modo sferzante il Croce, che per l’appunto reputa i rappresentanti di tale indirizzo metodologico di studio, “simili a muli che portano nel dorso un carico pesante senza avere la capacità di distinguere se il loro carico è costruito da oggetti preziosi oppure da materiale grezzo, insignificante, privo di valore”.
Invero il Croce non intendeva rinnegare tutta la filologia, non certamente la “filologia della parola”, ma soltanto quella parte di essa, che escludeva dall’opera d’arte il giudizio ermeneutico-estetico.
Nell’età contemporanea si tende ad un theorein omnicomprensivo dell’opera d’arte, dove filologia e filosofia sono complementari e la stessa “filologia della parola” si raccorda alla storicità in senso sincronico e diacronico.
Illuminante ci appare al riguardo il giudizio di G. Pasquali, che in (Storia della  tradizione e della critica del testo-Le Monnier -1962) dice: “In primo luogo sono convinto che almeno nella scienza dello spirito non esistano discipline severamente delimitate, “scomparti” scomposti, ma soltanto problemi, che devono essere desunti delle varie discipline”.
Le parole dell’illustre filologo c’inducono a riflettere sul concetto di polisemia culturale,   sui processi intertestuali, metatestuali ed extratestuali nonché sulla dinamica linguistica, componenti tutte queste, che materiano ogni testo letterario.
Tutte le scienze dello spirito sono compresenti nell’opera letteraria dalla storia alla filosofia alla comunicazione verbale.
E, pertanto, deve essere peculiare compito del lettore-critico quello di individuare tutti gli aspetti dell’opera letteraria, come ammonisce Husserl ” in un’ unità strutturale, ma non dogmatica”
La finalità, che ai tempi odierni si propone lo studioso della Letteratura  protende, come opina Barberi Squarotti: “nel riconoscimento parallelo e diverso che storia e letteratura compiono nella loro indagine, con i loro specifici strumenti di sondaggio e di illuminazione dei fenomeni umani”.
Soffermandoci sulle ultime parole citate espresse da Barberi Squarotti  “specifici strumenti di sondaggio e di illuminazione dei fenomeni umani” non possiamo non riportarci alla funzione del linguaggio e della parola intelle- gibili nella loro relazione col mondo antropologico-sociale e/o colla soggettività espressa dall’autore a manifestazione del proprio io individuale nei confronti della natura e della storia.
Gli studi recenti ci offrono strumenti metodologici per un’indagine critica che simultaneamente interagisce tra “scienza della linguistica” e “teoria dell’ermeneutica”
Necessita, invero, interrogare il testo letterario, ma è fondamentale non tradire mai la parola dell’autore; il che equivale a tradire la vita stessa del pensiero e tutti quanti i moti dell’anima e del sentimento semantazzati nella pagina scritta.
Il problema  nell’età dell’Umanesimo era stato chiaramente compreso da  L.Valla, che nelle Elegantiae, dice: “Solo la conoscenza della parola, solo lo studio filologico e storico può restituire l’intima vita di ogni forma di pensiero colto nella sua prima formazione, seguito nei suoi  diversi svolgimenti sino agli esiti più vicini.”
Il giudizio espresso dal Valla ci sorprende per la sua attualità e ci spinge a meditare sull’importanza, che la parola ha sempre avuto nell’evolversi dei secoli e il “suo farsi”  attraverso la realtà fenomenica e la storia.
Ci stiamo sempre maggiormente interessando al problema del linguaggio e della parola ed, andando indietro nel tempo, non possiamo non ricordare  le teorie esposte al riguardo da Platone.
Platone nel Cratilo, affrontando il problema del linguaggio, come afferma N. Abbagnano- (Storia della filosofia-editio miaor-Utet-1948 a pag.83) “non ritiene che il linguaggio sia prodotto di convenzioni e che i nomi siano imposti ad arbitrio. Come ogni strumento deve essere adatto allo scopo per il quale è costruito, così il linguaggio deve essere idoneo a farci discernere la natura delle cose. Non c’è dunque dubbio dunque che ogni nome deve avere una certa giustezza cioè deve imitare ed esprimere a mezzo di lettere e sillabe, la natura delle cose significate”. 
   Il Cratilo, infatti, tratta principalmente del rapporto tra le parole e le cose. Interlocutori sono Cratilo, primo maestro di Platone, che vede questo rapporto nella natura colle cose, mentre il parmideo Ermogene lo postula in una convenzione. Per Platone, che parla per la voce di Socrate, l’attribuzione del nome è parte del parlare e del giudizio, che diamo alla cose (Cratilo 388 c5) “Insomma l’attribuire un nome è parte del parlare. Chi parla, esprime giudizi e ragionamenti, non v’è dubbio alcuno attribuendo un nome alle cose”.
Sul concetto del linguaggio come strumento conoscitivo e pragmatico Platone insiste  ibidem 388c quando dice “Il nome è un particolare strumento, suscettivo di fornire indicazioni; uno strumento suscettivo di far distinto quanto si contiene nelle varie idee, come la spola fa distinto il tessuto”. 
Platone, invero, anche discutendo del linguaggio, non può fare a meno di ricorrere alla teoria delle idee.Si tratta insomma di sostituire alla convenienza che diremo onomatopeica, una convenienza puramente ideale della cosa con la sua oggettività, nel senso che il giudizio significato, dalla parola corrisponda il più esattamente possibile al contenuto dell’idea………….. (Platone- I Dialoghi- a cura di E. Turolla- Rizzoli editore-1953-pag.535).
 Platone, confutando la tesi di Cratilo, per bocca di Socrate dimostra, che se la filosofia è scienza delle ragioni supreme, il filosofo non si limiterà ad indagare la parola per ottenere una serie di radici, in quanto fine ultimo del filosofo è quello di pervenire attraverso il linguaggio a cogliere il valore ultimo degli enti nella loro oggettività.
Ad esemplificazione di quanto abbiamo detto leggiamo il seguente brano dell’opera platonica – 435 a
Socrate- E io emetto in tal  caso un suono e adopero un segno che non ha rapporto di simiglianza con ciò che la mia mente si propone, dato che il suono l (lamda) è dissimile da quella durezza a cui accenni. Se così stanno le cose, è avvenuto che hai finito per abituarti alla cosa, e  la corrispondenza del nome si risolve per te in convenzione, dato che lettere aventi rapporto di simiglianza e lettere che questo rapporto non hanno, vengono ad assumere l’ufficio di segni manifestanti, una volta che intervenga l’abitudine e la convenzione. E pur nell’ipotesi che l’abitudine non abbia nulla da vedere con la convenzione, non sarebbe certo procedimento esatto affermare che simiglianza sola è suscettiva di manifestazione; bensì suscettiva ne è di più l’abitudine. Abitudine, infatti, per naturale conseguenza, manifesta per mezzo della simiglianza e della dissimiglianza.[1]
Cratilo————————–
Socrate- Dal momento che su questo punto siamo d’accordo, o Cratilo (metto il tuo silenzio in conto di un consenso) ne deriva ineluttabile ragione, che convenzione e abitudine concorrano insieme a manifestare ciò che esprimiamo rivolgendone il pensiero alla mente. In realtà, mio veramente ottimo amico, se ti metti a considerare i numeri, dove credi di trovar nomi da riferire a ciascun numero, adatti a esprimer una similitudine, se non ti decidi a lasciare un pò andare le tue conclusioni e non acconsenti che la convenzione abbia una certa importanza sulla retta corrispondenza delle parole? A me persuade assai questa teoria d’una similitudine, per quanto possibile, delle parole con gli oggetti. (traduzione di E. Turolla- op. cit. pp.605-606).
E’ particolarmente significativo che nel brano che abbiamo appena riportato Cratilo risponde a Socrate con il silenzio. I punti di interpunzione riportati sono emblematici di un silenzio colmo di meditazione, in cui s’invera la “giustezza di un’idea ” A me persuade assai questa teoria d’una similitudine, per quanto possibile, delle parole con gli oggetti”. Si comprende chiaramente come anche nel problema del linguaggio prenda sostanza il concetto della mimesi platonica rinvenibile anche nella teoria del Bello Ideale, come si deduce da un brano del Fedro, che riportiamo:
Bisogna che l’uomo sia capace di assurgere a quella che si chiama un’idea, andando da una molteplicità di sensazioni ad un’unità raggiunta col pensiero. Questo è un ricordarsi degli enti che un tempo l’anima nostra ha contemplato, tenendo dietro a un dio, guardando dall’alto le cose che ora diciamo essere, levando il capo verso ciò che veramente è. (Platone Fedro, 249 e)
Non vi è dubbio che sia il concetto  del linguaggio come pure  la teoria del Bello germinano da una medesima matrice speculativa riferibile alla mimesi ed al mito della conoscenza (per Platone gnoskein esti mneumenein)
E seppure, come è noto, Platone non attribuisce un giudizio del tutto positivo all’arte, in quanto vede quest’ultima come figlia della natura e, pertanto ancora più distante dal mondo delle idee, riflesse nella natura e nel pensiero proprio del filosofo, come si desume da un locus immediatamente susseguente al brano succitato:
“E’ dunque giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, poiché, per quanto gli è possibile  si rivolge di continuo a quegli oggetti per cui contemplazione anche un dio è divino. Servendosi rettamente di tali ricordi, un uomo sempre iniziato a perfetti misteri diventa perfetto”.
Non v’è dubbio che le teorie platoniche sia quelle concernenti la funzione del linguaggio che quelle del Bello Ideale assumono un valore categoriale ed una valenza estetica nel tempo ed attraverso il tempo.
Il presupposto della mimesi  nell’arte è anche in Aristotele. Questo è il solo punto in cui lo stagirita si avvicina alla filosofia del suo maestro Platone, da cui, però, nell’evoluzione del suo pensiero, si distacca anche in virtù della mutata concezione gnoseologica.
Per  Aristotele, infatti, il mondo sensibile, che l’arte imita, non è semplice apparenza (copia imperfetta delle idee), ma realtà, che viene concepita come sinolo di materia e forma.
Ne consegue che il carattere imitativo dell’arte non viene relegato soltanto nella sfera del mito o talora  nell’illusorietà di una parvenza, ma assume una connotazione al contempo conoscitiva  ed etica.
Aristotele, inoltre, conferisce all’arte un  valore educativo ed una funzione catartica.
Riguardo ai modi dell’imitazione, dando origine ai canoni letterari della tragedia e della commedia,   Aristotele dice che ci si può volgere nei modi dell’arte o narrativamente  o drammaticamente.
L’attenzione di Aristotele nella Poetica, come possiamo leggere nella parte, che ci è pervenuta, s’incentra sulla tragedia definita “un’azione seria e compiuta in se stessa, che abbia un linguaggio ornato in proposizioni diverse a secondo delle diverse parti, si svolga in mezzo a personaggi, che agiscano nella scena, e non che narrino, e infine produca, mediante casi di pietà o di terrore, la purificazione da tali passioni”.
Oggetto della tragedia per il filosofo, che precorre una problematica. destinata a perdurare nel tempo, non é il vero, ma il verosimile, che ritiene possa verificarsi “secondo simiglianza e necessità”.
La storia, invero, narra i fatti, e quindi il particolare, mentre la poesia, sempre secondo il principio aristotelico, e, massimamente quella presente nella tragedia, esprime l’universale.
Grande importanza il filosofo attribuisce anche alla musica, che congiuntamente alla poesia, è un potente mezzo di educazione e porta alla sollevazione dell’animo in alto ed alla sua purificazione (catarsi).
Ma adesso, dopo le nostre generiche enunciazioni è opportuno, per meglio chiarirci le idee, di far parlare direttamente l’autore della Poetica, che nella sua opera (I, 4 e 9) ci riferisce:
L’epopea e la tragedia, come pure la commedia e la poesia ditirambica, e gran parte dell’auletica e della citaristica, tutte quante considerate da un unico punto di vista, sono mimesi (o arti di imitazione) [2] Ma differiscono tra loro per tre aspetti e cioè in quanto imitano con mezzi diversi, o imitano cose diverse, o imitano in maniera diversa e non allo stesso modo…………………………Due sembrano essere, in generale, le cause che hanno dato origine alla poesia e tutte e due sono proprie della natura umana. La prima causa è questa. L’imitare è un istinto di natura comune a tutti gli uomini fin dalla fanciullezza; ed è anzi uno dei caratteri onde l’uomo si differenzia da tutti gli altri esseri viventi in quanto egli è di tutti gli esseri viventi il più incline all’imitazione [3]………………………la seconda causa è questa. Essendo naturale in noi non pur la tendenza a imitare “mediante il linguaggio” l’armonia e il ritmo.-i metri che sono si sa bene che sono varietà del ritmo, -così è avvenuto che coloro i quali fin da principio avevano per queste cose, più degli altri, una loro disposizione naturale, procedendo. poi, con una serie di lenti e graduali perfezionamenti, dettero origine alla poesia, la quale appunto si svolse e perfezionò da rozze improvvisazioni.[4] 
……………………………Ufficio del poeta non è descriver cose realmente accadute, bensì quali possono [in date condizioni] accadere: cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità.Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa…..la vera differenza é questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere, Perciò la poesia è qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare.[5]
 
Dopo aver letto le  parole del filosofo, che ci inducono a riflettere sull’universalità dell’opera d’arte, siamo convinti, facendo nostro il giudizio critico del Gadamer che “in virtù di tale universalità l’arte per Aristotele, non si traduce in un semplice gioco formale, ma tende a configurarsi come una rappresentazione dell’essenza delle cose, alla stregua di un’attività dotata di un’eminente funzione conoscitiva. Da ciò il suo ausilio a “comprendere l’uomo. (H. G. Gadamer- Verità e metodo-Bompiani-Milano 1983.p.147)   
 E’ da rivelare che l’insegnamento della dottrina platonica e di quella aristotelica perdura nel tempo sino all’età coeva anche con particolare riguardo alla classificazione dei generi letterari. Leggiamo nel testo di E. Raimondi e L.Bottoni- Teoria della letteratura a pag. 39 e 40-ed. mulino-1980-
Di natura descrittiva, le moderne classificazioni dei generi letterari muovono dalle caratteristiche strutturali delle opere piuttosto che dai canoni prescrittive delle “poetiche” e questo consente l’integrarsi di due metodi: quello induttivo che prende atto di un sistema prevalente in una data epoca, quello deduttivo che verifica la loro esistenza avvalendosi di una teoria del discorso letterario.Si tratta dello schema tradizionale alla Poetica aristotelica e alla distinzione platonico-socratica fra presentazione diretta (diegesis), rappresentazione impersonale (mimesis) e stile misto in cui i personaggi e il poeta si alternano con i locutori. Ma, come è ormai acquisito, da un lato il concetto di stile ha per controparte il concetto di argomento, dall’altro Aristotele considera le categorie platoniche rilevanti solo per i modi dell’imitazione, non per i mezzi e gli oggetti, che essa  trasceglie. La cornice concettuale può divenire quindi policentrica esaminando come il potere evocativo del discorso si generi e si disponga tra i due poli della presentazione autorale tematica (diegesis) ed il polo della rappresentazione drammatica intersoggettiva (mimesis).
Gli esiti critici enunciati ci appaiono di peculiare interesse per poter intessere anche nella lettura dei testi moderni un dialogo con gli antichi filosofi e per poter individuare gli aspetti normanti  delle loro teorie oggi rivisitate in forma complementare.
Ai tempi odierni si tende anche a superare quella netta distinzione tra platonismo ed aristotelismo codificato da generiche formule contenute nei manuali scolastici. E se è pur vero che l’opera dantesca è sostanziata dalla filosofia tomistico-aristotelica, mentre quella petrarchesca è permeata dall’influsso platonico-agostiniano, è tuttavia possibile rinvenire nell’uno e nell’altro autore la compresenza di componenti segniche e modi ideativi comuni, sia pure con differenziazioni di inventività poetica  e di resa estetica.
Al fine di esemplificare questo enunciato cerchiamo di intertestualizzare alcuni versi dalla Commedia di Dante con altri desunti da Chiare, fresche, dolci acque del Petrarca.
  Petrarca -da “Rerum vulgaria fragmenta Chiare, fresche, dolci acque w.40-52
Da’ bei rami scendea,
dolce nella memoria
una pioggia di fior sorva ‘l suo grembo
ed ella si sedea 
umile in tanta gloria,
converta già dell’amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l’onde,
qual con vago errore
girando parea dir “Qui regna amore”.
 
Dante -dalla” Commedia” – Purgatorio canto XXX vv.28-39.
…..dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadea in giù dentro e di fiori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirto mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la presenza 
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei si mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza
Entrambi i poeti raffigurano la propria donna attraverso una simbologia naturalistica, che diventa tutta psicologica ed interiore e che si traduce,come dice il Sapegno, a proposito della lirica petrarchesca in un mito fantastico che ha insieme il calore e la freschezza della realtà e la vaporosa idealità di una visione : la visione dell’amore.
I due poeti, realizzando in forma di elevata poesia  il  principio della mimesi platonica, attraverso la natura sensibile tra tono narrativo e drammatico descrivono il librarsi dell’animo tra realtà e vaghezza del sogno. Realtà e sogno, infatti, stanno alla base dell’inventio  poetica di entrambi gli autori,che descrivono una storia del tutto interiore, che si materializza nella rappresentazione naturalistica e che diventa mito dell’anima attraverso la memoria. Ed in ciò i due poeti sembrano aver interpretato l’assunto platonico, ma in chiave del tutto personale e con diversificazioni di connotazioni ideologico-stilistiche. Alla pioggia di fior della lirica petrarchesca fa riscontro ……dentro una nuvola di fior del verso dantesco………ma in seguito gli stilemi linguistici petrarcheschi decifrano situazioni più legate al reale fenomenico ed alla fisicità della donna. La pioggia  di fior   è rappresentata sull’amoroso grembo, così pure il ricordo delle trecce bionde,ch’oro forbito e perle……..ci riporta ad un forte senso della terrestrità.
 Come Dante anche Petrarca è alla ricerca dell’Amore, che rappresenta l’essenza stessa della vita. “Qui regna Amore” dice il poeta al v.52 della lirica e l’Amore sembra vivere alla maniera platonica nelle cose e colle cose. Per Dante,invece, l’amore è alla maniera aristotelica conoscenza “senza de li occhi aver più conoscenza,/ per occulta virtù che da lei si mosse”.
Anche  i colores verborum, che configurano Beatrice, sono diversi …………candido vel cinta ……….sotto verde manto……………..color di fiamma viva …..e sono tutti riconducibili all’universo poetico-idealogico del poeta.
Commentando questi versi Eugenio Chiarini in Lectura Scaligera -Le Monnier- 1967 arguisce acutamente a pp..114-115.
“Beatrice compare in una nuvola di fiori, bianco velata, in manto verde, con veste rosso d’un rosso fuoco, fiammeggiante come sole mattutino : fulgidi colori delle sue virtù,che riassumono in icastico accordo le tinte dominanti della processione augusta……………………… La gioia naturalistica e religiosa,degli occhi dinanzi al  prodigio verecondo del sole che nasce (Purgatorio XXX vv. 21-27- Io vidi già nel cominciar del giorno/ la parte oriental tutta rosata, e l’altro ciel di bel sereno adorno;/e la faccia del sol nascere ombrata,/sì che,per temperanza ai vapori,/ l’occhio la sostenea a lunga fiata;) dai vapori dell’alba,riemerge intatta nella memoria e si ricrea nella visione della sua donna che fu il primo sole………………………………….Una parusia dunque………che lo attira nel suo cerchio e lo emoziona dal profondo”.
NOTE
[1]  ibidem  in434 a Socrate che aveva affermato che le parole non potrebbero mai assimilarsi a nulla, se non esistessero quei certi elementi che formano le parole appunto capaci appunto d’esprimere una certa simiglianza. E simiglianza ciò di cui i nomi sono con  ciò di cui i noni sono imitazione, le lettere appunto.
[2] Il concetto di mimesi ricorda senz’altro il principio platonico, da cui però il filosofo si distaccherà in base anche alla sua diversa concezione filosofica.
[3] In  questo passo comincia a delinearsi il concetto di mimesi artistica, in modo diversificato da quello platonico, e si determinano i modi letterari, che oggi noi chiamiamo generi letterari e di cui il  filosofo predilige il poema epico ed il dramma. Inoltre si afferma che la poesia si origina da una naturale predisposizione dell’uomo
[4] Il filosofo anticipa alcune delle posizioni accreditate dagli studiosi coevi circa gli aspetti valoriali della fonologia linguistica e del livello sonoro- timbrico coessenziale  all’inventio poetica. 
[5] Aristotele, che aveva iniziato il suo discorso con un’intonazione platonica (la mimesi) ora se allontana per affermare,in coerenza con i suoi assunti filosofici, l’universalità dell’arte.

 

 Cap. II
Dallo strutturalismo alla filosofia del linguaggio
 
 Lo strutturalismo assume diversi significati nei vari momenti storici e nelle varie discipline.
E’ un metodo di studio che si può applicare anche alle scienze esatte.
 Ma, dovendo noi discutere sui modelli  di lettura e sull’analisi dei testi, ci limitiamo a trattare gli aspetti peculiari riferibili alla nostra sfera d’interesse.
Articolato si manifesta il discorso intorno ai metodi ed ai presupposti ideologici dello strutturalismo funzionali all’indagine del testo letterario.
Nel testo letterario, infatti, oltre alle componenti psicologiche e filosofiche vengono analizzati tutti i processi, attraverso i quali questo  si realizza e si presenta al lettore.
Lo strutturalismo, inoltre, propone diverse  strategie interpretative:
a) semiologica: si volge alla decodificazione del sema e di tutti gli elementi linguistici interlivellari costitutivi del testo e coessenziali alla “struttura” dello scritto letterario. I modi interpretativi spesso si raccordano a schemi matematici.
b) antropologica: si applica lo studio semiologico, ai fini di  individuare i fatti sociali intelligibili nell’ambito  storico-antropologico.
 In tal caso anche il linguaggio assume una forte valenza di “storicità” discorsiva e dialogica.
c) psicologica: nello studio letterario si pone particolare alla psicanalisi.
La struttura, in tal caso, è data “dagli effetti che la combinazione pura e semplice del significante denota nella realtà, dove essa si produce”. (J.Lacan-Ecrits-Paris-1966-pag.649).
d) filosofico: per quanto attiene alla speculazione filosofica, applicata allo strutturalismo, si distinguono tre momenti fondamentali nella storia del pensiero novecentesco:
1) il neokantismo, di cui uno dei maggiori esponenti è il Cassirer.
2) l’ideologia  marxista, promossa da Althusser e  riproposta, nei modi dello strutturalismo linguistico antropologico-socalie, da Levi-Strauss.
3) la filosofia probabilistica del ‘900: al bivio tra fenomenologia (Husserl)  ed  esistenzialismo (Heidegger).
Iniziamo a trattare della corrente del neokantismo ricordando l’opera di E.Cassirer.
Cassirer, pur attingendo alla Critica della Ragion pura di Kant, lamenta in questa l’assenza di un’analisi critica del linguaggio. ” Nella critica della ragion pura sembra del tutto trascurato il problema del linguaggio umano. Com’è possibile si chiede (Herder) una critica della ragione che non divenga anche una critica del linguaggio?”. (E. Cassirer- Lo strutturalismo nella linguistica moderna- trad.it. in “Nuova corrente”- Milano- pag.298).
Per Cassiser, invero, il fondamento comune, che riunisce tutte le forme della cultura dall’arte  alla religione, è l’espressione simbolica.
Il filosofo in “Filosofia delle forme simboliche” sostiene che, tutto quanto appartiene allo spirito,  si volge ad un’unica finalità: quella di trasformare il mondo passivo delle pure impressioni  nella pura espressione spirituale.
Cardine del suo sistema filosofico è il segno, non solo perché destinato alla comunicazione, ma anche perché realizza, formandolo e determinandolo, il mondo dell’espressione spirituale.
 Così argomenta il Cassirer in ” Filosofia delle forme simboliche” a pag.18.
” Il contenuto dello spirito si compie soltanto nelle sue manifestazioni; la forma ideale è riconosciuta soltanto attraverso il concetto del sensibile, dal quale essa si serve per la sua espressione”.
Questo principio viene ribadito nella medesima opera a pag.289-290, nella quale il filosofo dice che ” una teoria della conoscenza dovrebbe essere una sorta di pianta del nostro “globus intellectualis”, ma questa pianta è ancora in gran parte incompiuta……….. Nella moderna teoria della conoscenza la linguistica è del tutto trascurata…………..un libro sulla logica della linguistica manca ancora…..”.
Non c’è dubbio che Humdoldt (1768-1853), che è vissuto anteriormente e che è considerato il creatore della moderna scienza, abbia influito sul pensiero del Cassirer.
Analogie possiamo trovare tra i due autori, in particolare se ci ricordiamo gli ammaestramenti, che Humboldt  ci fornisce nei saggi letterari, ed in  ispecie nell’Arminio e Dorotea di Goethe (1798).
 In quest’opera il pensatore enuclea il suo pensiero ed approda alla concezione di un processo evolutivo della forma umana, nella quale riconosce la forza spirituale e dalla quale dipendono tutte le manifestazioni dell’uomo nel mondo, ivi compreso il linguaggio.
Il filosofo definisce grandi uomini quelli, nei quali si è affermato lo spirito dell’umanità, ed addita come  exempla Goethe ed il popolo dei Greci.
Connessa all’idea dell’umanità in Humboldt è il linguaggio, concepito come l’attività della forza dell’uomo (energheia).
Humboldt dice in ” Scritti e frammenti di estetica-VI, I a pag. 86 
” Poiché non vi è nessuna forza dell’anima che non sia attiva, non c’è nulla di così profondo e nascosto che non si trasformi e riconosca in esso” (con chiara allusione al linguaggio).
Opina, inoltre, che la diversità del linguaggio avviene a seconda della sua organizzazione e del suo modo di esplicarsi in tempi diversi da popolo a popolo.
Nel linguaggio, sempre secondo Humboldt, interagiscono fantasia e sentimento, che si diversificano nel tempo ed in seno ad uno specifico popolo, determinando diversità di caratteri individuali, che sono riflessi nella molteplicità dell’espressione linguistica.
Il linguaggio, inoltre, per H. è ” un organismo che vive nella totalità e nella connessione delle sue parti”.
Possiamo notare, da quanto abbiamo detto, come già in H. s’intravedono le linee direttrici di molta parte delle teorie linguistiche tuttora vigenti.
Dopo questo primo breve excursus sulle posizioni neokantiane,  riguardanti la  teoria del linguaggio, ci pare opportuno occuparci della corrente marxista, che nel ‘900 ha prodotto molte opere non solo sullo studio della linguistica, ma anche sulle strategie ermeneutiche, finalizzate a dare una differente visione globale della vita, e, dalle quali deriva conseguentemente una diversificata lettura del testo letterario. 
La scuola di pensiero marxista, invero, si contrappone a quella idealista, in quanto intende, seguendo i precetti di Marx, l’arte come “sovrastruttura”, legata alle forme giuridiche, politiche, religiose ed articolate in modo che determino lo sviluppo delle condizioni di “vita reale degli uomini reali”.
Secondo la prospettiva marxista si nega ogni forma di universalismo idealistico.
Vengono, altresì, condannate e respinte le teorie, che pretendono di attribuire alla letteratura carattere universale, in quanto  sono considerate prodotti della società borghese, classe politica dominante, che  elabora a suo consumo forme letterarie, atte a rinvigorire nell’animo dei lettori “una falsa coscienza”. (Adorno).
Si assiste ad una rivoluzione del pensiero, che si estende anche nel campo epistemologico.
Al riguardo il Marchesi puntualizza (A.Marchesi- Il testo letterario- -Avviamento allo studio della critica letteraria- S.E.I.- Torino pp.467-68:
” Il marxismo reagì, e reagisce ancora, esorcizzando lo spettro stutturalistico imputato di rappresentare l’ultima e più perfida reincarnazione ideologia del pensiero tecnocratico-borghese (con buona pace di quegli studiosi che vivono o lavorano in paesi ora ex-socialisti, o, addirittura si dichiarano marxisti).
Il paradigma  delle accuse è interessante
1) Lo strutturalismo è astorico  perché  si fonda su archetipi, modelli, schemi che permangono invariati nel dinamismo individualizzante dei processi sociali e culturali.
2) Lo strutturalismo non è dialettico perché antepone la sincronia alla diacronia, l’immutabile al variabile, l’astratto al concreto.
3) Lo strutturalismo è una specie di idealismo mistificante perché  gli oggetti (ad esempio le opere artistiche) non sono che degli epifonemi di modelli preesistenti.
Teorico del marxismo è Althusser, che, però, di Marx ci offre una lettura del tutto nuova e producente nell’ambito epistemologico.
Althusser, infatti, sostiene che Marx avrebbe ad un certo punto operato una vera  e propria rottura epistemologica con le sue argomentazioni transitando dall’ideologia alla scienza.
Marx, però, ritiene A., non avrebbe compiuto un semplice “rovesciamento” della dialettica, ma una sua radicale trasformazione.
E se per Hegel reale e razionale, essere e dovere essere coincidono, per Marx la totalità dell’Essere appare più articolata e complessa, se rapportata ad una forza dominante, che è l’economia.
Dal che si origina il binomio di struttura (nell’ambito politico, economico, sociale) e sovrastruttura, concernente il mondo dell’arte in genere.
Althusser intende superare quest’antitesi tra struttura e sovrastruttura e, preannunciando forme di pensiero, ancora oggi vive e fruibili nell’ambito ermeneutico, realizza il principio di una struttura globale, che, congiuntamente all’economia e alla politica, ingloba l’ideologia.
Così scrive in ” Per Marx (1965):
“Dal 1845 Marx rompe radicalmente ogni teoria che fonda la storia e la politica su un’essenza dell’uomo. Questa rottura unica comporta tre aspetti teorici indissociabili:
1) formazione di una teoria della storia e della politica fondata su concetti radicalmente nuovi, cioè su concetti quali la formazione sociale, forze produttive, rapporti di produzione, sovrastrutture, determinazione in ultima istanza di opera dell’economia.
2) critica radicale delle pretese tecniche di ogni umanesimo filosofico.
3) definizione dell’umanesimo come ideologia.
Questa rivoluzione teorica totale ha, però, il diritto di rifiutare i concetti in quanto li sostituisce con concetti nuovi…..Così come quando Marx nella teoria della storia, sostituisce la vecchia coppia individui-essenza umana con concetti nuovi (come forza di produzione, rapporti di produzione ) in realtà propone al tempo stesso una nuova concezione della “filosofia”. Egli sostituisce agli antichi postulati(empirismo, idealismo del soggetto, emprismo-idealismo dell’essenza) che sono alla base non soltanto dell’idealismo, ma anche del materialismo pre-marxista, un materialismo dialettico-storico della prassi; vale a dire una teoria dei diversi livelli specifici della pratica umana (pratica economica, pratica politica, pratica ideologica, pratica scientifica) nelle loro articolazioni proprie, fondate nell’articolarsi specifico dell’unità della società umana. Diciamo in due parole che al concetto “ideologico” ed “universale” della “pratica” feuberchiana Marx, sostituisce delle differenze specifiche, che permettono di situare ogni pratica particolare nelle differenze specifiche della struttura sociale”.
Abbiamo riportato questo testo di A. perché riteniamo che, proprio da questa lettura, possiamo comprendere la nuova interpretazione del marxismo. Althusser, infatti, si oppone  alla tradizione del marxismo imperante, rifiutando il principio di un’analisi esclusivamente empirica anche nell’esegesi del testo letterario, che, secondo l’autore deve tradurre in parole questa nuova concezione della vita e del mondo.
  Ne consegue che, pur basandosi con accurata forma di filologia di pensiero, alle congetture di Marx, A. sostituisce all’analisi empirica quella razionale includente anche l’ideologia.
 Il che ha senz’altro una valenza assai forte anche nell’approccio   ermeneutico ai testi letterari.
Donde nasce l’originalità tutta propria del suo pensiero, che esclude per sua stessa esplicita dichiarazione, ogni contatto con lo strutturalismo.
 In ” L.Althusser e E.Balibar- Leggere il capitale- trad. it.- Milano 1968” , a pag.68, l’autore dice: 
[“Nonostante  le preoccupazioni prese per distinguerci dalla “ideologia strutturalista”, nonostante il decisivo intervento di categorie esterne allo “strutturalismo”  la terminologia che abbiamo impiegato era da diversi punti di vista troppo vicina allo “strutturalismo” per non dar luogo ad equivoco. E’ accaduto che, escluse eccezioni, la nostra interpretazione di Marx è stata generalmente ascoltata e giudicata in omaggio alla moda attuale, come”strutturalista”. Pensiamo che la profonda tendenza dei nostri testi, non si riallacci, nonostante gli equivoci terminologici, all’ideologia “strutturalista”.]
Althusser intende rivendicare l’originalità del suo pensiero, che non si imparenta colla moda dello strutturalismo, ma che si basa su  teoresi e processi gnoseologici innovativi.
Parimenti Levi-Strauss, anche se è chiamato il padre dello strutturalismo, in un primo momento sembra vicino alle tesi di Althusser, soprattutto per quanto riguarda l’analisi di tipo razionale.
Nell’opera  “Tristi Tropici” (1955) Levi-Strauss rivela uno specifico interesse per l’antropologia. 
Contrapponendosi all’opera di Durkein e all’ipotesi, accreditata dagli etnologi del tempo, che affermavano che il totemismo fosse la chiave d’interpretazione dei raggruppamenti umani, sostiene la tesi del primato dell’intelletto sul sociale. Il che lo conduce a conclusioni tuttora accreditate dai teorici della filosofia e dell’ermeneutica letteraria. 
L’autore, inoltre, applica i modi del suo discernimento filosofico anche al problema del linguaggio, come possiamo desumere dal brano che si riproduce:
“Il principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si riferisce alla realtà empirica (posizione vicina ad Althusser), ma ai modelli costruiti in base ad essa. Risulta quindi chiara la differenza tra due concetti tanto vicini da essere spesso confusi, quelli cioè di struttura sociale  e relazioni sociali.  Le relazioni sociali sono la materia prima per la costruzione dei modelli che rendono manifesta la struttura sociale.
Si tratta allora di sapere in che cosa consistano quei modelli che sono l’oggetto peculiare dell’analisi strutturale. Il problema non è etnologico, ma epistemologico”. ( Levi-Strauss- Antropologia culturale pp.311-313).
“Il problema non è etnologico, ma epistemologico” ; questa frase rappresenta il nucleo fondante del pensiero di Levi-Strauss, dal quale germinerà il principio, secondo il quale possiamo comprendere l’insieme delle regole di relazione e di combinazione, operate da un gruppo ed anche le possibili varianti trasformazioni o variabili sul piano antropologico e su quello della comunicazione linguistica.
 Ulteriori sviluppi del pensiero di Levi-Strauss ci pongono a riflettere sulle costanti strutturali dell’umanità  connotanti l’antropologia  come una scienza universale,  definita dall’autore “capace di cogliere ciò che sta alla base di tutte attività, ivi  inclusa la forma di linguaggio”.
Analizzando il pensiero di Leivi-Strauss, Ricoeur chiama il nostro “Kant dell’antropologia”, ma poi aggiunge “senza oggetto trascendentale”.
 E Ricoeur, a dimostrazione della sua tesi, chiarisce  che  Levi-Strauss  ha sostituito all’io penso di Kant un io inconscio, che sta alla base di tutti i processi gnoseologici e linguistico-comunicazionali.
Ci sembra alquanto  concludente questa posizione di Ricoeur, anche perché, con il ricorso all’io inconscio, ci permette di adire ad altre forme dello strutturalismo oscillante tra psicanalisi ed esistenzialismo. 
Ci riferiamo in particolare a Lacan e Foucault.
Alla base del pensiero di Lacan(1901-1981) vive l’esigenza di un ritorno a Freud.
  Lacan rivisita il pensiero di Freud e ne coglie la lezione, indagando nei meandri  dell’essente, “lo spirito autentico” dell’uomo contemporaneo  e la “complessità” del suo pensiero.
Fondamentale è in Lacan la teoria, espressa negli Scritti (1966), e, che viene individuata come interpretazione linguistica dell’ Es.
 Il punto di partenza del pensiero di Lacan è costituito dalla negazione del principio  della filosofia tradizionale, secondo la quale la centralità dell’uomo risiede nella coscienza o nel cogito.
 Lacan, a questa concezione ne oppone un’altra, che contempla due momenti dell’Essere che interagiscono: L’Inconscio e l’Altro.
L’Altro, nell’accezione di Lacan, è costituito dal linguaggio.
 All’interno del pensiero di Lacan si collocano alcune delle tesi più significative presenti nell’odierna lezione tradita dallo strutturalismo.
 Una teoria molto seguita di Lacan, in particolare negli anni sessanta, è quella dello Spaltung (ossia della divisione tra psichismo ed inconscio e dell’esistenzialità dell’uomo in bilico tra desiderio e mancanza).
Ma per meglio comprendere Lacan ci affidiamo alle sue parole:
“I contenuti dell’inconscio nella loro deludente ambiguità non offrono nessuna realtà più consistente, nel soggetto che l’immediato……….Si tratta qui di quell’Essere che appare solo per il lampo di un istante, nel vuoto del verbo essere, e ho detto che pone la sua questione per il soggetto. Che vuol dire?…………………Ciò che pensa così al mio posto è un altro io?………..
La sua presenza non può essere compresa che a un grado, secondo dell’alterità, che già lo situa in posizione di mediazione in rapporto al mio sdoppiamento da me stesso come da un simile.
Se ho già detto che l’inconscio è il discorso dell’altro con l’A maiuscola, è per indicare l’aldilà in cui il riconoscimento del desiderio si lega al desiderio di riconoscimento.
In altri termini questo altro è l’ Altro che è invocato e persino nella mia menzogna come garante della verità in cui sussiste.
Nel che si osserva che è con l’apparizione del linguaggio che emerge la dimensione della verità”. ( Lacan- Scritti, pp.511 sgg.).
La lettura di questo brano ci fa comprendere come in questo scritto siano presenti componenti della cultura e dell’estetica letteraria rinvenibili nel testo poetico e/o narrativo del ‘900.
 Si profila, inoltre, il connubio tra il linguaggio e l’existere dell’uomo di tipo heideggeriano
Ne è exemplum l’opera di Foucault, che indaga col suo pensiero su strutture, che operino nella temporalità della storia.
L’attenzione di Foucault è volta all’epistemologia, come possiamo osservare dalla lettura della sua opera “Le parole e le cose- Un’archeologia delle scienze umane” (1966), nella quale si propone di illustrare gli  epistemi, che hanno influenzato la storia europea dal ‘500 sino ai nostri giorni.
 Tre sono gli epistemi indicati da Foucault e si riferiscono
 a) all’età rinascimentale
 b)a quella classica (che secondo F. va da Cartesio alla fine del sec. XVIII)
 c) a quella moderna.
L’interesse di F. si svolge particolarmente all’età moderna, nella quale, secondo il filosofo, c’è l’avvento della “nascita” dell’uomo. 
Questa definizione deve essere intesa nell’ottica epistemologica e, riferibile al fatto che in precedenza non esisteva la figura moderna dell’uomo, concepito come oggetto-soggetto di scienza.
 Ma da questo presupposto si origina il paradosso.
 Nel momento stesso in cui l’uomo nasce muore.
 Nell’età contemporanea, infatti, l’essere umano diventa oggetto di scienza autentica di tipo strutturalistico  e quindi cessa di essere soggetto.
 In tal senso Foucault intende criticare quelle, che chiama contro-scienze (psicanalisi, etnologia, linguistica). 
Appare evidente a questo punto il distacco dal pensiero di Lacan.
 Dal psicologismo di Lacan ora F. sposta la sua attenzione verso l’esistenzialismo. 
Ma qual è per Foucault l’emblema che rivela questo existere dell’uomo contemporaneo?
 Lo studioso lo individua nel linguaggio. In “Le parole e le cose”, a pag.413, ci dice :
“Il problema non è dunque l’uomo che potrebbe essere cancellato come sull’orlo del mare un volto di sabbia, ma piuttosto l’esigenza di ritrovare quell’unità del linguaggio e quindi della rappresentazione dell’Essere, che l’uomo stesso frantumerà”.
Troviamo in questo brano molti punti di contatto con l’opera di Blanchot.
Non c’è dubbio che nell’opera di F. confluiscono molte suggestioni, anche della poesia ed in particolare di quella simbolistica,  correlate ai presupposti della filosofia probabilistica del ‘900.
 In proposito è  illuminante l’affermazione di Foucault: “chi parla non è l’individuo, ma la parola stessa”.
Ad esemplificazione delle nostre enunciazioni riportiamo un brano tratto ancora  da “Le parole e le cose”- pp.407-409
“L’ analisi linguistica  è più una percezione che una spiegazione; è in altre parole costitutiva del suo stesso soggetto. Inoltre, ecco che attraverso quest’emergere della struttura ( in quanto rapporto invariante in un insieme di elementi) il rapporto tra scienze umane e matematica  viene di nuovo a schiudersi secondo una dimensione interamente nuova………………………….
L’importanza della linguistica e della sua applicazione alla coscienza dell’uomo fa riapparire, nella sua insistenza enigmatica, il problema dell’essere nel linguaggio, il quale è legato, come abbiamo visto, al problema della cultura……..Attraverso un cammino assai lungo e imprevisto, siamo ricondotti nel posto indicato da Nietszche e da Mallarmè, allorché il primo aveva chiesto: “Chi parla?” e l’altro aveva veduto scintillare la risposta nella Parola stessa”…….
Le posizioni di Lacan e Foucault influenzano in uno primo momento le tesi di Deridda ,(n. nel 1930) che opera, però, uno stacco ancora più radicale dallo strutturalismo.
D. polemizza anzi con Foucault, a proposito delle griglie, che ritiene fuorvianti e banalizzanti l’autenticità del discorso dell’Essere e reputa l’opera di Foucault come quella di Lacan, fondata su una ricerca viziata, costretta a fallire.
Primum movens del progetto filosofico di Deridda è l’idea di una “decostruzione” della metafisica della “presenza”,  propria della tradizione filosofica occidentale.
Sulle orme del pensiero heideggeriano, e, contrapponendosi alla metafisica europea ed allo strutturalismo, che hanno dato l’avvio al logocentrismo e fonocentrismo, D. sostiene che l’Essere è differenza e che, come tale, non è “presentificabile” nel linguaggio.
Dell’ essere, inteso come una sorta di Assenza, secondo il pensatore, non si può dare attraverso la parole delle rappresentazioni, ma tracce.
Alla voce “presenza” Deridda sostituisce la scrittura (assenza).
 In tal modo sostituisce alla metafisica  logocentrica e fonocentrica tradizionale  una nuova e post-metafisica della scienza (la grammatologia).
Leggiamo di Deridda un brano tratto da “La scrittura e la differenza (1967) pp.20 sgg.
“La cosa grave che questo metodo,”ultra-strutturalista”, per certi lati sembra contraddire l’intenzione più preziosa e originale dello strutturalismo. Quest’ultimo nei campi della biologia e della linguistica, in cui si era dapprima manifestato, tende soprattutto a preservare la coerenza e la complessità di ogni singola totalità al suo livello. Essere strutturalista significava anzitutto applicarsi all’organizzazione del senso, all’autonomia e all’equilibrio proprio,  alla costituzione realizzata di ogni momento, di ogni forma; significa rifiutarsi di trasferire al rango di accidente aberrante tutto ciò che un tipo ideale non permette di comprendere…………..Lo strutturalismo vive nella e della differenza tra il suo voto e il suo fatto. Si tratti di biologia, di linguistica o di letteratura, come è possibile percepire una totalità organizzata senza percepire una totalità organizzata senza prendere l’avvio dalla  sua fine, dal suo fine? almeno, nella presunzione di esso? E se il senso non è il senso che in una totalità, come potrebbe sgorgare se la totalità non fosse animata dall’anticipazione di una fine, da un’intenzionalità che peraltro non è necessariamente e prima di tutto quello di una coscienza? Se ci sono strutture, esse sono possibili solo a partire da questa struttura fondamentale  per mezzo della quale la totalità si apre e si riversa per prendere senso nell’anticipazione di un telos che dobbiamo qui intendere nella sua forma indeterminata………..Allora si deve riconoscere che [……..] ciò che all’interno minaccia la luce è anche ciò che minaccia metafisicamente ogni strutturalismo : nascondere il senso nell’atto stesso in cui lo si scopre. Comprendere la struttura di un divenire, la forma di una forza, è perdere il senso, mentre lo si conquista […….] Il senso del senso è apollineo per tutto quello che in esso si manifesta.”
Il nostro discorso adesso ci avvicina ai testi della letteratura, che hanno in comune con gli autori, di cui abbiamo parlato, modi ideativi poietici nelle loro composizioni in poesia e/o in prosa. Abbiamo innanzi ricordato che Deridda intende sostituire alla voce “presenza” la scrittura “assenza”.
E’ da rilevare che questo concetto, già molto prima di Deridda si configurava nella mente di Italo Svevo, che nella pagina iniziale della Confessione di un vegliardo, che reca la data del 4 aprile 1928 parla della “letteraturizzazione della vita”.
Riportiamo il testo:
“Con questa data comincia per me un’era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualcosa d’importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta:la descrizione da me fatta di una parte. Certe descrizioni accatastate,  messe da parte per un medico che le prescrisse. La leggo e la rileggo e m’è facile di completarla di mettere tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Com’è viva quella vita e come è definitivamente morta la parte che raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche quella parte che raccontai non ne è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? non colui che visse, ma colui che descrissi. Oh! l’unica parte importante è il raccoglimento. Quando tutti comprendono con la chiarezza ch’io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata.  Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e a studiare quello che l’altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si  ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà qual è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno uguale all’altro di fronte agli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace solo di figurare quale un numero di tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora.”
Leggendo questo brano abbiamo ragione di ritenere che “in nuce” sono presenti molti degli atteggiamenti spirituali e culturali imperanti nella cultura coeva. Chi dice di essere lo scrittore? “Non colui che visse, ma colui che descrissi”. 
Ma come deve avvenire questa trasposizione di tutta quanta la vita nella scrittura? 
Ce lo dice lo stesso Svevo “nel raccoglimento” “L’unica parte importante della vita è il raccoglimento”
Questo modo di intendere la vita e la scrittura realizza l’inscindibile binomio letteratura-vita, che sta alla base di tutta quanta la cultura contemporanea.
Il raccoglimento, poi, di cui parla Svevo indica quel ripiegamento dello spirito in se stesso nell’atto di interpunzione tra l’io ed il mondo (epochè dirà Husserl), da cui si origina il nostro modo di intendere l’universo e di comunicare con noi stessi e col prossimo.
E’ affidato proprio alla letteratura questo compito, che si identifica con la ragione stessa della vita e che rappresenta l’unica possibilità di salvezza e di riscatto all’ existentia dell’uomo contemporaneo lacerato da dubbi ed incertezze.
“La vita sarà letturatizzata”.
Secondo Svevo è soltanto la letteratura ed in particolare la scrittura (anticipazione di Deridda?) che renderà viva la vita, mentre “il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera”
La letteratura, la scrittura si presentano al nostro autore, ed in ciò, anticipando le istanze della poetica del secondo novecento, come “varco” e si identificano colla sua stessa esistenzialità.
Così si conclude la lettera “Io voglio scrivere ancora”.
E’ un atto di fede nei confronti della letteratura ovvero la profonda convinzione che lo scrivere darà un senso al non senso della vita?
Oppure Svevo ci anticipa la volontà di sfidare il labirinto, come ci propone I.Calvino nel brano, che appresso si riproduce?
“Questa letteratura del labirinto gnoseologioco-culturale ……ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che è oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. D’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, da perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno e l’altro i due atteggiamenti vogliono porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e dal gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita).
Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. E’ la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”
Lo scritto di Calvino risale all’anno 1962 e viene pubblicato nella rivista “Menabò″diretta da lui medesimo con Elio Vittorini.
Calvino, in polemica con la letteratura di avanguardia, che considera “letteratura del coacervo biologico-esistenziale”, si propone di trovare una via d’uscita, anche se via d’uscita”sarà il passaggio da un labirinto all’altro”. 
E se Svevo indicava una soluzione nella “letturarizzazione della vita”, assai più articolato ci sembra il  discorso di Calvino, conscio del cammino impervio che l’uomo, ed il letterato in particolare, deve compiere per non soccombere alla “resa del labirinto”.
La ” non resa al labirinto” di Calvino, in effetti, a nostro parere compendia gli aspetti nodali delle teorie esposte infra al presente lavoro dagli autori più rappresentativi delle moderne teorie letterarie.
Nell’atteggiamento di Calvino ci appaiono anche ravvisabili i nuclei lirico-ideativi di tanta poesia del ‘900: da Ungaretti che definisce la poesia ” è il mondo, l’umanità/ la propria vita/ fioriti dalla parola/ la limpida meraviglia / di un delirante fermento/………(Commiato  Locvizza 2 ottobre 1916) ovvero la parola: Parola tremante/ nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ dell’uomo presente alla sua/ fragilità.. .(Fratelli- Mariano 15 luglio 1916) a Quasimodo che evoca il suo Orfeo,che ” brulica d’insetti,è bucato dai pidocchi”, ma che con il suo urlo vince il mondo facendo rivivere Euridice, figura stessa dell’amore, che si fa poesia.
 E non possiamo certo dimenticarci di Montale e del suo messaggio, 
espresso nella lirica “Gallo cedrone”, in cui si stigmatizza il travaglio lacerante del poeta, da cui però si apre uno spiraglio:
 
Sento nel petto la tua piaga, sotto
un grumo d’ala; il mio pesante volo
tenta un muro e di noi solo rimane
qualche piuma sull’ ilice brinata.
Ma alla conclusione della lirica M. dice:
……………Ora la gemma
delle piante perenni, come il bruco,
luccica nel buio……..
Anche, quando affronta il problema del linguaggio, Montale sembra addentrarsi nella tortuosità del suo esistenziale labirinto, nel  quale non può che incepiscare  ricercando sempre, però, con la veridicità della parola l’autenticità dell’ Essere.
Incespicare, incepparsi                        
è necessario 
per destare la lingua
dal suo torpore.
Il dictamen della lirica montaliana appena citata ci spinge ad approfondire il problema della filosofia del linguaggio, che interessa in massima parte il panorama culturale-filosofico coevo.
Nel ‘900, infatti, emergendo la riflessione sulle scienze umane, si accentua la riflessione sul linguaggio.
La linguistica e la semiotica hanno dominato il campo d’indagine nel primo novecento sino agli anni’60, ma in un secondo momento  lo strutturalismo entra in crisi e si percorrono nuove strade nei processi gnoseologici del mondo, del suo manifestarsi attraverso il linguaggio e la scrittura.
Il rapporto tra linguaggio ed Essere, Essere e conoscenza diventa sempre più dialettico ed influenza le correnti estetiche.
Il linguaggio, inteso come raffigurazione del mondo,è presente nell’opera di Wittegestein. 
Sono, infatti, sue le osservazioni :” La  totalità dei pensieri è una raffigurazione del mondo………………..Il  Pensiero è la proposizione significativa del mondo”.
Possiamo considerare la teoria esposta da W. alla maniera  di Aristotele, apofantica e cioè rivelatrice di ciò che è.
Ma subito ci accorgiamo della diversità di pensiero che intercorre tra i due autori.
Nella concezione aristotelica il mondo è determinato dalla necessità (da ciò che è non può essere diversamente), mentre in W. dalla causalità.
Ne consegue che di volta in volta il linguaggio assume diversi significati, riferibili ai diversi modi di porsi dell’uomo nell’esistente.
Si origina, pertanto, la teoria dei giochi linguistici, secondo la quale W., concependo il linguaggio come una forma di vita, ne analizza le mutazioni con la nascita continua di alcuni vocaboli e con il disuso di altri.
W.,avvicindosi anche alle teorie estetiche contemporanee, ci dice che il linguaggio, connesso ai fatti, non può esprimere l’ente del mondo, ma che il suo modo di manifestarsi è quello di correlarsi ai fatti.
Anche per quanto concerne l’inesprimibile, ed in questo si avvicina a Blanchot, W. si rapporta al silenzio, che può assurgere ad un carattere  mistico.
Leggiamo in Tractatus logico-philosophicus ( pubblicato in Annalen der Naturphilosophie- Vienna 1921)
I  limiti del linguaggio significano i limiti del mondo.
Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è.
Di una risposta che non si può formulare, non può formularsi neppure la domanda.
L’enigma non v’è.
Se una domanda può porsi, può avere risposta.
Noi sentiamo che anche una volta tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico.
Rilevante è anche la posizione di Husserl sul piano gnoseologico del ‘900 e la sua lezione nell’ambito dell’estetica e della comunicazione letteraria.
Con Husserl, invero, assistiamo ad un profondo mutamento delle posizioni filosofiche precedenti.
Per il filosofo, infatti, si nega la concezione di un riconoscimento della realtà, implicita in ogni atteggiamento naturale o rapportata ad interessi.
 Il phainomai  della realtà è proprio quale appare all’uomo e alla sua coscienza.
 Il mutarsi di quest’atteggiamento si chiama epochè.
Il termine era già in uso nella filosofia greca con il significato di “sospensione” e serviva a connotare lo scetticismo radicale circa la possibilità di formulare giudizi.
Nei termini proposti da H. indica il mettere “tra parentesi” ed in ciò vuole mostrare la sua opposizione agli aspetti ontici della filosofia preesistente, che affermava l’esistenza di realtà esterna al di fuori della coscienza.
Dice Husserl : “Il mondo percepito in questa vita è in un certo senso sempre presente a me; è percepito come prima, col contenuto che in ogni caso gli è proprio. Continua ad apparirmi come mi appariva, ma nell’atteggiamento che mi è proprio come filosofo, non compio più l’atto dell’affermazione esistenziale dell’esperienza naturale, ma ammetto più questa affermazione come valida, sebbene sia presente ed anzi sia colta dallo sguardo dell’attenzione. E lo stesso avviene di tutte le altre conoscenze che appartengono al flusso della coscienza…….Tutto perde la sua validità, è presente come fenomeno”.
Ma questa sospensione dal mondo naturale, come osserva E. Garin in -Manuale di Storia della filosofia -Sansoni-1958 a pag. 58 “non significa altro che l’affermazione di una radicale insufficienza di essa e quindi l’esigenza di una giustificazione. Oltre alla logica pura H. si avvia verso la metafisica”. 
L’atto  di riferimento del dato conoscibile viene denominato da H. noesi, mentre il termine ideale noema.
Nell’ambito di quest’atteggiamento speculativo-intuitivo c’è la possibilità di intendere la metafisica.
L’intendere per H. è concepito come esigenza, maturata nella coscienza dell’uomo, di rivolgersi ad un’essenza universale. (eidos) 
H. così porta a compimento il metodo dell’intuizione eidetica. 
Ed è appunto attraverso questo metodo  che cerca di costruire il fondamento delle scienze apriori di essenze o di  forme pure, che costituiscono la molteplicità delle manifestazioni della nostra vita. 
Con quest’evoluzione di pensiero, oltre ad altre forme  istituzionali, il pensatore tenta di dare vita anche ad una grammatica pura e quindi ad una nuova forma di linguaggio, riferibili alla sua dottrina.
L’insegnamento di H. è quanto mai producente nell’ambito della Letteratura. 
Basti pensare all’influsso che H. esercitò nell’opera di Pirandello.
Le argomentazioni suesposte ci convincono sempre maggiormente del legame inscindibile che nell’era contemporanea esiste tra filosofia, letteratura, estetica, linguaggio e filosofia del linguaggio.
A questo punto ci sembra doveroso ricordare l’incidenza che ha avuto Heidegger tutte quante le forme del pensiero e dell’arte del ‘900.
Anche in Heidegger come in Husserl si delinea la formalizzazione del pensiero di “un’analitica dell’esistenza”.
Per maggiore chiarezza ci pare opportuno presentare i dettami della filosofia dell’autore attraverso le sue parole.
Il filosofo, che considera l’uomo non come rilevatore dell”Essere, ma pastore dell’Essere cosi esprime in ( M. Heidegger- La dottrina  di Platone sulla verità- Torino- trad. it. di A. Bixio e Vattimo- Torino 1975 a pag.93):
Piuttosto l’uomo è gettato nello stesso Essere nella verità dell’Essere che in tal modo ex-sistendo custodisca la verità dell’Essere perché nella luce dell’Essere appaia come quello essente che è. Se e come esso appare, se come dio e gli dei e la storia entrano nell’apertura dell’Essere, vengono e si ritraggono, tutto ciò non è l’uomo a deciderlo. L’avvento dell’Essente ripara nel destino dell’Essere.  All’uomo resta,  però, il problema di trovare essenza in conformità di destino che egli ha da custodire come esistente la verità dell’Essere.  L’uomo è il pastore dell’Essere.
Ma se l’uomo è il pastore dell’Essere, allora, quale forma assumerà il linguaggio?
Così argomenta Heidegger: 
L’ essere dunque , come che cos’è l’essere. esso è esso stesso…….L’Essere è ogni oltre essente ed è tuttavia all’uomo più vicino di ogni essente , sia questa una roccia , un animale, un’ opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’essere è ciò che ci è più vicino………………………………………………
Ma come si rapporta l’essere all’esistenza (se pure la domanda può essere posta in questi termini)? L’Essere, esso stesso è questo rapportarsi, in quanto esso tiene stretta a sé l’ex-sistenza nella sua essenza esistenziale, cioè statica e la raccoglie in sé come alla dimora della verità dell’essere in mezzo all’essente. Ma, poiché, l’uomo ex-sistendo viene a stabilirsi in questo rapporto, in cui l’Essere destina se stesso; mentre egli sostiene l’essere estaticamente, ossia lo prende nella sua cura, egli ignora soprattutto ciò che gli è più vicino e si attiene a quel che è di là da esso. Egli crede addirittura che quello sia il più vicino. Invece più vicino di ciò che ch’è più vicino, per il comune modo di pensare, e più lontano di quel che è più lontano, è la vicinanza stessa, ossia la verità dell’essere.
Questa vicinanza si realizza essenzialmente come lo stesso linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente quel linguaggio che noi, nel caso migliore ci rappresentiamo come l’unità di formazione si suoni ( o della parola scritta) melodia e ritmo, e significazione. Noi pensiamo quella formazione del suono  e la sua immagine scritta come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come la sua anima, e il corrispondente significato come lo spirito del linguaggio. pensiamo, così, il linguaggio abitualmente in corrispondenza all’essenza dell’uomo, in quanto viene rappresentato come animal rationale, ossia come l’unità di corpo-anima-spirito. Ma come nell’humanitas dell’ homo animalis resta occultata l’ex-sistenza e con questa il rapporto della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisica del linguaggio nasconde l’essenza storica del suo essere, per la quale il linguaggio è la casa dell’Essere, fatta dall’Essere e di esso compenetrata. Onde la sua essenza deve essere pensata in corrispondenza all’Essere, ossia come questa corrispondenza stessa, cioè come la dimora dell’essenza umana.  
( Da Heidegger- Che cos’è la metafisica? -a cura di A. Carlini- Firenze- La Nuova Italia 1979 pp. 103-106)